Dalle radici al cielo, di Giusy
Cafari Panico
"Pegasus Edition" 2015
Franco Campegiani, collaboratore di lèucade |
"Dalle radici
al cielo", di Giusy Cafari Panico (Pegasus Edition 2015) affronta il tema
del viaggio esistenziale attraverso una metafora vegetale ampiamente articolata.
Sono all'incirca settanta poesie dove prende campo una ben precisa visione del
mondo giuocata sulla consapevolezza del male di vivere, su di un doloroso
smarrimento coscienziale e insieme su di un vitalismo vorticoso. Il leitmotiv del sofferto canto sta,
potremmo dire, nel dinamismo urgente alla vita, nella necessità di moto che si
oppone alla stasi e che metaforicamente proietta verso il cielo l'albero dalle
immobili radici. Non lo strappa,
certo, dalle radici, ma lo spinge in alto, e questo è fondamentale
per comprendere una poetica del divenire che non taglia i ponti con il passato,
seppure non mancano momenti di eccessivo slancio che sembrano catapultare
l'esistenza verso un vitalismo entropico totalmente logorante e dispendioso.
Di tale
contraddizione è fortemente imbevuto il pensiero poetante di Giusy Cafari
Panico e si presenta in tutto il suo fascino fin dalla nota introduttiva. Dopo
la splendida prefazione di Hafez Haidar, la poetessa si chiede infatti: "E
se il passato fosse sempre in espansione, in un tempo circolare e misterioso
che solo la Natura conosce?". Mi chiedo, a mia volta: come fa ad essere in
assoluta "espansione" un universo "circolare", destinato
come tale a tornare perennemente su se stesso? ma - si sa - alla poesia non
bisogna chiedere questa linearità, e non sarò certo io a farlo. Il fascino
della poesia - lo sappiamo - è tutto giuocato sull'armonia dei contrari, sulla capacità di evocare il bianco parlando
del nero, e viceversa. Ma in fondo, a ben guardare, è proprio questa la legge della
vita, dove ogni inizio pretende la fine e ogni fine l'inizio. Affinché il moto
non sia immobile nella sua motilità, è necessario che possa muoversi anche in
direzione contraria, a ritroso verso gli inizi, verso la sorgente del moto
universale.
Il caos e l'ordine,
il movimento e la quiete, corrono l'uno verso l'altra. Così il nomadismo e la
stanzialità. "Affonderò radici /
dove troverò terra feconda", scrive la poetessa. E prosegue: "Via
il sangue, via il peso dei ricordi: / siamo creati per andare / dove natura ci
rende più forti". E' questo il pensiero-guida di questa silloge. Le radici
non catturano, non imprigionano, ma al contrario spingono in alto, verso il
cielo, verso l'altrove, per cui il domani porta il passato con sé, come il seme
nel frutto. Terra e cielo sono un tutt'uno. "Le torri di Babele crollano
sempre / quando si perde il comune sentire, / quando l'ansia angosciante di
salire / dimentica la semplicità della nuda terra". Operano in noi, pertanto,
le radici, ci vivono dentro, a prescindere dal ricordo che noi ne abbiamo. Al
punto che, frugando nei cassetti, fra i suoi vecchi scritti, la poetessa ha la
sensazione di essere una ladra che sta rubando "di nascosto / nelle tasche
di un morto".
La nostalgia, lei scrive,
è "il male acuto", "la voglia di ritorno / che ammalia tutti",
ma i ricordi, seppure forti e struggenti, sono "voci fantasma / che non
tornano più". Poppare alle mammelle del passato, succhiare linfa dalle
radici, pertanto, non deve significare proiettarsi indietro nel tempo, ma
slanciarsi verso altri lidi, nell'ulteriorità. E non con l'amarezza che il
passato è morto e sepolto e che tutto è miseramente destinato a dissolversi, bensì
nella certezza di una forza incorruttibile che si arricchisce di tutte le
esperienze e di tutte le corruzioni, spendendosi e spandendosi senza logorarsi
mai. Flessioni indubbiamente non mancano in questa poetica, specie nella parte
finale del testo, dove a volte trapela una convinta e dolorante certezza
entropica. Come laddove è scritto: "Tornare, / verbo che non esiste. /
Niente può tornare. / ... / Energia si disperde per non più tornare".
Subito dopo, tuttavia,
in un altro testo ("Io non appartengo"), la poetessa dichiara di non
appartenere al mondo, ma di appartenere a se stessa: "al mio
percorso incognito / alle mie gambe che non so / dove mi portano, / ai miei
occhi che nemmeno / consultano una mappa". C'è dunque un'energia non degradabile,
non soggetta alla dispersione totale, un quid
sempre vivo e vitale, inattaccabile dallo scorrere del tempo, che riesce ad assorbire,
potenziandosi, le esperienze tumultuose della vita. Dichiara infatti l'autrice,
nella sua nota finale al testo: "La memoria è indispensabile per
comprendere chi siamo... Ma ricordare non serve a nulla se la memoria non si
trasforma in autocoscienza, se le
esperienze di vita, prima di tutto l'amore - linfa vitale e nutrimento sublime dell'Uomo
- non diventano un tuffo dalla terra al cielo".
In questa concezione
entropica, Ordine e Caos sono funzionali l'uno all'altro, così come
degradazione e rigenerazione. Dalla putrefazione rinasce infatti la vita. E
viceversa. I momenti di sconforto, certo, non mancano in questa silloge e sono più
che comprensibili: "Siamo niente siamo nulla, / microbi vanitosi / in
viaggio su una macchina / usurata e trascurata, / in balia del tempo". Le
relazioni sono fuggevoli, spesso anche quelle amorose: "connessioni e
disconnessioni / quasi istantanee / rendono estranea a me stessa / la donna che
ero solo pochi istanti fa. / E tu eri già inesistente, / contenitore passivo /
del mio eterno bisogno / dell'Altro". Il desiderio di fuggire da tutto e
da tutti, finanche da se stessa, è fortissimo. C'è a volte il terrore di
fermarsi per guardarsi dentro: "nudi e timorosi / come Adamo ed Eva / ci
guarderemmo un attimo / e scapperemmo via".
E ancora: "Troppo
azzurro / il cielo oggi, / troppo limpido e brillante / sfacciato e impudico. /
Mi toglie maschere e vestiti / e nuda non so dove nascondermi". Giusy è
ben consapevole che sta in questa fuga da se stessi la radice di ogni sconfitta
e di ogni perdizione: "Mi manco tanto. / Dove sono finita, / dove sono
sparita? / Chi ha preso il mio posto?". Strappare le maschere, allora,
uscire dai nascondigli. E "Sst non mi disturbate, / non fatemi perdere il
sentiero, / non imprigionatemi nell'ombra". L'ombra è salvifica solo se,
anziché offuscare la luce, spinge a cercarla. Perché spontaneamente i due poli
si cercano. Come la notte e il giorno. Come il volo dei gabbiani, sorpresi a
fare "un tuffo al contrario", dal mare verso il cielo". L'alto e
il basso, l'orizzontale e il verticale, occorrono l'uno all'altro: "Felice
è il falconiere / che tiene al dito il suo rapace / e lo lancia nell'aria /
sicuro del ritorno".
Tornare dunque,
tornare a se stessi. Ma come tornare se lo specchio scompare o, peggio, si
rompe? Ci sono momenti di negatività particolarmente intensi, come in questi
versi, ad esempio: "Segui il tuo istinto / e ti illudi di decidere / il
tuo vivere. / Così pensavo / mentre ero invece / solo confusa nel branco / a
pascolare". L'uomo è perennemente in esilio da se stesso, e tuttavia nei
suoi rari momenti di grazia scopre che il se stesso non è una chimera. Esiste
realmente. Ed ecco balenare una luce nelle tenebre: "Anche Gesù amava
Simone, / tre volte traditore, / e lo fece diventare Pietro". Per poi concludere:
"Se dovessi sezionare in me / una parte da salvare, / come la carne
migliore / è quella vicina all'osso, / sceglierei quella parte di buio / che è
vicina alla luce". Ed è l'armonia dei contrari. Se non si cade, non ci si
può rialzare dalle cadute: "Vola alto nel cielo / ... / Splendi e risorgi
/ come il sole, / che sembra morire / ogni giorno / per poi trionfare
ancora".
In molte poesie,
come "Terremoto", "Frana" ed altre, prende campo il senso
della catastrofe, dell'apocalisse, dell'olocausto imminente. In
"Oblivion", la visione nichilistica ed entropica del mondo si esprime
in forme radicali: "Apre la bocca la terra / e inghiotte erba e carne, /
onnivora nella sua fame. / Mangia e poi dimentica, / non lascia tracce /
obbedendo all'Oblio, / castigatore di vanità, / unificatore di molteplicità. /
Signore assoluto, / alla fine unico Dio". La salvezza, in questa visione
del mondo, arriva dal male, dal dolore, dalle ferite, dal negativo: "Non
c'è cambiamento / senza strappo. / Non c'è nascita senza dolore. / Non c'è
morte senza dolore. / Non c'è vita senza dolore". E poi: "Solo dal
disordine / nasce il futuro". C'è bisogno di crisi, di azzeramenti per
dare inizio a nuove avventure. Così la poetessa può dire: "Il cammino a
ritroso / solo a un punto mi riporta: / a Te, inizio di Tutto. / Sei Tu la mia
radice, / la pace, il giusto approdo, / il fine ultimo / della mia
ascendenza", con riferimento esplicito all'Intelligenza Sovrana, all'alfa
e all'omega della vita universale.
Franco
Campegiani
Non ero presente a quest'evento per motivi che esulavano dalla mia volontà, ma l'ho seguito con particolare affetto. Giusy Cafari Panico è un'Artista completa che si cimenta in narrativa e in poesia con lo stesso squisito talento. La recensione di Franco rende pieno merito a questa Silloge, che non ho avuto l'onore di leggere. D'altronde un poeta e filosofo come il nostro amico
RispondiEliminanon poteva che calarsi con intensità e nerbo di critico letterario nell'anima e nell'Opera di Giusy. Ed è incredibile come si possa scoprire, leggendolo, che ogni Raccolta di Poesie e ogni libro di narrativa riescano a entrare in sintonia con la sua armonia dei contrari. Teoria che è specchio della vita nella sua interezza eche ognuno di noi sta introiettando.
Ringrazio i relatori della serata, Franco e Sandro Angelucci, la lettrice Loredana D'alfonso e Paolo Buzzacconi, nell'inedita, vincente veste di moderatore e abbraccio Giusy virtualmente, in attesa di rivederla di persona in tutta la sua luminosità e il suo calore. Un altro abbraccio al nostro prezioso Nazario, che ci accoglie nella sua isola.
Maria Rizzi
Errata corrige: la lettrice è stata la nostra splendida Federica Sciandivasci. Le porgo le più sentite scuse e la stringo forte!
RispondiEliminaMaria Rizzi
Bellissima lettura di Franco Campegiani per la Poetessa Panico di cui ho letto qualcosa. Franco poeta-critico e filosofo rende appieno la necessità di liberarsi per un oltre che spinge in altre direzioni, necessità di una nudità senza la quale neppure la poesia avrebbe senso d'esistere.
RispondiEliminaConcordo in toto con quanto affermato da Patrizia Stefanelli sull'operato critico dell'amico Franco Campegiani.
EliminaSandro Angelucci