GLI ANNI DELLE DONNE
Opera prima classificata
Premio Letterario Nazionale di Poesia
“Il Retroverso”
2012
Edizioni del Calatino
MOTIVAZIONE
La silloge “Gli anni delle donne” si connota per freschezza e pervasività di immagini e visioni, per immediatezza e vivezza comunicativa. Il sapiente e onesto uso dello strumento linguistico/retorico, l’acutezza d’indagine e un certo effetto straniante permettono al poeta di comunicare al lettore emozioni profonde ma, quasi pudicamente, composte e rattenute, anche se in alcuni testi non manca una “pointe” finale che produce una soluzione “non attesa”, e quindi rivelatrice e deragliante.
La poesia di Paolo Polvani, ricca e varia, affonda sempre nel quotidiano, “luogo” e occasione per tentare nuove soluzioni e prospettive inedite attraverso processi analogici e scarti linguistici di grande efficacia; difende, anche nelle scelte verbali, il lettore da emozioni troppo accese; ha una sua gentilezza tonale e un sicuro effetto fascinatorio.
Barano d’Ischia, 17 giugno 2012
Pasquale Balestriere
Gli
anni delle donne:
lettura di Marco Righetti
Attraverso
sentieri di una geografia concreta, produttrice di luoghi ed esistenze precise,
che versano sulle righe la loro storia, “Tu conservi il perimetro di vento/di
certe bambine deliziose che hanno pianto”, Polvani dipana la sua versione “sottotraccia”
e irruente, nuda e “pronta a ghermire lo sbilenco sibilare del sole”. Già
da quest’assaggio si intuisce la cifra: l’occhio apre immagini ma si affida
alla parola, ne accetta paziente il velo, aspetta che le frasi si sciolgano. E
così scorrono territori, colori, stagioni e ombre, spiragli e silenzi, è tutto nelle
regole di un gioco fine per palati attenti, capaci di apprezzare la precisa
codifica dello spazio e la genesi della poesia: ”ci sono battute che ricordano
lo spalancarsi / di finestre e la mela che stai sbucciando assiste /al tuo
improvviso ridere. È da qui/ che l’arrampicata degli anni assorbe le vitamine.” È
da versi come questi che parte il senso nuovo, l’elaborazione della memoria, di
un cammino che costeggia figure di donna, e le offre con pudore e garbo. È
la costruzione di una verità. Polvani
ha assorbito voci di un’umanità varia, e
ora le narra, le indaga nelle loro “promesse di fertilità” poetica, quella che
nasce per esempio da metafore, accostamenti, innamoramenti quali: “le precede
il fiume di una musica rotonda,/che si sgrana in forma d’acini d’uva, /polpa
d’anguria, si dissipa nel segreto dei chicchi/di una melagrana, si allarga nel
respiro/ di un’erba invaghita della luce.” Fino
a giungere alle luminazioni piane e
folgoranti, “il tuo passo spalanca meravigliose finestre”, o altrove: “quegli
occhi di mia madre hanno incrociato/la polvere delle soffitte negli spiragli di
luce”, o ancora: “fa di aprile un’arma che inaugura/campi di girasole.” Ci
muoviamo sul terreno di un’aderenza schietta alle tracce raccontate, perché è
questo, ci dice Polvani, il miglior modo per farcene vedere altre. La sua
poesia si incarica di questa visuale, che non è mai visione: non ne ha bisogno.
E
proprio in virtù di quell’aderenza raggiunge subito l’effetto, facendoci partecipi
del suo perimetro di vite incontrate e qui finalmente vissute. Quando
terminiamo la pagina il poeta ci sta già portando verso l’altro: come se lui,
conoscendolo, fosse lì lì per dirlo a sé e a noi.
Da
questo dubbio fecondo nasce l’empatia con il suo pianismo di luci e squarci,
con la matematica di un disegno nitido, in cui è già apparentemente tutto
risolto, tutto assunto in riflessione compiuta: ma è solo un inizio, se è vero
che poesia è l’avvicinamento massimo alle cose e il tempo immediatamente
seguente, così nostro, così estraneo.
La
definizione del percorso, anche ove è drammatica, non concede altro che se
stessa, le sigle di una perdita irrevocabile: “conosco il colore/delle
caramelle, per me non è contemplata/l’ipotesi di avere voce ma solo/una
sconfinata timidezza”. Oppure: “la bellezza non è un lasciapassare. Volevi
essere accolta/hai scelto il vuoto di un cortile, lo spazio/bianco di un
lenzuolo”: qui il volo delle immagini appartiene a chi legge, l’autore ce lo
offre intatto.
E
diventa nostra responsabilità. Polvani
non ricorre alla sottrazione, preferisce rifinire la definizione, eppure resta
sempre in un seminato felicemente germinativo: “è lì che abita / in forma di
zucchero l’orto di tua madre/ e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio/
delle alpi e l’insalata/ha il suono familiare di una porta che sbatte.” La
limpidezza sorprendente del colloquio sgorga già pronta da segnali ben esposti,
è un fluire che pasce se stesso e ferve del seguito: “i segni del tempo si
depositano/ sulla tua pelle come una polvere dorata./Specchiano l’adesione dei
miei autunni.” La
carrellata di pennellate sode, calzate su misura delle donne che racconta,
inquadra un humus pullulante, che già ci sentiamo addosso: anche noi fatti di
terra e “di quelle dolorose vertigini che la bellezza possiede come corollario”. La
felicità del poeta non è che lo specchio di quella che ha osservato: “Il
margine della collina conosce la felicità dei corvi./La violoncellista conserva
il sapore di una festa d’aria.” La
parola di Polvani diventa vicissitudine
e incide lo sguardo, slargando le periferie
necessarie; impressiona la lastra del cuore, prima ancora di quella oculare, e
ci costringe a una resa, a un consenso, a un entusiasmo.
2
settembre 2012
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