Un racconto di pensiero e
riflessione, di ontologiche risonanze esistenziali, dove i quadri di panica
intrusione umana si fondono con le meditazioni dell’autrice. Il linguismo si
distende con armonica distribuzione sintattica, e le varie citazioni, incastrate
ad hoc, danno segno di un’ampia e puntuale preparazione umanistico-culturale.
L’implicit e la chiusa in poesia, quasi prosimetro ad arrotondare un animo
vocato al lirismo, completano, o cercano di farlo, un percorso troppo umano, ricorrendo
alla sintesi che tale strumento permette. Racconto filosofico? Narrazione
concettuale? Epigrammatico excursus attorno al mistero di vivere? Il fatto sta
che l’autrice ci trascina nelle profondità del suo esistere con mano delicata e
gentile, accompagnandoci e facendoci da guida in un viaggio che da personale si
fa collettivo.
Neanche la retorica
ci salverà
ma io, mondo, ostinata
e fiera
ti consegno una
preghiera saggia,
libero germoglio
circolare
che non conosce
rimpianto.
Pace!
Nazario Pardini
Karl
Jaspers, testimonianza
di
consapevolezza
Attenta!,
partorisci
germi di
cattiveria
ma io
non li accudirò
né li
deporrò.
Naufraga,
festeggio,
anzi,
segni
di luminosa assenza
poiché
nel
mio vuoto non c’è il nulla.
DESIDERIO
Era l’estate prestata alla gioia avviluppata su se stessa, lasciata giù
al mare, lì a pochi metri di altitudine, su quel pianoro dalla vista distesa
sul porto nuovo di Imperia, ed era festa.
Era festa, mentre il pensiero aleggiava precario e
incerto sul capo stanco, sul volto che era tutto un sorriso, cercando di fermarlo su qualcosa di stabile,
rappresentativo del proprio spirito, in quel momento dilatato, così represso ed
improbo, ingrato.
Sì, attorno a quel suo corpo in costume, perfetto e
sensuale, avvolto semplicemente da un pareo con effigi egizie di color
cammello, portato da lontano, in un viaggio senza tempo: non vi era il tempo
dei nostri avi, rifletteva, nel vivere
attuale, ma solo idee a traghettarci nell’infinito indistinto.
Prima o poi.
Ora, vi era il pensiero primigenio da afferrare –
“L’idea che fugge non si realizza quando non s’accompagni con l’azione”, da
Macbeth di William Shakespeare -,
trattenerlo oltre quelle anomalie nuove e sfacciate, giù giù,
disperderle fino a confonderle col terreno polveroso e rossastro, frantumarle,
plasmarle e amalgamarle della loro stessa aridità.
Serviva. Difenderlo, proteggerlo così come quegli
scarponcini antivipera, indossati per
l’occasione soccorrevano precauzionalmente noi tre vacanzieri. Mentre gli altri
due interlocutori erano sereni e pacatamente discorsivi a raccogliere il tempo
fermo e immobile di quel pomeriggio terribilmente assolato, il mio pensiero
invece cercava il proprio spazio, ma
neanche la fantasia
più fervida e
solitamente amica pareva scuoterlo dal torpore in cui era sceso,
circoscritto e pregno com’era dell’alone velenoso che lo aveva penetrato.
Straniero e indifendibile. Quel veleno, così finemente architettato e
perpetrato dai benpensanti, aveva messo
radici senza tanti preamboli.
Sanguigno, il dolore si era insinuato e sanguinava
tanto e, sebbene riconosciuto come corpo estraneo, perfida scheggia ferrosa in
limpida pupilla, ronzio, fischio ininterrotto giorno e notte, si era imposto,
ma lo sapeva, l’avrebbe combattuto, come battaglia fine a se stessa, fino a che
l’avrebbe annientato e sconfitto. Al momento, non il passato gli veniva in
aiuto né il presente che, discorrendo, citava viaggi legati ad un’altra epoca,
quella di memorie bambine che avevano ancora nettamente distinto nelle orecchie
il rombo festoso di moto rosse, teneramente indimenticato assieme a quegli
sguardi così sorridenti e familiari. Vagava intorno a quella realtà che il caso
aveva, quel giorno, portato l’anziano ospite di passaggio sulla nostra
proprietà in sella alla bella moto d’epoca, orgoglio della sua età avanzata. Si
specchiava nell’eloquio del più e del meno che soddisfaceva palesemente il mio
giovane e amabile compagno di sempre. Acuto e gentile, specchiante un futuro
certo e dignitoso, ispirava simpatia e assoluta fedeltà. Ed io, io vivevo la
desolazione del mio animo poetico ribelle all’inerzia, imploso in pochi attimi
dalla fruibilità dell’estetica impermanente alla permanente avvilente infelicità. Ed
era festa, ma
in quel caldo insopportabile di ferragosto, senza un
filo d’aria percettibile, anche le palpebre risultavano appiccicaticce come
quel corpo senza speranza appiccicava a se stesso, sudando, tutta la propria
rabbia, quella rabbia che non sapeva di
vivere, né sapeva farsi da parte. Trasudava tutto ciò che non voleva,
spasmodico e tacito. Era solo e diviso e, come nella genialità descrittiva
di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel
Garcia Marquez, ineluttabilmente permeato di quella solitudine. Si sentiva
senza sbocco. Nell’afosa giornata estiva, viveva purtuttavia, quell’unità
oppressa e necessaria di sopravvivenza, intima fino all’eccesso, fino a
contrarre un debito con la speranza, pur conscio di non potersi chiedere se mai
quel peso -nexum-, potrà tornare libero magicamente, come ai tempi di C.
Poetelio Libo Visulo, quando, anche sotto la sua dittatura, quasi 2000 anni fa,
si poteva giurare in nome della dea Bona Abbondanza per tornare uomini liberi.
No, non poteva domandarselo. Lo sapeva e sapeva
accettarlo.
Il buon Immanuel Kant, che ben lo esemplificava ne
“La critica della ragion pratica”, gli ricordava quanto il noumeno soffriva la
propria libera entità.
Sapeva. Ma invocava: speranza ardita della buona
intelligenza, tu esisti e ami!
E domandi: quale fortuna conoscerà il dolore. Potrà
non avere nostalgia per quel pizzico di dolcezza a sciogliere l’eccesso, quale
grano di sale formulerà l’ingegno a lasciarsi andare al piacere poiché
nell’animo – come già espresso in “Casina” -, non vi è nulla di torbido.
Ed essa, con la fedeltà riposta nella intelligenza
buona, rispondeva: basterà …
Basterà riannodare il filo della speranza al vivere
d’Amore.
BASTERA’
SOLO UNA PAROLA
A
DOMANDARSI
E' un giorno?
Ma anche un giorno è
troppo
per frasi di odio e di
terrore,
per molecole umane
stagnanti nell'abisso
al porto antico
raggelato al tempo
torbido
e inutile del dolore.
C'è speranza? Altre
frasi?
Un altro giorno per un
porto nuovo?
O un giorno che muore
...
Neanche la retorica
ci salverà
ma io, mondo, ostinata
e fiera
ti consegno una
preghiera saggia,
libero germoglio
circolare
che non conosce
rimpianto.
Pace!
Fazio Rita, imperiese di nascita, amante della poesia e del
sentimento ispirato dal “mare nostrum”.
Non appartiene al mondo ufficiale delle lettere né
della poesia ma ha sempre coltivato dentro di sé la passione e l’entusiasmo per
ogni manifestazione letteraria, in particolare per la poesia, pur non avendo
mai pubblicato nulla. Questa è la prima occasione con cui si rivela al pubblico
di Imperia.
Irto è il linguaggio di questo racconto, misterioso il suo procedere, ma - da uomo nato sul mare - ricevo il senso del caldo e della luce invincibile di certe giornate d'agosto, che stimolano e allo stesso tempo fanno smarrire il pensiero.
RispondiEliminaSì, vinto dalla luce nell'abbandono di sé...è pace.
RispondiEliminaL'emozione traspare e prende il volo in un caldo abbraccio esistenziale, nel dono amicale che a me fa,V.N. Grazie, Rita
E' una favola hegeliana:il pensiero che riflette su se stesso,da "coscienza infelice" ( il pensiero..."precario e incerto...il torpore in cui era sceso......") si scopre parte di una universalità positiva (..."il riannodare il filo della speranza...").Ma l'elemento più interessante ed innovativo è il linguaggio narrativo:onirico,immaginifico,visionario.C'è un continuo cambio di soggetti:prima il pensiero, poi l'io narrante, poi ancora il pensiero, infine la speranza.E' un continuo alternarsi di astratto e concreto:le riflessioni sull'"infinito indistinto ...." si legano ad un corpo in costume ,"perfetto e sensuale avvolto da un pareo in stile egizio";la difesa dell'autonomia del pensiero è concretizzata da "scarponcini antivipera "indossati sulla spiaggia; al disorientamento si contrappone la "bella moto d'epoca" di ospiti di passaggio.Ma questi sono solo alcuni esempi.Gli ambienti ,pur nella brevità del racconto, sono diversi , e a volte si sovrappongono:prima siamo su un altopiano, poi sulla spiaggia , poi in una propietà privata co ospiti di passaggio.Ma è propio questa articolazione fantastica ad animare e a dare un respiro narrativo al racconto.E' un dinamismo ritmico che si scioglie o meglio si risolve nella riga finale "Basterà riannodare il filo della speranza al vivere d'amore"(franco49)
RispondiEliminaChe dirvi! Grazie per l'attenzione rivoltami con le vostre affascinanti letture, professor Nazario e Franco 49, che tanto apprezzo.
EliminaL'uno crociano, coglie l'intuizione del bello e premia il lirismo poetico per l'elemento del canto e della parola "...che imprigiona la scintilla del pensiero." com'è nella mia poesia
AMPLESSO
Nel giardino di rugiada
il segreto è senza tempo
ma i due volti e la metà,
in uno specchio
abbracciati nello spirito del vento
per viaggiare lo zampillo
del deserto.
E la luce
è al firmamento
nell'amplesso col silenzio
mentre vede
quel che sente,
mentre arpeggia e piroetta
la bellezza,
nell'impronta che imprigiona
la scintilla del pensiero.
Che a Lei dedico, professor Nazario, perchè è suo verbo di canto e sinfonia poetica.
E Lei Franco 49, per l'altra, sincera e profonda, nella quale ogni parola sembra che "sussurri urlando" il suo personale punto di vista sulla mia verità per la realtà che vivo e descrivo.
La favola hegeliana individua la stessa espressività nel divenire delle citazioni.
La coscienza infelice vuole liberarsi dalle premesse conflittuali, cercare la luce e uscire dalla solitudine degli specchi della casa.
Attraverso la formazione concettuale del pensiero e in forza della sua dinamicità per cui -di T. Eliot-: "la fede, l'amore, la speranza stanno tutti nell'attesa" ma vanno a costruire e a fondersi con la logica spirituale, liberano l'armonia dell'assoluto e pacificano il sé universale.
Grazie Franco,
Rita Fulvia Fazio