giovedì 2 novembre 2017

FRANCO CAMPEGIANI LEGGE: "DALLE RADICI AL CIELO" DI GIUSY CAFARI PANICO


Dalle radici al cielo, di Giusy Cafari Panico
"Pegasus Edition" 2015

Franco Campegiani,
collaboratore di lèucade


"Dalle radici al cielo", di Giusy Cafari Panico (Pegasus Edition 2015) affronta il tema del viaggio esistenziale attraverso una metafora vegetale ampiamente articolata. Sono all'incirca settanta poesie dove prende campo una ben precisa visione del mondo giuocata sulla consapevolezza del male di vivere, su di un doloroso smarrimento coscienziale e insieme su di un vitalismo vorticoso. Il leitmotiv del sofferto canto sta, potremmo dire, nel dinamismo urgente alla vita, nella necessità di moto che si oppone alla stasi e che metaforicamente proietta verso il cielo l'albero dalle immobili radici. Non lo strappa, certo, dalle radici, ma lo spinge in alto, e questo è fondamentale per comprendere una poetica del divenire che non taglia i ponti con il passato, seppure non mancano momenti di eccessivo slancio che sembrano catapultare l'esistenza verso un vitalismo entropico totalmente logorante e dispendioso.
Di tale contraddizione è fortemente imbevuto il pensiero poetante di Giusy Cafari Panico e si presenta in tutto il suo fascino fin dalla nota introduttiva. Dopo la splendida prefazione di Hafez Haidar, la poetessa si chiede infatti: "E se il passato fosse sempre in espansione, in un tempo circolare e misterioso che solo la Natura conosce?". Mi chiedo, a mia volta: come fa ad essere in assoluta "espansione" un universo "circolare", destinato come tale a tornare perennemente su se stesso? ma - si sa - alla poesia non bisogna chiedere questa linearità, e non sarò certo io a farlo. Il fascino della poesia - lo sappiamo - è tutto giuocato sull'armonia dei contrari, sulla capacità di evocare il bianco parlando del nero, e viceversa. Ma in fondo, a ben guardare, è proprio questa la legge della vita, dove ogni inizio pretende la fine e ogni fine l'inizio. Affinché il moto non sia immobile nella sua motilità, è necessario che possa muoversi anche in direzione contraria, a ritroso verso gli inizi, verso la sorgente del moto universale.
Il caos e l'ordine, il movimento e la quiete, corrono l'uno verso l'altra. Così il nomadismo e la stanzialità. "Affonderò radici /  dove troverò terra feconda", scrive la poetessa. E prosegue: "Via il sangue, via il peso dei ricordi: / siamo creati per andare / dove natura ci rende più forti". E' questo il pensiero-guida di questa silloge. Le radici non catturano, non imprigionano, ma al contrario spingono in alto, verso il cielo, verso l'altrove, per cui il domani porta il passato con sé, come il seme nel frutto. Terra e cielo sono un tutt'uno. "Le torri di Babele crollano sempre / quando si perde il comune sentire, / quando l'ansia angosciante di salire / dimentica la semplicità della nuda terra". Operano in noi, pertanto, le radici, ci vivono dentro, a prescindere dal ricordo che noi ne abbiamo. Al punto che, frugando nei cassetti, fra i suoi vecchi scritti, la poetessa ha la sensazione di essere una ladra che sta rubando "di nascosto / nelle tasche di un morto".
La nostalgia, lei scrive, è "il male acuto", "la voglia di ritorno / che ammalia tutti", ma i ricordi, seppure forti e struggenti, sono "voci fantasma / che non tornano più". Poppare alle mammelle del passato, succhiare linfa dalle radici, pertanto, non deve significare proiettarsi indietro nel tempo, ma slanciarsi verso altri lidi, nell'ulteriorità. E non con l'amarezza che il passato è morto e sepolto e che tutto è miseramente destinato a dissolversi, bensì nella certezza di una forza incorruttibile che si arricchisce di tutte le esperienze e di tutte le corruzioni, spendendosi e spandendosi senza logorarsi mai. Flessioni indubbiamente non mancano in questa poetica, specie nella parte finale del testo, dove a volte trapela una convinta e dolorante certezza entropica. Come laddove è scritto: "Tornare, / verbo che non esiste. / Niente può tornare. / ... / Energia si disperde per non più tornare".
Subito dopo, tuttavia, in un altro testo ("Io non appartengo"), la poetessa dichiara di non appartenere al mondo, ma di appartenere a se stessa: "al mio percorso incognito / alle mie gambe che non so / dove mi portano, / ai miei occhi che nemmeno / consultano una mappa". C'è dunque un'energia non degradabile, non soggetta alla dispersione totale, un quid sempre vivo e vitale, inattaccabile dallo scorrere del tempo, che riesce ad assorbire, potenziandosi, le esperienze tumultuose della vita. Dichiara infatti l'autrice, nella sua nota finale al testo: "La memoria è indispensabile per comprendere chi siamo... Ma ricordare non serve a nulla se la memoria non si trasforma in autocoscienza, se le esperienze di vita, prima di tutto l'amore - linfa vitale e nutrimento sublime dell'Uomo - non diventano un tuffo dalla terra al cielo".
In questa concezione entropica, Ordine e Caos sono funzionali l'uno all'altro, così come degradazione e rigenerazione. Dalla putrefazione rinasce infatti la vita. E viceversa. I momenti di sconforto, certo, non mancano in questa silloge e sono più che comprensibili: "Siamo niente siamo nulla, / microbi vanitosi / in viaggio su una macchina / usurata e trascurata, / in balia del tempo". Le relazioni sono fuggevoli, spesso anche quelle amorose: "connessioni e disconnessioni / quasi istantanee / rendono estranea a me stessa / la donna che ero solo pochi istanti fa. / E tu eri già inesistente, / contenitore passivo / del mio eterno bisogno / dell'Altro". Il desiderio di fuggire da tutto e da tutti, finanche da se stessa, è fortissimo. C'è a volte il terrore di fermarsi per guardarsi dentro: "nudi e timorosi / come Adamo ed Eva / ci guarderemmo un attimo / e scapperemmo via".
E ancora: "Troppo azzurro / il cielo oggi, / troppo limpido e brillante / sfacciato e impudico. / Mi toglie maschere e vestiti / e nuda non so dove nascondermi". Giusy è ben consapevole che sta in questa fuga da se stessi la radice di ogni sconfitta e di ogni perdizione: "Mi manco tanto. / Dove sono finita, / dove sono sparita? / Chi ha preso il mio posto?". Strappare le maschere, allora, uscire dai nascondigli. E "Sst non mi disturbate, / non fatemi perdere il sentiero, / non imprigionatemi nell'ombra". L'ombra è salvifica solo se, anziché offuscare la luce, spinge a cercarla. Perché spontaneamente i due poli si cercano. Come la notte e il giorno. Come il volo dei gabbiani, sorpresi a fare "un tuffo al contrario", dal mare verso il cielo". L'alto e il basso, l'orizzontale e il verticale, occorrono l'uno all'altro: "Felice è il falconiere / che tiene al dito il suo rapace / e lo lancia nell'aria / sicuro del ritorno".
Tornare dunque, tornare a se stessi. Ma come tornare se lo specchio scompare o, peggio, si rompe? Ci sono momenti di negatività particolarmente intensi, come in questi versi, ad esempio: "Segui il tuo istinto / e ti illudi di decidere / il tuo vivere. / Così pensavo / mentre ero invece / solo confusa nel branco / a pascolare". L'uomo è perennemente in esilio da se stesso, e tuttavia nei suoi rari momenti di grazia scopre che il se stesso non è una chimera. Esiste realmente. Ed ecco balenare una luce nelle tenebre: "Anche Gesù amava Simone, / tre volte traditore, / e lo fece diventare Pietro". Per poi concludere: "Se dovessi sezionare in me / una parte da salvare, / come la carne migliore / è quella vicina all'osso, / sceglierei quella parte di buio / che è vicina alla luce". Ed è l'armonia dei contrari. Se non si cade, non ci si può rialzare dalle cadute: "Vola alto nel cielo / ... / Splendi e risorgi / come il sole, / che sembra morire / ogni giorno / per poi trionfare ancora".
In molte poesie, come "Terremoto", "Frana" ed altre, prende campo il senso della catastrofe, dell'apocalisse, dell'olocausto imminente. In "Oblivion", la visione nichilistica ed entropica del mondo si esprime in forme radicali: "Apre la bocca la terra / e inghiotte erba e carne, / onnivora nella sua fame. / Mangia e poi dimentica, / non lascia tracce / obbedendo all'Oblio, / castigatore di vanità, / unificatore di molteplicità. / Signore assoluto, / alla fine unico Dio". La salvezza, in questa visione del mondo, arriva dal male, dal dolore, dalle ferite, dal negativo: "Non c'è cambiamento / senza strappo. / Non c'è nascita senza dolore. / Non c'è morte senza dolore. / Non c'è vita senza dolore". E poi: "Solo dal disordine / nasce il futuro". C'è bisogno di crisi, di azzeramenti per dare inizio a nuove avventure. Così la poetessa può dire: "Il cammino a ritroso / solo a un punto mi riporta: / a Te, inizio di Tutto. / Sei Tu la mia radice, / la pace, il giusto approdo, / il fine ultimo / della mia ascendenza", con riferimento esplicito all'Intelligenza Sovrana, all'alfa e all'omega della vita universale.

Franco Campegiani





  



4 commenti:

  1. Non ero presente a quest'evento per motivi che esulavano dalla mia volontà, ma l'ho seguito con particolare affetto. Giusy Cafari Panico è un'Artista completa che si cimenta in narrativa e in poesia con lo stesso squisito talento. La recensione di Franco rende pieno merito a questa Silloge, che non ho avuto l'onore di leggere. D'altronde un poeta e filosofo come il nostro amico
    non poteva che calarsi con intensità e nerbo di critico letterario nell'anima e nell'Opera di Giusy. Ed è incredibile come si possa scoprire, leggendolo, che ogni Raccolta di Poesie e ogni libro di narrativa riescano a entrare in sintonia con la sua armonia dei contrari. Teoria che è specchio della vita nella sua interezza eche ognuno di noi sta introiettando.
    Ringrazio i relatori della serata, Franco e Sandro Angelucci, la lettrice Loredana D'alfonso e Paolo Buzzacconi, nell'inedita, vincente veste di moderatore e abbraccio Giusy virtualmente, in attesa di rivederla di persona in tutta la sua luminosità e il suo calore. Un altro abbraccio al nostro prezioso Nazario, che ci accoglie nella sua isola.
    Maria Rizzi

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  2. Errata corrige: la lettrice è stata la nostra splendida Federica Sciandivasci. Le porgo le più sentite scuse e la stringo forte!
    Maria Rizzi

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  3. Bellissima lettura di Franco Campegiani per la Poetessa Panico di cui ho letto qualcosa. Franco poeta-critico e filosofo rende appieno la necessità di liberarsi per un oltre che spinge in altre direzioni, necessità di una nudità senza la quale neppure la poesia avrebbe senso d'esistere.

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    1. Concordo in toto con quanto affermato da Patrizia Stefanelli sull'operato critico dell'amico Franco Campegiani.

      Sandro Angelucci

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