La poesia di Maria Luisa Tozzi tra segni mnestici di Kronos e suggestioni
di Kairós
Stefania Cavazzon
I testi di
Maria Luisa Tozzi hanno i requisiti per poter essere riconosciuti poetici. Il
loro fluire si attiene allo scorrere sequenziale dell’esistenza, mentre ne
definiscono il valore e la designazione verso l’oltre: così, dalla prima
raccolta Dal margine, ai Commenti in Come l’alba nel suo giorno, a Girasoli nella sera, il tempo (cronologico, mnestico, psicologico)
muta il suo concreto porsi in concetto di destino e di sacralità.
La poetessa non
ricerca soltanto il tempo perduto, proprio o altrui - in quanto ormai trascorso o non abbastanza
vissuto, suscitando gli indefiniti atti della memoria (comunque attivissima in
lei), fulcro amoroso di ogni legame - ma soprattutto quello che resta sospeso
fra noi e il mistero dell’esistere, l’astrazione che ci priva della realtà
temporale, la fine del “succedere”, già avvertita nel suo perpetuo scorrere,
non solo individualmente, ma in una consapevolezza corale: l’ora zero in cui calme contraddizioni/annullano/le
nuvole mutanti.
Il percorso di Girasoli nella sera è un continuum
sottile, un filo (d’Arianna si
chiamava) o linea d’ombra, con cui si
dipanano tutte le sere e le mattine del mondo, rese corporee, vive, da parole
magiche riflesse in un’architettura di vetro. Sono «... parole notturne» e «parole di luce
bianca.»; «parole celate», «parole che atterrano» e «parole vive*: da «al mattino, verso le
quattro» al «... crepuscolo a
sciarpe/rosse offuscate»-, da «nel sole immobile» alle notti degli angeli». E ancora da «Oh, se in un’alba
perfetta...» a «... È talvolta il
giardino/dell’anima affranto/da temporali e si flette/sull’oggi disadomo/ma è
lei/che attende primavere e colori/ad osare il profumo/al crepuscolo/cullandolo
fino all’aurora», a «C’era l’autunno
d’oro...».
I
giorni, le notti, le stagioni, i momenti dello spirito e lo sguardo
che cattura l’invisibile, il mito, la fiaba, la storia, le storie: tutto si
muove, si trasforma, si arresta, riprende il suo sogno itinerante fra natura e
paese, città e avoli e arcane figure che appaiono e lampi di luce e profumo di
caffè.
Il tempo nella sua totalità percepita, nel
suo frammentario divenire e terminare, disegna continenti e regioni, modi di
essere e di apparire, linguaggi e simboli,
un’umanità circoscritta o vasta, essenze e privazioni, tenerezze infinite,
altre disattese infinità. E addirittura ecco<Se avesse un limite il tempo... forse salverei dalla pena/ il pensiero inesausto/che oscilla/tra quesiti e
congetture». La si potrebbe definire con affettuosa illazione, una trama geo-alchemica,
anche esoterica, in cui riconoscere i nostri tanti e disarmati destini, con cui
combattere vincere l’ultima tappa ancor più solitaria e metamorfica della
morte: «... E includendo utopie/in remote certezze,/le pare sia possibile/non morire più soli/come per tutti
accade».
Così, da un approccio di poesia novecentista, ermetica, allusiva, costruita con amabili rifrazioni dentro
una appartata, privata aristocrazia di pensiero e forma, Maria Luisa Tozzi giunge ad architettare una sospensione alternativa al tempo,
quell’insieme di tracce metafisiche che legano tutte le fasi in un’unicità perfetta.
Sta in questa regalità, che la poetessa riconosce e dona alla scrittura poetica, di cui si serve anche nei
suoi percorsi di archivista, la vera chiave per decifrare il valore della raccolta, nel tentativo nobile, cioè, di renderci un universo alternativo,
severamente pietoso, accorato e curioso, dotto, mai arreso se non alla saggia propensione di un’intuizione arcana, alta ed altra, con la
quale salvare e conservare e far alitare i segni di una sacralità presente nel vivere e nel morire: nel fascinoso viaggio che ci apre la porta della
sapienza e, ancor più, della purezza che la sottintende; «... E tu, elegia,/tornerài canto eroico».
All’interno di tale stigma contemplativo, Maria Luisa in Come l'alba nel suo giorno (1999) - romanzo in forma di
saggio, intersecato da spazi poetici, epicedio per due giovani sposi, morti tragicamente - già evolve dalla consapevolezza di un continuo
presente, verso l’oltre. E l’intelligere sul presente, attraversato da interrogativi, sofferenza, morte, la rende attenta e poi cosciente
della «sostanza di cose sperate»: giacché ogni vita mancata lascia l’impronta da seguire per ogni vita vissuta più a lungo. L'impronta è umana, ma porta più in alto e più
lontano (E. Ferri, prefazione).
Sembra
utile allora, per un’analisi esaustiva, attardarsi con una retrospettiva ad
esplorare anche il testo poetico Dal margine (1995) e recuperare, dalle prime pagine, il
filo conduttore, il topos che lega le raccolte, pur differenziandole per contenuto
e stile. Leggiamo-’le guerre a un treno
di distanza…”, “…Lunigiana dagli occhi/scuri…di itineranti pellegrini/di furfanti e guerrieri/com’eri bella nel
’46.. «... Si spegnevano/i rumori d’autostrada”…«Sotto
gli angoli retti di altre strade/rivedo il rosa calmo dell’inverno/i tunnel
familiari/delle verdi carraie...», «Il rumore del treno». Dunque, benché l’autrice non abbia percorso che
un rassicurante andirivieni tra due regioni confinanti (Toscana ed Emilia
Romagna), viene immediato percepire dai suoi versi - qui più concretamente mnestici
- la densità di transumanza, ancor meglio, di sintomo esule, dello slittamento
delle proprie ragioni di appartenenza. Inizia la necessità della recherche, come primo tentativo di ritrovare una familiarità
perduta, di ritrovarsi. Ciò che ella porta con sé - nei continui spostamenti,
nelle nuove conquiste, nei ritorni commossi o faticosi - è lo smarrimento teso
a ricostituirsi identità; la metamorfosi costante e lenta che si attanaglia ai
luoghi d’origine e, al tempo stesso, se ne distacca, per fissarli nella sospensione
della memoria e popolarli di mythos (tensione teneramente dichiarata anche dall’uso
della foto materna in copertina). Ai primi atti, però, il processo è troppo doloroso
e la parola sbanda fra realtà ingombranti - «... c’è da portare il rame nel canale./Chissà
se basteranno/aceto e crusca/per farmelo brillare/...» - e visioni
sottili: «Seppe già all’alba/della pioggia d’oro/e si assopì/nella luce di
quiete/ fra i muri secchi/e l’eco del mare...». In Dal margine il tempo non è
sùbito un’astrazione perfetta, è sovraccarico di riferimenti concreti, di vita
reale, di cose, come diremmo istintivamente: cose e luoghi e
persone che ancora muovono aria coi gesti. L’io scrivente naviga, sì, nella virtualità
della parola, ma è Ulisse femmina, fra tempeste, apparizioni e porti, che l’anima
non è pronta a domare, anche se già sa che domerà: «... Tu non sei qui/e falso era lo scatto
della porta./Immateriale improvvisa/giunge l’aria del freddo/davanti ai ceppi/solitari
di cenere/e non ritrovo le tue mani gentili/stese per riscaldarsi»; «... E dunque la tua assenza oggi è
finzione/come la conta per il nascondino..«Avevo un prato e un sogno/da attraversare/ma
ho preferito non calpestarli/e guardare dal margine». Ecco il margine; la soglia che ricollega alla linea d’ombra. Ed è Itaca il luogo ultimo cui tende la parola
poetica di Maria Luisa.* quel limine sacro a cui giungerà a sera, fra i Girasoli. Intanto eccola da un’isola all’altra, da un
tempo ad un altro, da un centauro a una sirena, a
perdere e ritrovare il senso della storia e della parola e di sé: *Proseguiva la pecora/il suo brucante
monologo/e non turbava/l’immobilità...», «Improvvisamente il centauro/balzato
dal fango/sparì/e riapparve brillante/fra le digitali... », «Ora tu mi rispondi. Dici/che parli
all’astronauta/e che nel cielo chiaro e nero/si sta come sul sasso estivo». Ulisse naufraga - in solitaria attesa di riprendere
il viaggio, o nella umorosa propensione di coinvolgere narrando - ogni volta ha
più chiaro l’esito finale, la propria ragione di essere, lo scopo mistico del
proprio lavoro: «Tutti noi effimeri e forti/tutti noi/che sfioriamo la vita/...
tutti noi/che partiamo». E, dentro i reali spostamenti, ella nicchia con quelli interiori,
dell’anima attenta, per accordarsi alle nuove verità. Così le partenze
occasionali o necessarie diventano una crescita; i distacchi diventano ritorni:
che mutano il contesto, lo filtrano, con la sorpresa e l’incantamento segreto
di colei che li vorrebbe integri e che invece deve ricostruirli nell’assolutezza. E la
E la scrittura persegue queste fasi, zumando il senso della
scoperta o della riscoperta, concedendosi talvolta ad un confiteor delicato, a stupore o sorriso, ad
un pregare e presagire. Lentamente, con sofferte cadenze, affrancandosi dal
dolore della perdita (di luoghi, tempi, persone e certa ormai infantile verginità),
inizia quel ciclo di trascendenza che avrà il suo compimento nei Girasoli.
Tale è il transito
in cui ci sospinge la poesia di Maria Luisa Tozzi, verso quell’Itaca/Lunigiana
che si libra come semenzale in una bolla, verso gli spazi aperti di quell’azzurrità
totale e indefinita in cui lo spirito può ricreare tutti i luoghi, con il solo
segno di quel verbo che è lo spirito stesso, la stessa anima individuale,
l’Itaca di ognuno.
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