martedì 12 maggio 2015

MARIA RIZZI PRESENTA "INVENTARIO DI SETTEMBRE" DI U. VICARETTI


Franco Campegiani, Umberto Vicaretti, Sandro Angelucci
collaboratori di Lèucade




PRESENTAZIONE INVENTARIO DI SETTEMBRE
DI UMBERTO VICARETTI


       “Scrivere sulla poesia di Umberto Vicaretti significa ‘de poesia loqui’; significa parlare di una poesia con la ‘P’ maiuscola.”.
       Così, Nazario Pardini, esordisce nel prefare Inventario di settembre: raccolta data alle stampe lo scorso dicembre, dall’editore Eugenio Rebecchi, per i tipi di Blu di Prussia.
       Autore di moltissimi e pregevoli testi esegetici, il Professore toscano sembra, qui, volerci mettere in guardia sull’attenzione da porre nella lettura affinché non sfugga la vastità e la profondità di un sentire che si basa, per esprimersi, sulla solidità ed eccellenza di un’impalcatura ritmico-stilistica di davvero rare ed intense sonorità.
       Che Umberto rappresenti una delle voci più alte e significative del panorama poetico contemporaneo, che segni indelebilmente la strada, ancora praticata, di un lirismo autentico, perché ispirato e connaturato, è irrefutabile. Ciò che, però, oggi, mi preme sottolineare è il risvolto che questa attentissima cura del canto e dell’armonia ha sul piano squisitamente spirituale.
       Nella nota editoriale, in calce alla raccolta, si legge in proposito: “Il lavoro è impeccabile sotto il profilo. . . tecnico, ma possiede, in più, una grande forza evocatrice.
       Ecco: è su quell’ “ in più ” che desidero fermarmi. Evocare: etimologicamente “chiamare fuori”, ma cosa, e da dove?
       Dare una risposta alla prima domanda potrebbe apparire scontato qualora si prendesse in esame soltanto l’aspetto memoriale (peraltro assiduamente presente ed elevato alla massima potenza nella sezione centrale, Dorme la mia città, dedicata in larga misura a L’Aquila ed alla sua triste vicenda: “O mia città caduta, / tra le tue strade mute e aggrovigliate / indenne un filo cerco di memorie. . .”).
       Eppure, sia nella chiusa della lirica cui si è fatto riferimento (“Anch’io con te, lenite le ferite, / risalirò Via delle Cento Stelle, / la faglia ancora aperta dentro al cuore”) sia in quella della poesia eponima (“Lentamente riannoda le sue fibre, / promessa come l’Araba Fenice, / al volo che riaccenda un tempo nuovo. // Allora poserò, / come Tommaso, / sopra le antiche mura la mia mano.”).
       Eppure – dicevo – s’intuisce una trasposizione del ricordo, una collocazione inedita – per quanto dolorosa – dello spleen che continua a far male e, proprio in virtù di questo, apre uno spiraglio di luce.
       Immediato il nesso analogico con l’evocazione, ed altrettanto sollecita la risposta anche alla seconda domanda: da dove viene ciò che si invita ad uscire? Dall’abisso interiore, da quell’universo che risponde al nome di anima; già, perché l’anima conserva tutto, molto di più della memoria, che non può spingersi oltre la razionalità del pensiero.
       Sono – queste – pagine della reminiscenza ma, non meno, pagine dell’oblio. Per contestualizzare la mia opinione inviterei i presenti alla riflessione sui versi che seguono:
       “Ora, / calvari salgo / e anelo immeritate redenzioni. / Trasmuto piano in ali di falena. / La strategia del ragno / non premia la tenacia della tela, / ma il volo smemorato di farfalla.”.
       È evidente: il concetto è ambivalente: da un lato, il ricorrere ad un piano prestabilito ed organizzato nei minimi particolari; dall’altro, il riconoscimento dell’inconsapevolezza; da una parte la necessità di una memoria matematica, infallibile, dall’altra il bisogno della follia: fallace, imprevedibile.
       Antinomiche verità, nelle quali il Poeta sa di essere contemporaneamente immerso. Tuttavia, ciò che, infine, viene premiato non è il ricordo ma l’oblio, non la staticità degli uccelli stanziali ma il volo “di esausti migratori, in viaggio / verso una nuova Terra.”.
       Di un’attualità sconvolgente il passo citato – non vi sembra? –. Siamo noi, tutti noi, i migranti che continuamente affondano nel Mediterraneo “ma il guscio vacillante che ci culla, (canta Vicaretti) / seme affidato ai vortici del mare / è già salvezza, / è già Terra Promessa.”.
       Basta con la retorica: prendiamo atto delle nostre responsabilità di uomini, insieme, accettando, purtroppo, l’irrisolvibilità del naufragio, la sua dura ma ormai comprovata realtà. Non fraintendetemi: cerchiamo, però, di ampliare il nostro sguardo se davvero vogliamo che la carezza lieve delle alghe (parafrasando ancora questi versi) ci aiuti a trovare il vero silenzio, non quello che grida e “che lasciamo / agli usci abbandonati delle case”.
       Perdonate la digressione ma – e torno strettamente alla poetica del Nostro – sono decisamente del parere che la lettura del libro richieda uno sforzo interpretativo supplementare per coglierne appieno tutte le sfumature e l’armonia stessa del dettato.
       In particolare, proprio a riguardo di una musicalità prelibata, esorterei il lettore a pasteggiarne l’aroma ( come fa un sommelier con un vino di qualità) in modo che nulla vada perduto: nemmeno una nota, nemmeno un effluvio degli intensi profumi di quella spremuta di sangue che l’animo dona a questa poesia.
       Non voglio tediarvi ma ritengo troppo importante l’aspetto formale perché lo stesso venga sottaciuto in un’analisi che vuole proporsi di essere il più possibile esaustiva.
       Concluderò, quindi, il mio intervento rifacendomi allo stile; mai, come in questa scrittura, rivelatore di sostanza, di non mistificati valori e contenuti.
       Uno stile classico, tradizionale ma non antico, sorpassato; modulato, melodico ma non melenso, stucchevole. Uno stile non succube ma padrone dei propri mezzi espressivi, delle figure retoriche, delle assonanze. Un verso che si distende nell’endecasillabo perché nella sua misura sente il proprio respiro.
       Umberto è poeta dalla lunga e consolidata carriera letteraria: conosce, perciò, perfettamente il suo (tra virgolette) mestiere, ma quello che lo distingue dai “mestieranti” – e chiudo il cerchio – è la sincerità, la lealtà con la quale scrive.
       Soltanto così – piaccia o non piaccia – si può evocare la voce del nostro alter-ego o, se volete, corteggiare la Musa perché si conceda, nella totale certezza di non ingannare nessuno.

Sandro Angelucci


    





       

1 commento:

  1. Un grazie di cuore, caro Sandro, per questo tuo contributo di notevole spessore esegetico: mi colpisce, della tua disamina, l’attenzione riservata all’aspetto memoriale della silloge, considerato non come sterile rivisitazione di un tempo ormai perduto, e nemmeno come semplice trait d’union tra passato e presente; nella silloge tu magistralmente ritrovi, invece, il momento memoriale come un avamposto, un passaggio strategico buono per innescare quel coraggio che occorre per “scommettere” sul futuro, che con felice espressione tu chiami “bisogno della follia”. E altrettanto significativo mi pare l’aver individuato, tra le righe dei miei versi, il tema della responsabilità, la necessità di bandire ogni forma di ipocrisia e di falsità; un appello diretto alla nostra coscienza di uomini, che tu non esiti a chiamare con il suo vero nome, ovvero “anima”, termine ormai caduto in disuso, data la generale e progressiva perdita di umanità e di senso del sacro che oggi si registra ovunque. Il tuo, caro Sandro, è davvero un dono graditissimo, prezioso, impagabile.

    Umberto Vicaretti

    P.S.
    Proprio in questo momento vengo informato della scomparsa, avvenuta alle prime ore dell'alba, dell’amico Gianni Rescigno, grande, vero Poeta. Egli era fraterno amico anche di Sandro Angelucci, che a lui ha dedicato anche un bellissimo saggio critico, “di Rescigno il racconto infinito”. Approfitto di questo spazio e di questo blog del caro Nazario per rendere omaggio alla sua memoria, al suo canto gentile e profondo, alla sua poesia saldamente ancorata alle ragioni della sacralità e dell’immanennza del divino nella nostra vita.

    Umberto Vicaretti

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