VI PROPONIAMO LA SECONDA DELLE TRE PARTI IN CUI E' DIVISO QUESTO SAGGIO CHE DIMOSTRA LA PERSPICACE CONOSCENZA E L'AUTOPTICA COMPETENZA IN LETTERE GRECO-LATINE DELLO SCRITTORE PASQUALE BALESTRIERE. LA PRIMA PARTE E' STATA PUBBLICATA IL 6/02/2014
Il tema della femminilità in
Orazio
di
Pasquale
Balestriere
Nos
convivia, nos proelia virginum / sectis in iuvenes unguibus acrium / cantamus ...[1] Orazio dice di voler cantare i conviti e le
battaglie delle fanciulle minacciose, anche con le unghie tagliate, contro i
giovani.
È, questa dichiarazione, un manifesto poetico e un programma di vita: e, in effetti, il motivo del convito e la figura della donna assumono grande rilievo nella complessa tematica della poesia oraziana; in essa, del resto, sono ben vivi altri elementi, tutti perfettamente armonizzati all’interno della visione della vita che lo scrittore mostra di avere.
Il convito e la donna costituiscono per Orazio due momenti di vita fondamentali, perché spesso risolutori, sia pure temporaneamente, di stati d'animo angosciosi (infatti l’atra cura, “l’angoscia” appunto, afflisse il poeta per tutta la vita); e procedono di pari passo: voglio dire che, per il Venosino, salvo rarissime eccezioni, non esiste banchetto senza donne e viceversa; essi, insomma, rappresentano due elementi inscindibili di un'unica realtà e, se si vuole, di un'esigenza rasserenatrice.
Orazio, secondo il dettato epicureo, ritiene l'amore - quello vero, profondo, passionale - un sentimento che genera dolore. Dunque è da evitare, in quanto sconvolgerebbe un equilibrio interiore faticosamente realizzato.
Pure viene spontanea la domanda: non è stata forse la morte prematura della "buona Cìnara" (bonae...Cinarae),[2] forse primo, ma certamente unico, vero amore di Orazio, a determinare in qualche modo la situazione interiore del poeta? Quella Cìnara, alla quale breves / annos fata dederunt[3] “il fato assegnò breve vita” e che era rapax[4], “avida” con gli altri, ma generosa e disinteressata con lui? Quella Cìnara che lo amò quando, giovane, egli aveva forte latus, nigros angusta fronte capillos[5] “un fisico robusto e neri capelli che gli ombreggiavano la fronte” e che, come si è visto, ripetutamente ricorda nei suoi scritti? Non bisogna, credo, sottovalutare esperienze giovanili che nei processi educativi e, in genere formativi, hanno non secondaria importanza, perché anch'esse contribuiscono a determinare il carattere dell'uomo maturo.
Come che sia, dopo quell'esperienza giovanile, Orazio, certo per aver appreso la filosofia di Epicuro, comincia a vedere l'amore e la donna in modo diverso.
Ma chi sono le compagne del poeta o almeno i personaggi femminili della sua poesia?
C'è Frine: me libertina nec uno / contenta Phryne macerat[6] “mi consuma la libertina Frine, non contenta di uno solo” (a tal proposito si ricordi Catullo: quae tamen etsi uno non est contenta Catullo / rara verecundae furta feremus erae[7] “e tuttavia, anche se non fosse paga del solo Catullo, sopporterò i rari furti della vereconda signora”); una passione, quella per Frine, che divora Orazio al punto di non permettergli di scrivere versi[8]. La libertina Mìrtale, invece, è fretis acrior Hadriae[9] “più minacciosa dei flutti dell'Adriatico”; qualcuno traduce acrior con “più volubile”, ma la mia interpretazione è però giustificata da Carm.1, 6, 17-18 (virginum ... acrium). Lidia[10] poi, che non è libertina o meretrice come le precedenti (e, quindi, forse di più elevata condizione sociale), è descritta come amante insaziabile: difatti ha ridotto ad una larva d'uomo il giovane Sibari. Ciò nonostante, Orazio si mostra sdegnato (e geloso) quando scopre il bel corpo della donna straziato, in schermaglie amorose, dal giovane Telefo, boriosamente irruente; ma Lidia comincia a dar segni di senescenza, non è più cercata dai giovani: rimarrà presto sola con la sua libidine insoddisfatta; del che il poeta si mostra contento, giacché certamente l'infedeltà della donna non lo ha reso felice; eppure egli è pronto a rinunciare, per lei, alla flava Chloe[11]”bionda Cloe”. Cloe, appunto, inuleo ... similis ... quaerenti pavidam ... matrem[12] “simile ad un cerbiatto che va alla ricerca della timida madre”, è certamente un'acerba giovinetta adrogans[13] “ritrosa”, anche se dulcis docta modos et citharae sciens[14] “esperta in dolci melodie e capace di suonare la cetra”.
È, questa dichiarazione, un manifesto poetico e un programma di vita: e, in effetti, il motivo del convito e la figura della donna assumono grande rilievo nella complessa tematica della poesia oraziana; in essa, del resto, sono ben vivi altri elementi, tutti perfettamente armonizzati all’interno della visione della vita che lo scrittore mostra di avere.
Il convito e la donna costituiscono per Orazio due momenti di vita fondamentali, perché spesso risolutori, sia pure temporaneamente, di stati d'animo angosciosi (infatti l’atra cura, “l’angoscia” appunto, afflisse il poeta per tutta la vita); e procedono di pari passo: voglio dire che, per il Venosino, salvo rarissime eccezioni, non esiste banchetto senza donne e viceversa; essi, insomma, rappresentano due elementi inscindibili di un'unica realtà e, se si vuole, di un'esigenza rasserenatrice.
Orazio, secondo il dettato epicureo, ritiene l'amore - quello vero, profondo, passionale - un sentimento che genera dolore. Dunque è da evitare, in quanto sconvolgerebbe un equilibrio interiore faticosamente realizzato.
Pure viene spontanea la domanda: non è stata forse la morte prematura della "buona Cìnara" (bonae...Cinarae),[2] forse primo, ma certamente unico, vero amore di Orazio, a determinare in qualche modo la situazione interiore del poeta? Quella Cìnara, alla quale breves / annos fata dederunt[3] “il fato assegnò breve vita” e che era rapax[4], “avida” con gli altri, ma generosa e disinteressata con lui? Quella Cìnara che lo amò quando, giovane, egli aveva forte latus, nigros angusta fronte capillos[5] “un fisico robusto e neri capelli che gli ombreggiavano la fronte” e che, come si è visto, ripetutamente ricorda nei suoi scritti? Non bisogna, credo, sottovalutare esperienze giovanili che nei processi educativi e, in genere formativi, hanno non secondaria importanza, perché anch'esse contribuiscono a determinare il carattere dell'uomo maturo.
Come che sia, dopo quell'esperienza giovanile, Orazio, certo per aver appreso la filosofia di Epicuro, comincia a vedere l'amore e la donna in modo diverso.
Ma chi sono le compagne del poeta o almeno i personaggi femminili della sua poesia?
C'è Frine: me libertina nec uno / contenta Phryne macerat[6] “mi consuma la libertina Frine, non contenta di uno solo” (a tal proposito si ricordi Catullo: quae tamen etsi uno non est contenta Catullo / rara verecundae furta feremus erae[7] “e tuttavia, anche se non fosse paga del solo Catullo, sopporterò i rari furti della vereconda signora”); una passione, quella per Frine, che divora Orazio al punto di non permettergli di scrivere versi[8]. La libertina Mìrtale, invece, è fretis acrior Hadriae[9] “più minacciosa dei flutti dell'Adriatico”; qualcuno traduce acrior con “più volubile”, ma la mia interpretazione è però giustificata da Carm.1, 6, 17-18 (virginum ... acrium). Lidia[10] poi, che non è libertina o meretrice come le precedenti (e, quindi, forse di più elevata condizione sociale), è descritta come amante insaziabile: difatti ha ridotto ad una larva d'uomo il giovane Sibari. Ciò nonostante, Orazio si mostra sdegnato (e geloso) quando scopre il bel corpo della donna straziato, in schermaglie amorose, dal giovane Telefo, boriosamente irruente; ma Lidia comincia a dar segni di senescenza, non è più cercata dai giovani: rimarrà presto sola con la sua libidine insoddisfatta; del che il poeta si mostra contento, giacché certamente l'infedeltà della donna non lo ha reso felice; eppure egli è pronto a rinunciare, per lei, alla flava Chloe[11]”bionda Cloe”. Cloe, appunto, inuleo ... similis ... quaerenti pavidam ... matrem[12] “simile ad un cerbiatto che va alla ricerca della timida madre”, è certamente un'acerba giovinetta adrogans[13] “ritrosa”, anche se dulcis docta modos et citharae sciens[14] “esperta in dolci melodie e capace di suonare la cetra”.
Orazio non ne fu eccessivamente innamorato,
nonostante il pro qua non metuam mori
dell'ode 3,9; è avvinto, invece, dalla statuaria bellezza di Glìcera
(Carm.1,19,5), più luminosa di un marmo pario (Urit me Glycerae nitor / splendentis Pario marmore purius[15]”mi
brucia la splendida bellezza di Glicera, che rifulge più luminosa del marmo di
Paro”); e dichiara me lentus Glycerae
torret amor meae[16]
“mi consuma, lento, l'amore per la mia Glìcera”; più che di amore, mi pare si
tratti di ammirazione estetica - o forse estatica – nei confronti di un tal
esemplare di bellezza muliebre. Alla bellissima Glìcera fa da contrappunto la
vecchia e dissoluta Clori[17],
moglie del pauper Ibico, la quale
partecipa ai giochi delle virgines e
tenta di confondersi con esse, nella speranza di accalappiare magari qualche
sprovveduto amante.
L'elenco, e quindi la descrizione dei tipi di donna che compaiono nella poesia oraziana, sarebbe lungo. Ritengo, comunque, di aver presentato figure sufficientemente significative; pertanto citerò solo "en passant" altri nomi: la spergiura Barine[18]; l'infedele Pirra[19]; Tindaride "dalla dolce zampogna" (dulci ... fistula[20]); la scortum[21] (“ cortigiana”) Lide, che non vuole ascoltare i versi del poeta[22] o che non si decide a tirar fuori dalla dispensa l’anfora con il vino[23]; la bionda Fillide, ultimo amore oraziano (Meorum / finis amorum /-non enim posthac alia calebo / femina-[24] “ Ultimo dei miei amori- e infatti per l’avvenire non m’infiammerò per un’altra donna-”) ; la crudele Lice, capricciosa con gli amanti, che il poeta deride, perché, ormai vecchia, vuol sembrar bella[25]; Foloe, aspera[26] e fugax[27], cioè “ ritrosa”; Leuconoe[28], innamorata del poeta e timorosa del futuro; Asterie[29], moglie di Gige, fedele al marito ma forse attratta dal vicino Enipeo; Lalage[30], che parla e sorride dolcemente; la repellente strega Canidia[31]; Inachia[32], un violento amore giovanile, che colse il poeta quando ancora ignorava le dottrine epicuree e del quale si pente: Heu me, per urbem -nam pudet tanti mali- / fabula quanta fui...[33] Ahimè, quanto feci sparlare di me la città -e come mi vergogno di un così grave errore-!” (dall’emistichio oraziano fabula quanta fui deriva forse il petrarchesco “favola fui gran tempo”); e, infine, ricorderò Neera[34], dalla bella voce, che il Venosino vuole presente ad un banchetto.
Altre figure femminili vivono nell'opera oraziana; non le citerò, e non credo che questa sarà una grave omissione.
Da quanto esposto, emerge un quadro notevolmente variegato di caratteri femminili: libertine, donne infedeli e crudeli, fanciulle acerbe e scontrose, giovani innamorate e superstiziose, cantanti e citariste; da alcune di esse Orazio è attratto fisicamente, a volte in modo anche intenso; altre risvegliano in lui il gusto dell'esteta; per altre nutre sentimenti di tenerezza, magari un po' lasciva, rimpiangendo i suoi giovani anni; altre, ormai vecchie, per una sorta di ripicca, sono derise da lui, nel ricordo di passate gelosie.
La donna, per Orazio, deve essere anzitutto buona amica, poi ottima conversatrice, dolce, disponibile alla buona tavola e magari all'amplesso amoroso, graziosa quanto basta, giovane (ma neppure tanto); deve inoltre saper suonare e cantare ed essere libera da preoccupazioni che intristirebbero il poeta; il quale, a sua volta, odia o, forse meglio, teme quei legami che, apparentemente duraturi, si rivelano poi precari e dolorosi. Parabilem amo venerem facilemque[35] “Mi piacciono gli amori accessibili e facili” dichiara Orazio: la donna -ancella, liberta, etera, mai matrona, proprio per questa sua condizione di donna sposata - gli sarà compagna per un'ora, per un giorno, per un periodo breve, ma non necessariamente o precisamente determinato; è perciò chiaro che non l'amore egli cerca, ma piuttosto la femminilità, intendendo con tale termine quell’insieme di qualità e di caratteristiche che rendono la figura della donna desiderabile, affascinante, quasi irresistibile.
L'elenco, e quindi la descrizione dei tipi di donna che compaiono nella poesia oraziana, sarebbe lungo. Ritengo, comunque, di aver presentato figure sufficientemente significative; pertanto citerò solo "en passant" altri nomi: la spergiura Barine[18]; l'infedele Pirra[19]; Tindaride "dalla dolce zampogna" (dulci ... fistula[20]); la scortum[21] (“ cortigiana”) Lide, che non vuole ascoltare i versi del poeta[22] o che non si decide a tirar fuori dalla dispensa l’anfora con il vino[23]; la bionda Fillide, ultimo amore oraziano (Meorum / finis amorum /-non enim posthac alia calebo / femina-[24] “ Ultimo dei miei amori- e infatti per l’avvenire non m’infiammerò per un’altra donna-”) ; la crudele Lice, capricciosa con gli amanti, che il poeta deride, perché, ormai vecchia, vuol sembrar bella[25]; Foloe, aspera[26] e fugax[27], cioè “ ritrosa”; Leuconoe[28], innamorata del poeta e timorosa del futuro; Asterie[29], moglie di Gige, fedele al marito ma forse attratta dal vicino Enipeo; Lalage[30], che parla e sorride dolcemente; la repellente strega Canidia[31]; Inachia[32], un violento amore giovanile, che colse il poeta quando ancora ignorava le dottrine epicuree e del quale si pente: Heu me, per urbem -nam pudet tanti mali- / fabula quanta fui...[33] Ahimè, quanto feci sparlare di me la città -e come mi vergogno di un così grave errore-!” (dall’emistichio oraziano fabula quanta fui deriva forse il petrarchesco “favola fui gran tempo”); e, infine, ricorderò Neera[34], dalla bella voce, che il Venosino vuole presente ad un banchetto.
Altre figure femminili vivono nell'opera oraziana; non le citerò, e non credo che questa sarà una grave omissione.
Da quanto esposto, emerge un quadro notevolmente variegato di caratteri femminili: libertine, donne infedeli e crudeli, fanciulle acerbe e scontrose, giovani innamorate e superstiziose, cantanti e citariste; da alcune di esse Orazio è attratto fisicamente, a volte in modo anche intenso; altre risvegliano in lui il gusto dell'esteta; per altre nutre sentimenti di tenerezza, magari un po' lasciva, rimpiangendo i suoi giovani anni; altre, ormai vecchie, per una sorta di ripicca, sono derise da lui, nel ricordo di passate gelosie.
La donna, per Orazio, deve essere anzitutto buona amica, poi ottima conversatrice, dolce, disponibile alla buona tavola e magari all'amplesso amoroso, graziosa quanto basta, giovane (ma neppure tanto); deve inoltre saper suonare e cantare ed essere libera da preoccupazioni che intristirebbero il poeta; il quale, a sua volta, odia o, forse meglio, teme quei legami che, apparentemente duraturi, si rivelano poi precari e dolorosi. Parabilem amo venerem facilemque[35] “Mi piacciono gli amori accessibili e facili” dichiara Orazio: la donna -ancella, liberta, etera, mai matrona, proprio per questa sua condizione di donna sposata - gli sarà compagna per un'ora, per un giorno, per un periodo breve, ma non necessariamente o precisamente determinato; è perciò chiaro che non l'amore egli cerca, ma piuttosto la femminilità, intendendo con tale termine quell’insieme di qualità e di caratteristiche che rendono la figura della donna desiderabile, affascinante, quasi irresistibile.
Dice bene il filologo Alfonso Traina quando
afferma che “Orazio volle essere, ma non fu,
poeta d’amore; d’amori, piuttosto.”[36]
Però, come ben intuisce il filologo e traduttore Enzo Mandruzzato, “circondò
sempre di bellezza le sue donne fugaci”[37].
E ciò perché, per il Venosino, la bellezza, prima e più che una categoria dello
spirito, era un fattore necessario alla vita, un elemento che ne determinava
l’armonia e la ricchezza.
Qualcuno
potrebbe essere indotto a pensare a Orazio come a un libertino. Niente di più
falso. Anzi, se si gratta via la patina dell’esteriorità, non si tarda a
scoprire nell’uomo dell’est modus in
rebus[38], cioè
del senso della misura, una risentita
moralità (non moralismo) che è insieme causa ed effetto della perseguita (e,
almeno parzialmente, conseguita) mediĕtas. Lo dico chiaro, una volta
per tutte: Orazio è scrittore di grande serietà. Tracciato per la sua vita un
percorso, sostanzialmente retto e virtuoso, si sforza di seguirlo, addolcendolo
con una punta di bonomia e con qualche lepidezza. Si pensi alle cosiddette “odi
romane”, cioè alle prime sei odi del terzo libro, in cui il poeta, ponendosi
quasi come istitutore della gioventù romana - in quel clima di riorganizzazione
dello Stato romano su basi (apparentemente) repubblicane e di moralizzazione dei costumi così cara ad
Augusto-, dispensa consigli e precetti relativi all’educazione civile e
militare e ad un’etica più risentita. Ecco l’incipit della prima di quelle odi,
famosissimo: Odi profanum vulgus et
arceo: / favete linguis;carmina non prius / audita Musarum sacerdos /
virginibus puerisque canto.[39] “Detesto
il volgo profano e me ne tengo lontano:
mantenete il silenzio; io, sacerdote delle Muse, comincio a cantare per le vergini e per i fanciulli un canto mai
udito prima”. La traduzione, tuttavia,
non rende che pallidamente una sostanza concettuale complessa e polisemica. Si
noti innanzitutto quel profanum (da pro- , “davanti “ e perciò “fuori da” e fanum “tempio”, ad indicare chi è fuori
dal tempio in quanto non iniziato) riferito
a vulgus, sostantivo già di per sé
connotato negativamente. Il favete
linguis e i carmina non prius / audita intonati
da un Musarum sacerdos, ci depongono
nel bel mezzo di una celebrazione religiosa dalle sfumature misteriche ed
esoteriche, perché i carmina sono
(anche o soprattutto?) formule sacre cantate dal sacerdote delle Muse a
vantaggio degli iniziati, della generazione nuova (virginibus puerisque -dativo di vantaggio o ablativo d’agente?-). È evidente che qui Orazio,
convinto com’è della necessità di un improcrastinabile recupero dei valori
della Roma repubblicana, addensa, e forse carica, di significati religiosi
quello che certamente è, visti i tempi corrotti, un arduo percorso di
formazione. E cosa insegna il sacerdote delle Muse, cioè il poeta, ai giovani
romani? Questo: vivere in modo onesto e tranquillo, sobrio e vero, con coraggio
e parsimonia, con civiltà e lealtà, difendendo la giustizia, la religione e la
patria, confidando nella missione imperiale di Roma nel mondo. E consiglia
morigeratezza alle matrone e grande serietà, anzi severità, nel processo
educativo dei futuri cittadini e soldati.
E se è vero che queste prime sei odi del terzo
libro sono il frutto di una richiesta neppure tanto velata di Augusto ai “suoi
“ poeti (Orazio e Virgilio in primis), è altrettanto vero che la decadenza dei
costumi romani dispiace ad Orazio, il quale in essa vede, e non a torto, i
segni premonitori del tramonto di Roma: purtroppo gli eserciti dell'Urbe
cominciano a cedere, perché i romani hanno dimenticato l'austerità dei padri; la lussuria impera, si dà l’assalto alla virtù
delle matrone; trionfa il libertinaggio postribolare; le donne apprendono le
danze ioniche, ricche di movenze lascive ed allettatrici, e commettono adulteri
in presenza di mariti condiscendenti: sed
iussa coram non sine conscio / surgit marito, seu vocat institor / seu navis
Hispanae magister, / dedecorum pretiosus emptor. [40]“
Ma quando (la donna) è invitata ,
consapevole il marito, si leva dalla mensa davanti a tutti, sia che la chiami
il bottegaio o il comandante di una nave ispanica che paga bene le vergogne”.
Il poeta, nauseato, disprezza Clori (non la fanciulla “dalle bianche spalle” di
Carm. II, 5, 18, ma la già citata uxor
pauperis Ibyci “la moglie del povero
Ibico” di Carm. 3, 15) , moglie disonesta; rispetta ed apprezza invece la fedeltà coniugale di Licinnia (pseudonimo
per Terenzia, moglie di Mecenate)[41];
anche in Carm. 3, 24, 21 sqq. e in Ep. 2, 39 sqq., ma pure altrove, loda
l'onestà della donna; esorta Asterie a serbarsi fedele al marito Gige e a
chiudersi in casa quando viene la notte.[42]
All'appressarsi dei cinquant’anni Orazio non si sente più così propenso ad avventure galanti ed assume un'aria di uomo vissuto, ormai placato negli stimoli amorosi: è un atteggiamento paternalistico che non manca di far sorridere il lettore. Ma ascoltiamo Orazio. È l’incipit, anche un po’ comico, del quarto libro dei Carmina: Intermissa, Venus, diu / rursus bella moves? Parce, precor, precor. / Non sum qualis eram bonae / sub regno Cinarae. Desine, dulcium / mater saeva Cupidinum, / circa lustra decem flectere mollibus / iam durum imperiis; abi, / quo blandae iuvenum te revocant preces.[43] “Di nuovo, o Venere, mi muovi guerre abbandonate da lungo tempo? Risparmiami, ti imploro, te ne supplico. Non sono più com’ero sotto il governo della buona Cinara. E smetti, o fiera madre dei dolci amori, di tentare di piegare con molli comandi me ormai restio e per di più vicino ai dieci lustri. Vattene dove ti chiamano le dolci preghiere dei giovani.”
Notevole è l'impegno del poeta nel cercare di eliminare alla radice stessa del sentimento, per così dire, amoroso (e non solo di quello) ogni traccia di asperità, di clamore e di isterismo; lo scrittore, in tal modo, conferisce al sentimento stesso la levigatezza necessaria perché esso risulti armonizzato e perfettamente integrato in quella temperie spirituale da cui poi deriva la personalissima "Weltanschauung" del Venosino. In lui, che, epicureamente, si sforza di dominare la potenza del sentimento (e spesso vi riesce), è sempre presente e viva la ricerca dell'armonia interiore che è il segno vero della classicità.
All'appressarsi dei cinquant’anni Orazio non si sente più così propenso ad avventure galanti ed assume un'aria di uomo vissuto, ormai placato negli stimoli amorosi: è un atteggiamento paternalistico che non manca di far sorridere il lettore. Ma ascoltiamo Orazio. È l’incipit, anche un po’ comico, del quarto libro dei Carmina: Intermissa, Venus, diu / rursus bella moves? Parce, precor, precor. / Non sum qualis eram bonae / sub regno Cinarae. Desine, dulcium / mater saeva Cupidinum, / circa lustra decem flectere mollibus / iam durum imperiis; abi, / quo blandae iuvenum te revocant preces.[43] “Di nuovo, o Venere, mi muovi guerre abbandonate da lungo tempo? Risparmiami, ti imploro, te ne supplico. Non sono più com’ero sotto il governo della buona Cinara. E smetti, o fiera madre dei dolci amori, di tentare di piegare con molli comandi me ormai restio e per di più vicino ai dieci lustri. Vattene dove ti chiamano le dolci preghiere dei giovani.”
Notevole è l'impegno del poeta nel cercare di eliminare alla radice stessa del sentimento, per così dire, amoroso (e non solo di quello) ogni traccia di asperità, di clamore e di isterismo; lo scrittore, in tal modo, conferisce al sentimento stesso la levigatezza necessaria perché esso risulti armonizzato e perfettamente integrato in quella temperie spirituale da cui poi deriva la personalissima "Weltanschauung" del Venosino. In lui, che, epicureamente, si sforza di dominare la potenza del sentimento (e spesso vi riesce), è sempre presente e viva la ricerca dell'armonia interiore che è il segno vero della classicità.
Per completare lo sviluppo del tema della
femminilità nell’opera oraziana, mi piace riportare quello che, per mia conoscenza, è il primo componimento amoroso a contrasto
del mondo classico. Mi riferisco all’ode
3, 9, una deliziosa schermaglia
in punta di fioretto tra il nostro poeta
e Lidia, figura femminile già citata e
che ricorre più volte nei Carmina[44]
per essere stata una donna da lui molto amata (sempre nel senso oraziano del
termine). Si sa che nella letteratura antica greca e latina i canti amebei
erano piuttosto diffusi: nella lirica monodica e corale greca, nella commedia di Aristofane (Ecclesiazuse, 952 sqq.), in Teocrito, in Virgilio,
ecc. Ma in 3, 9 il carme amebeo assume
la connotazione di contrasto amoroso.
La parola al poeta: “Donec gratus eram tibi / nec quisquam potior bracchia candidae /
cervici iuvenis dabat, / Persarum vigui rege beatior.” “Fino a quando ti piacevo né alcun giovane
preferito a me ti cingeva con le braccia
il candido collo, mi sentii più potente e felice del re dei Persiani.” Orazio
rievoca con nostalgia.
Lidia risponde: “Donec non alia magis / arsisti
neque erat Lydia post Chloen, / multi Lydia nominis / Romana vigui clarior
Ilia.” “ Fino a quando non ti
infiammasti di più per un’altra e Lidia non veniva dopo Cloe, io, Lidia
gloriosa, fui più famosa della romana Ilia.” Fin qui Lidia sembra un alter ego di Orazio, in quanto ne
ricalca le espressioni, addirittura intensificandole e specularmente
collocandosi sul piano della memoria e del sottile rimpianto. E poi il
contrasto vero e proprio, il breve duello verbale, che si risolve in due stoccate.
Quella
di Orazio: “Me nunc Thressa Chloe regit,
/ dulcis docta modos et citharae sciens
/ pro qua non metuam mori, / si parcent animae fata superstiti.” “È ora signora del mio cuore la
tracia Cloe, che sa dolci canzoni e suona bene la cetra, per la quale non
esiterei a dare la vita se i fati risparmiassero lei, l’anima mia.”
La risposta, a tono, ma più piccata, di Lidia,
che raddoppia: “ Me torret face mutua /
Thurini Calais filius Ornyti, / pro quo bis patiar mori, / si parcent puero
fata superstiti.” “M’infiamma d’amore corrisposto Calai, figlio di Ornito
di Turii, per il quale sarei disposta a sopportare la morte due volte, se i
fati risparmiassero la vita al mio ragazzo.”
Dopo la risposta di Lidia, il contrasto vero e
proprio è bell’e concluso. I due, in fondo, si amano ancora, anche se hanno
enfatizzato fuor di misura sentimenti e amanti. Sicché le ultime due strofe
volgono alla riappacificazione.
Orazio, ammiccante: “ Quid si prisca redit Venus / diductosque iugo cogit aeneo, / si flava excutitur Chloe
/ reiectaeque patet ianua Lydiae?” “
E che farai se ritorna l’antico amore e riunisce sotto il giogo di bronzo
quelli che separò, se viene allontanata la bionda Cloe e s’apre la porta a
Lidia un giorno respinta?”
Condiscendente, Lidia, ma con un iniziale
distinguo, che si annulla nel verso finale: “Quamquam
sidere pulchrior / ille est, tu levior cortice et improbo / iracundior Hadria,/
tecum vivere amem, tecum obeam libens.” “Benché egli sia più bello d’una
stella, tu più leggero di un sughero e più collerico del tempestoso Adriatico,
con te amerei vivere, con te morirei volentieri.”
Quando penso a certi “contrasti” della prima
letteratura in volgare (Rosa fresca,
aulentissima di Cielo D’Alcamo, Becchin’amor
di Cecco Angiolieri, per citare i più conosciuti) non posso non notare la
distanza siderale tra questi ultimi, che pure hanno una loro freschezza,
originalità, piacevolezza, e il
capolavoro oraziano, spontaneo, sì, ma leggiadro, venusto, fine, percorso da
armonie e corrispondenze interne. Armonioso. Come del resto tutto il mondo in
versi del poeta augusteo.
Pasquale Balestriere
Pasquale Balestriere
[1] Hor.,
Carm.1, 6, 17-19
[2]
id., Carm. IV, 1, 4
[3]
id., Carm., IV, 13, 22-23
[4]
id, Epl.., I, 14, 33
[5]
id., Epl., I, 7, 26
[6]
id., Ep., 14, 15-16
[7] Cat., 68, 134-35
[8] Hor., Ep., 14, 6 sqq.
[9] Hor., Carm., 1, 33, 14
[10] id., Carm., 1, 8, 1: 1, 13, 1; 1,
25, 8; 3, 9, 6; 3, 7, 20
[11]
id., Carm., 3, 9, 19
[12]
id., Carm., 1, 23, 1-3
[13]
id., Carm., 3, 26, 12
[14]
id., Carm., 3, 9, 10
[15]
id., Carm.,1, 19, 5-6
[16]
id., Carm., 3, 19, 28
[17]
id., Carm., 3, 15
[18]
id., Carm., 2, 8, 2
[19]
id., Carm., 1, 5, 3
[20]
id., Carm., 1, 17, 10
[21]
id., Carm., 2,11,22;
[22]
id., Carm., 3, 11, 7-8
[23]
id., Carm. 3,28, 7-8
[24]
id., Carm. 4, 11, 31-34
[25]
id., Carm., 3,10; 4, 13
[26]
id., Carm., 1, 33, 6
[27]
id., Carm., 2, 5, 17
[28]
id., Carm., 1, 11
[29]
id., Carm., 3, 7
[30]
id., Carm., 1, 22, 10 e 23
[31] id., Ep., 3, 8; 5, 15e 48; 17,6; Sat., 1, 8,
24 e 28; 2,1,48; 2, 8, 95
[32] id., Ep., 11, 6; 12,14 e 15
[33] id., Ep., 11, 7-8
[34] id., Carm., 3, 14, 21; Ep., 15, 11
[35]
id., Sat., 1, 2, 119
[36]
Introduzione al volume Quinto Orazio Flacco, Odi ed Epodi,
tradotto e
annotato da Enzo Mandruzzato, BUR Pantheon,
Milano, 2002, p. 46
[37]
E. Mandruzzato, Orazio Lirico, Liviana, Padova, 1958, p. 197
[38] Hor., Sat., 1, 1, 106
[39] id., Carm., 3, 1, 1-4
[40] id., Carm. 3, 6, 29 sqq.
[41] id., Carm. 2, 12, 13 e 23
[42] id., Carm. 3, 7
[43]
id., Carm. 4, 1, 1-8
[44]
id., Carm.1, 8, 1; 1, 13, 1; 1, 25, 8; 3, 9, 6; 7; 20.
eccellente ricostruzione del rapporto uomo donna nella poesia di Orazio. Una poesia sull'amore è sempre una poesia sugli uomini e le donne concrete che vivono in una data civiltà, è sempre una illustrazione dei costumi, delle ideologie e delle psicologie di uomini e donne. Oggi fare poesia sull'amore di uomini e donne significa fare poesia sull'alienazione e la schizofrenia di massa quale siamo diventati, schegge di una massa informe, monadi nomadi, uomini e donne borghesi di un mondo diventato villaggio globale che nega alla individualità di diventare un individuo.. in un certo senso, oggi è possibile soltanto una poesia sul dis-amore e sulla falsa coscienza.
RispondiEliminaCome faccio a commentare l'amico Balestriere nella sua notevole ricostruzione storiografica: c'è sempre Giorgio che mi anticipa, scrive le stesse cose che vorrei scrivere io (monadi nomadi, è eccezionale), e mi lascia senza idee originali. Allora chiedo a Pasquale / scrivi sull'amore, sul dis-amore/ e sulla falsa coscienza d'un Marziale [pro-voco Giorgio: Marziale - a mia opinione- dovrebbe essere importante modello alla non-poesia contemporanea?].
RispondiElimina"E ti rivissi, vita"....ma non è facile rivivere una vita come quella di Orazio, credo neppure per Balestriere, suo fratello d'anima e di linguaggio, suo"contemporaneo"di spirito e di ambiente. Fascino enorme di Orazio e fascino enorme di Balestriere, che si fa seguire accattivatamente, anche (ma certo non solo! non solo!) per l'argomento che così in modo incantato e profondissimo tratta....... Eppoi presero il nezzo, e se ne andarono, Orazio,Virgilio ed Mecenate a riposare un po' al sud, ed uno dopo il pasto deambulava, un altro riposava......... Che bello, e come da Balestriere, sembra di vederli, e di veder Orazio e le.... sue o non sue "gonnelle".*
RispondiEliminaEra tutto diverso da adesso, o in fondo era tutto quasi-quasi uguale?
Non per Orazio, certo, perché di Orazio ce ne è stato uno, però non per il dolce stil novo, uno e bellissimo, che ora si rinnova, per quanto è possibile, anche un po' e forse da parte di chi scrive..............
Un complimento assoluto va Balestriere, e ce ne fossero come Balestriere così vicini, così conoscenti, così familiari, così profondamente intimi del Poeta Latino!
Nevio NIGRO
*da Roma, di Ada Gabucci e Coll., Mondadori 2005.
Non ha senso chiedersi se le molte donne cantate da Orazio siano tutte vere e tutte reali esperienze di vita o solo figure letterarie. E’ un problema che ha affascinato vari filologi e studiosi (e traduttori) di Orazio attraverso i secoli. La verità è che le poesie d’amore di Orazio (eccezionalmente bella ed intrigante quella a Lidia, di una finezza espressiva e psicologica) siano parte integrante del suo modo di essere fine poeta e ironico seguace del ... gregge di Epicuro. Certo è che Orazio sa (e sa far) sorridere con levità sulla realtà della sua matura condizione di uomo, quando avverte di avere ormai abbandonato (nell’ode a Pirra) le sue battaglie d’amore “Me tabula sacer/votiva paries indicat uvida/suspendisse potenti/vestimenta maris deo”, confessando che “bagnate/ le mie vesti ho consacrato/ al dio potente del mare”.Tutta questa seconda parte del saggio su Orazio di Pasquale Balestriere è dedicata, quale dono superbo, a offrirci la profonda umanità del poeta di Venosa. Ed è oltremodo gratificante (e piacevole) procedere nella scorrevole lettura -e sapiente e puntuale e documentata- , intrisa di umana partecipazione e perfettamente aderente al classicismo della poesia oraziana. Balestriere è vero maestro ed è pienamente calato in un nuovo umanesimo che riflette le sue prove poetiche e ci trasmette la sua adesione al fremito umano di Orazio e che, come un diapason fornito di armonia propria, risuona sulle onde dell’umanità del poeta che ha reso la grandezza della lirica greca “ad italos modos”.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Odi profanum vulgus et arceo: / favete linguis;carmina non prius / audita Musarum sacerdos / virginibus puerisque canto.[39] “Detesto il volgo profano e me ne tengo lontano: mantenete il silenzio; io, sacerdote delle Muse, comincio a cantare per le vergini e per i fanciulli un canto mai udito prima”.
RispondiEliminaHo voluto riportare questo passo - citato da Balestriere nel suo considerevole e competente saggio - perché, a mio parere, esemplificativo del pensiero che lo scrittore intende mettere in risalto nella considerazione del tema della femminilità - e non solo - in Orazio. Credo che la sua lettura consenta un sostanziale ripiegamento sulla poetica, in generale, del poeta augusteo. E mi riferisco, qui, consapevole della mia minore competenza, a quanto lo stesso Balestriere afferma sul Venosino:"In lui, che, epicureamente, si sforza di dominare la potenza del sentimento (e spesso vi riesce), è sempre presente e viva la ricerca dell'armonia interiore che è il segno vero della classicità.". Ecco, è questo sentire armonico che, non soltanto, rivaluta Epicuro e l'epicureismo ma la verità di ogni epoca. "Era tutto diverso da adesso, o in fondo era tutto quasi-quasi uguale? - si chiede Nevio Nigro nel suo commento - e aggiunge "Non per Orazio"; non per la poesia - aggiungo io - sempre diversa e sempre uguale a se stessa.
Complimenti vivissimi,
Sandro Angelucci
Vorrei ricordare all'amico Pasquale l'epodo 11, in cui Orazio confessa all'amico Pettio che l'amore per le fanciulle non gli consente più di scrivere versiculi e lo rende la fabula della città: egli ha tentato di abbandonare l'amore, ma poi ha finito sempre col recarsi alla porta dura e inflessibile dell'amata. In Orazio si attua quella fusione tra l'ideologia del principato e la cultura del I sec. a. C. che non abbiamo visto compiersi perfettamente nella poesia di Properzio e di Tibullo: in essi la lirica erotica non riusciva a conciliarsi con le lodi dell'imperatore, che restavano pur sempre un elemento estraneo e imposto dall'esterno; nei Carmina oraziani, invece, il convito, le lodi del vino e dei piaceri dell'amore e dell'amicizia, offrono lo spunto per l'affermazione di motivi cari ad Augusto o servono da pretesto per introdurre l'esaltazione della sua opera. Complimenti a Pasquale. Continuerò a seguire.
RispondiEliminaLuciano Nota
Fa molto bene Pasquale Balestriere ad evidenziare la natura congiuntamente passionale e morale di Orazio, che fu un'anima sorridente ed inquieta, apollinea e dionisiaca nello stesso tempo. Il suo famoso carpe diem non è la ricerca del piacere egoistico e fine a se stesso, così come viene spesso frainteso in maniera volgare, ma è la scoperta del godimento di esistere in ogni suo aspetto, positivo o negativo indifferentemente. La vita, per lui, merita di essere festeggiata sempre e comunque, a prescindere dalle gioie e dai dolori che propina. Penso che l'intero epicureismo potrebbe essere rivisitato alla luce di questa prospettiva, ma limitiamoci ad Orazio, al suo ideale della "misura" e del "giusto mezzo", di quella autàrkeia (autosufficienza) e di quella bonaria umanità che lo contraddistingue, spingendolo verso il controllo delle passioni. Un tale controllo va distinto nettamente dall'ascetismo che vuole e che predica l'estinzione di ogni desiderio, il nirvanico assassinio della vita. La libertà interiore di cui parla Orazio si raggiunge in un modo soltanto: attraversando e vivendo le passioni dall'interno e non estirpandole alla radice. La polemica oraziana non è contro il vizio, ma contro l'eccesso. Ed è un'altra cosa. E' saggezza. Qualcosa ossia di totalmente diverso dalla "ragione". La quale non è affatto limpida, come si vorrebbe far credere, ed è anzi in balia totale delle passioni, visto che è sempre e comunque settaria, faziosa, partigiana. Il lume cui fanno riferimento i saggi antichi non è quello della ragione, ma quello del buon senso. E cos'altro è il buon senso se non un sinonimo del sesto senso? o anche del settimo e dell'ottavo? Ed ecco che si torna al tema del divino: di quel divino che Socrate identificava con il daimon, con quell'essenza profonda di noi stessi che va molto al di là della ragione e che è la nostra identità più vera, ciò che noi stessi siamo nel nostro stampo elementare. Sarebbe ora di smetterla con la sciocca separazione del divino dall'umano. Vero umanesimo è quello di Orazio, come pure quello di Seneca, o di chiunque altro chiami in causa se stesso, la radice arcana di se stesso, non la propria ragione. Si è fatto nei secoli, e si continua a fare, un gran parlare del razionalismo greco-romano, ma il substrato misterico da cui quella civiltà è sorta è stato realmente cancellato? Si dirà che il problema non esiste quanto meno in area romana, dove il pragmatismo e l'organizzazione statale sono stati di casa. Siamo sicuri di questo? Come dimenticare la fortissima e misterica presenza di una figura come Giano Bifronte, intorno alla quale si costituì l'intera weltanschauung dei Latini, prima ancora della nascita di Giove e degli olimpici dèi.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Riuscire a proporre una trattazione così attenta e circostanziata senza risultare pesante o pedante, o, peggio, noioso, richiede una penna abituata al necessario abbinamento di consistenza e lievità proprio della poesia. Pasquale Balestriere conosce i moti e le danze, le acrobazie ma anche i passi ben ponderati propri della lirica, e possiede, lo ha confermato in questo saggio, anche una conoscenza approfondita e appassionata del mondo classico e del complesso, vasto e fascinoso universo poetico degli autori di maggior spessore di quell'epoca ancor oggi fondamentale. È difficile per me , dopo aver letto commenti dettagliati, autorevoli e circostanziati, aggiungere qualcosa di specificamente nuovo. Mi limito, e lo faccio con molto piacere, ad esprimere a mia volta a Pasquale il mio apprezzamento per il lavoro svolto. Ottimo anche come spunto per ulteriori disanime e come invito alla lettura per i giovani che si approcciano al mare magnum, eternamente vivo, del mondo classico. Felicitazioni a Pasquale e un caro saluto a Nazario Pardini, padrone di casa di questo blog, ottimamente curato.
RispondiEliminaIvano Mugnaini
Straordinario saggio, quello di Pasquale Balestriere, sul tema della femminilità nella poesia di Orazio. Poesia della femminilità, attenzione, non poesia dell’amore (o, meglio, non dell’Amore con la maiuscola). Da questo equivoco Balestriere sgombra subito il campo, a cominciare dall’intitolazione della sua ricerca. Rimarca poi il concetto con la citazione di Alfonso Traina, secondo cui “Orazio volle essere, ma non fu, poeta d’amore; d’amori, piuttosto”. D’altronde lo stesso Orazio, quando afferma “Parabilem amo venerem facilemque”, compie una scelta di campo del tutto chiara, non contrattabile. Ma è lo stesso Balestriere, per questo riguardo, a dirimere ogni dubbio, quando di Orazio afferma che “è perciò chiaro che non l’amore egli cerca, ma piuttosto la femminilità”. E anche la galleria di tipi femminili, interminabile e variopinta, ci racconta di un poeta deciso, piuttosto che a cantare il sentimento amoroso nella sua dimensione universale e assoluta, a proporre invece un campionario di figure femminili, e di psicologie, di caratteri e tratti distintivi, con cui intesse rapporti deperibili e temporanei, amori a termine, schermaglie sentimentali prive di orizzonti duraturi e “compromettenti”, utili soltanto a procurare sollievo e fuga dall’ “atra cura”, dall’angoscia della vita. Ciò però non deve indurre, come sottolinea Balestriere, a considerare Orazio un libertino (“Niente di più falso”), volendo con ciò rivendicare, per il poeta, una indiscutibile “serietà” e una moralità (una sorta di etica del vivere), qualità che gli competono in virtù della coerenza con cui, tracciato un percorso esistenziale, egli lo nobilita perseguendo e realizzando quella “medietas” che rappresenta il tratto distintivo e decisivo della classicità. Ciò vale, evidentemente, anche nei riguardi del sentimento amoroso e della donna, di cui Orazio esalta, in primis, il canone della bellezza. E qui Balestriere (a conferma della scelta prioritaria di Orazio) fa un distinguo, sottolineando che “per il Venosino, la bellezza, prima e più che una categoria dello spirito, era un fattore necessario alla vita, un elemento che ne determinava l’armonia e la ricchezza”. Ciò posto, e certificata così la predilezione di Orazio per la categoria degli amori, piuttosto che per quella dell’Amore, mi chiedo se sia mai possibile addebitare al poeta, procedendo per sofismi, postulati, princìpi aristotelici e quant’altro, la “colpa” di non essere stato il cantore della Bellezza universale e ideale dell’Amore duraturo ed eterno, ma solo il cantore degli amori effimeri della quotidianità, destinati a corrompersi e a perire. E’ del tutto evidente che questa è una domanda retorica, essendo fuori discussione che la bellezza di Orazio è tutta nella grandezza dei suoi versi: egli canta la bellezza dell’amore qui ed ora, per sottrarla alla fugacità e all’usura del tempo. E canta l’amore del suo tempo, così come veniva percepito e vissuto dai suoi contemporanei. Dice bene, a questo riguardo, Giorgio Linguaglossa, secondo cui “una poesia sull'amore è sempre una poesia sugli uomini e le donne concrete che vivono in una data civiltà”. E Pasquale Balestriere, con impareggiabile profondità narrativa ed esegetica, getta un fascio di luce rivelatrice non solo sulla grande bellezza della poesia di Orazio, ma ci consente anche, con la sua abilità di finissimo traduttore e interprete, di meglio comprendere la Roma augustea, il contesto e la temperie di quell’epoca, i primi segnali della decadenza dell’Urbe.
RispondiEliminaUmberto Vicaretti
Sono profondamente grato a Linguaglossa, Pozzoni, Nigro, Cerio, Angelucci, Nota, Campegiani, Mugnaini e Vicaretti (che bei nomi!) per essere intervenuti in modo così puntuale, competente, autorevole. Ognuno di loro ha arricchito il mio saggio di osservazioni, riflessioni e contributi di grande acume e spessore.
RispondiEliminaGrazie ancora. E grazie al carissimo amico Nazario.
Un cordialissimo saluto a tutti
Pasquale Balestriere
Carissimo Pasquale,
Eliminaneppure un mese è trascorso dalla lettura della prima parte del tuo fantastico saggio che tanto c'illuminò su "L'uomo, lo scrittore" ed ecco già la seconda parte a ristorarci con "Il tema della femminilità in Orazio" il cui svolgimento è tutto dedicato al sentimento amoroso che il poeta Venosino nutriva per la donna.
Un vero capolavoro, che risplende nel nostro firmamento letterario e caudato, come stella cometa, da ben 9 altissimi ed altitonanti commentatori.
Tuttavia, mi domando, perché fra questi commenti, neppure uno che sia femminile? Forse perché Orazio "secondo il dettato epicureo, ritiene l'amore - quello vero, profondo, passionale - un sentimento che genera dolore. Dunque è da evitare in quanto sconvolgerebbe un equilibrio interiore faticosamente realizzato"? Ma il quadro che segue è assai variegato di amori fugaci: una ventina di donne, fra passionarie, volubili ed insaziabili, penso che abbiano ampiamente coinvolto e pure saziato la vita del poeta. Ve n'era perfino una dolce nei modi ed abile con la cetra, un'altra che lo amava per il fisico robusto e neri capelli che gli ombreggiavano la fronte. Quindi, gentili Signore, perché siete rimaste nell'ombra?
Oggi è la festa della donna ed io, su questo blog, mi sento sola come un numero primo, perciò mi auguro che anche voi, care amiche, vogliate uscire, libera-mente, magari indossando le vostre meravigliose vesti della pari diversità, ad incontrare i nobili e competenti pensieri di questi altrettanto gentili Signori.
Maria Ebe Argenti
Grazie di cuore, cara Maria Ebe, per il tuo generoso, brioso e gradito commento.
EliminaPasquale Balestriere
Caro Pasquale, amico mio.
RispondiEliminaE' presto. Prestissimo
E l'alba si avvicina con toni rosati
Mi dà un senso di serenità e pace
Qui tutto è silenzio!
Anche il mare
Ed io ascolto una voce che mi sussurra est modus in rebus e carpe diem.
Ebbene, leggo e rileggo il tuo SAGGIO sul poeta Orazio Flacco, notissimo tra … noi giovani ed amatissimo fin dai tempi della scuola (tempi oramai molto lontani!) e la tua capacità di giudizio e studio traccia un solco profondo nell'animo mediante l'analisi eccellente delle parti salienti dell' opera del poeta di Venosa. Ogni partitura ha una sua specifica musicalità, i versi si snodano con semplicità e, contemporaneamente, con profondità; le tue citazioni accompagnano il lettore verso la filosofia di vita del poeta e la saggezza delle sue parole appare oggi ancor più significativa.
Solo un poeta classico, quale tu sei (ed è a parer mio un grande apprezzamento) avrebbe potuto interpretare così i versi del grande Orazio.
Ho molto gradito lo svolgimento del SAGGIO in cui sei riuscito a spingerti talmente in profondità così da riuscire a mettere a nudo malinconie, dolori e slanci d'amore. Quanto lavoro!
Elogiarti? Sai cosa penso della tua poesia e dell'uomo Pasquale Balestriere e quindi ti dirò soltanto bravo per questo tuo notevole lavoro. Non ti loderò ancora perchè gli altri amici lo hanno già fatto, con bravura e competenza, assai meglio di quanto avrei potuto fare io.
Un ultimo pensiero: grazie per avermi riportato indietro nel tempo, grazie per aver condiviso questo splendido lavoro.
Un abbraccio sincero
Con affetto
Giannicola Ceccarossi
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Io so, caro Giannicola, quanto siano intense e partecipate le tue letture; e quanto il tuo orecchio musicale sappia percepire musiche, armonie e silenzi.
RispondiEliminaDi questo tuo approccio così sensibile e personale ti ringrazierebbe lo stesso Orazio, se solo potesse...
Con l'affetto di sempre
Pasquale Balestriere