Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade |
Sinfonia, di Claudio Fiorentini
(Libreria
"Le storie" - Roma, 07-06-2017)
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Fare il vuoto
mentale, ascoltare le voci del silenzio. E' questo, da sempre, il compito del
poeta autentico, a prescindere dal necessario lavoro sul linguaggio per
affinare i propri strumenti espressivi. Ogni spirito creativo, se autentico, sa
di doversi affidare al proprio mondo interiore, metaforicamente alla propria
Musa. Parola, questa, divenuta sacrilega per quanti hanno in odio l'originalità,
l'unicità dell'esperienza creativa, e vorrebbero schiacciarla nel conformismo del
chiacchiericcio mondano. Sono certissimo che poeti come Claudio Fiorentini,
dediti all'ascolto delle voci interiori, non sarebbero giudicati filodoxoi da Platone, ovvero
"amanti degli spettacoli", e che, avendo in odio la frivolezza, non
verrebbero invitati a tacere neppure da quell'orso di Wittgenstein, con la sua
rude intimazione a tacere rivolta a chiunque non abbia nulla da dire, preferendo
ripetere nozioni altrui, o comunque parlando a vanvera, preso unicamente dal
proprio narcisismo.
Claudio esorta
espressamente se stesso, e i suoi colleghi poeti, così: "Smettiamola di
aspettarci che qualcuno ci dica sei bravo".
E' un poeta che pone al bando ogni retorica. Privo di enfasi, pratica la poesia
come autoanalisi e come esperienza dell'uomo comune, dell'uomo della strada che
cerca di essere semplicemente se stesso. Rifugge dagli effetti speciali e
ricorre raramente, il più delle volte per sarcasmo, alla metrica tradizionale, pur
essendone conoscitore raffinato ed esperto (in questa stessa silloge compaiono
un paio di sonetti). Poeti così è bene non tacciano, proprio in quanto la loro
voce non è una fanfara, ma è una voce che viene dal silenzio. Non lavorano di
fantasia, non danno la stura al sentimentalismo, allo psicologismo, né ad
alcuna forma di soggettivismo umano. Sferzano e maltrattano se stessi così: "Ora
silenzio / non parlerò se manca quella voce / che non è mia / ma
dell'Universo!".
E se pure può
capitargli, come lui stesso ammette, di scrivere sciocchezze, l'importante è "non
perdersi a piegar carte / ma scriverle, strapparle, stracciarle, lanciarle e
bruciarle / affinché nulla sia vano". L'importante è saper riconoscere la propria
vanità e il proprio cicaleccio, la
propria insipienza ed insulsaggine, e ciò è possibile solo accettandole e
vivendole, quelle sciocchezze, in prima persona: "Io navigo comunque / ...
/ perché solo navigando / saprò se è sogno o se è delirio / il vento / che
gonfia le mie vele". Bisogna prendere in mano la propria esistenza ("Vivi
senza fuggire / perché ciò che va non torna / e ciò che viene è nuovo")
imparando a fare autocritica, a riconoscere i propri difetti, senza sensi di
colpa, ma con l'unico intento di migliorarci in continuazione.
Che poi il senso di
questo miglioramento sta tutto nel tentativo di aderire alla propria natura, di
conformarsi a quello che si dovrebbe essere, e che si è secondo stampo
universale: "il fango con cui sono stato plasmato / la saliva con cui sono
stato modellato / e il soffio che ancora non ho respirato". Tutto ciò,
purtroppo, cade in oblio per causa delle tante sovrastrutture, dei troppi
pregiudizi e delle illusorie gabbie mentali che amiamo costruirci intorno. Sotto
questa pressione, la vera vita sfugge. Essa "fedele è stata in te fino
alla fine / mentre tu non la vedevi, / cieco nel volere altra vita che non
fosse lei". Ma "se un altro
Natale di regali e doni / passerà senza che tu capisca / che l'Universo ti
parla / non incolpare il cielo, gli angeli, il destino / perché sei tu che
arrivi tardi all'appuntamento / non loro".
Sta qui, a parer
mio, la chiave di lettura di questo testo assai singolare, che io trovo affine
alla mia idea di poesia e alla mia visione del mondo. E' una poesia che
definirei sapienziale, per certi versi addirittura sciamanica, puntata sul
mistero dell'essere, interrogativa e labirintica sul valore della vita, che
diviene piena di senso laddove si rinunci a conoscerne il senso, abbassando le
pretese della dea Ragione: "il senso c'è quando te ne freghi / quando non
lo cerchi / quando non te ne importa più nulla", dice Fiorentini. Il che
non vuol dire che la domanda non debba essere posta, ma semplicemente che il
suo ruolo sta nell'esaltare, anziché nell'inaridire le radici del mistero. Se
vogliamo, è il gioco del perché dei
fanciulli: un gioco infinito, dove le risposte non sono mai definitive e le
domande, fini a se stesse, hanno il solo scopo di ampliare e approfondire la
consapevolezza del mistero.
Non coltivare
certezze, infatti, non significa vivere nel dubbio, visto che, in fondo, anche
il dubbio è una certezza, ma significa vivere nel mistero: "non permettere
che il dubbio ti sia d'intralcio / ma vivilo e sii senza certezze, senza
riferimenti / spudoratamente / te stesso". Non si sente sconvolto, il
poeta, dalla maestà dell'universo, dalla grandezza del mistero, ma in essa coinvolto,
si sente tessera di un immenso mosaico, "la parte solista di una sinfonia
/ fatta di suoni e silenzi / e di natura". Vana e banale è l'esistenza che
si lascia travolgere dal tempo che scorre. E allora, si chiede Claudio, perché
non tentare di "essere per un giorno, per un attimo, per un battito di
palpebra / liberi come Dio?". Il Dio della vita, ovviamente, e non quello
dei divieti che uccidono la vita.
Dice Fiorentini, e
io con lui, che se Dio fosse quello di cui parlano le religioni, "non ci
troveremmo ora con un mondo ridotto così male". Dio non è il Padre padrone,
egli dice, "che ci schiaffeggia se sbagliamo / e ci ricompensa se siamo
bravi". Ci ha lasciato il libero arbitrio e ora "il problema è solo
nostro". Dobbiamo imparare a rispettare noi stessi e tutto ciò che ci
respira intorno. La felicità non sta nel successo, ma "è un volo di
rondini al mattino / un cielo stellato / un fiore sul selciato / una
conversazione con un amico / un bacio di tua figlia... / La felicità è nello
stupore che ti invade / quando scopri che fai parte dell'Universo". Felicità
è amare, senza tuttavia divenire schiavi dell'amore: "io voglio vivere,
non esserti schiavo". E tuttavia "se un solo respiro / che non sia
per te / mi fluisse dentro / allora non sarei degno di amarti".
L'amore è rispetto:
"ti vedo come sei, non come ti voglio". L'amore è libertà, è
padronanza di se stessi: "se perdessi il controllo quando ti guardo / io
non sarei io, ma un altro". L'infatuazione è un'altra cosa, seppure anch'essa
può essere vissuta con padronanza e rispetto. E' questo il leitmotiv della raccolta: la padronanza di se stessi. Il mondo
tenta di rubarci a noi stessi, ma se cadiamo nella trappola finiamo per
lasciarci vivere, anziché vivere. Così non riusciamo a cogliere la vera vita,
quella che ci freme dentro. Purtroppo ci perdiamo nel mondo, nel tempo. Viviamo
di passato e di futuro, persi nelle memorie e nelle attese, "intanto
l'Oggi accade / e tu / ti ostini a chiamar vita il prima e il dopo". Allora,
dice il poeta, occorre "guarire da questa demenza / e scoprirsi vivi come
non mai / per assaporare una ciliegia / e ridere all'amore che viene, che va /
e che mai si ripete".
Non si tratta di
annullare il tempo, ma di saperlo vivere come componente di un'esperienza
duale, il cui rovescio della medaglia è ciò che sta fuori dal tempo, ciò che ci
vive dentro, la cosiddetta eternità,
che è come dire l'attualità, la
presenza di noi stessi a noi stessi a dispetto di ogni folle corsa. E allora,
passi pure il tempo, l'importante è non perdere tempo, è viverlo con pienezza. Il
poeta si sente immerso in questa dicotomia, in questa biforcazione, in questa inscindibile
unità degli opposti. Dichiara ad esempio di preferire la notte al giorno, ma sa
che senza il giorno non può arrivare la notte con la sua catartica forza
rigeneratrice. C'è sempre una dualità, una circolarità, ma la dualità più
importante si espleta nel dialogo con se stessi, nello sdoppiamento interiore, nella
conversazione tra spirito e ragione.
In "Speculare 1" e "Speculare 2", dove tra
l'altro la dualità è sperimentata nelle due forme maschili e femminili dello yin e dello yang, compaiono interessanti riflessioni sul vero se stesso che sfugge ad ogni schema e ad ogni catalogazione.
Sta lì, in quell'energia spirituale, il quid
che ci rende unici, creativi, refrattari ad ogni plagio, ad ogni omologazione.
Ed è la sostanza propria dell'arte, come di ogni altra opera creativa. Fiorentini
spesso si chiede che cos'è la poesia ed è profondamente scettico sui poeti che
"cercano l'armonia delle parole". Costoro, egli dice, "non
trasmettono vita", mentre invece "i poeti che scavano dentro / quelli
forse emettono suoni e ritmi che vibrano al sole". E dice a se stesso:
"Dove il silenzio è la misura. / Se non sei lì / allora taci perché non ti
stai cercando".
L'esoterismo non
c'entra. Non ci sono scuole iniziatiche, i maestri sono interiori, stanno
dentro noi stessi, e ci insegnano ad essere liberi. L'unica vera scuola è la
vita, la strada. E' lì la poesia di Fiorentini, nei "palazzi vecchi,
sporchi, con i muri scrostati / quelli da dove entra e esce la gente comune /
gente che incontri dal salumiere e dal giornalaio". Gente che apprende
dalla vita, sia dal Bene che dal Male, perché anche il Male insegna a vivere e
contribuisce alla crescita coscienziale. Il Male va accettato, non in modo
remissivo, "come una vittima che fa del suo star male / una
bandiera", dice Fiorentini. E aggiunge: "Stare nel mondo è bello,
sempre!". Stupenda la metafora dell'incantatore di serpenti che troviamo
nella poesia intitolata "Serpe",
posta verso la conclusione della raccolta.
L'incantatore non
s'avvede che ipnotizzando la serpeggiante
natura finisce per inaridire "anche l'angelo che vive tra cielo e
terra". Così il poeta, assimilandosi al serpe, lo implora: "apri la
cesta / lascia che io strisci fino a capire come si fa a volare / perché il
rettile è canto di rondine capovolto". Trovo che questa sia una poesia davvero
straordinaria. E, per concludere, ho la netta sensazione che la presente
silloge costituisca un approdo molto importante per Claudio Fiorentini, la cui
scrittura viene vertiginosamente maturando verso riflessioni sempre più sollecite
e attente verso i temi della vita e della morte, del bene e del male, dell'autenticità
e dell'inautenticità, al di fuori di ogni schema incapace di accettare la vita
nel suo insieme di aspetti positivi e negativi.
Franco Campegiani
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