Angela Greco. Arcani. Achille e la Tartaruga. Gennaio 2020
Già ho letto ed ho scritto
sulla poesia di Angela Greco. E la sua inondazione emotiva, il suo afflato
lirico, la sua ampia elasticità verbale non mi hanno lasciato indifferente, ma
sempre mi hanno preso e accompagnato in un mondo di alte suggestioni ontologiche.
Questo scrive la poetessa
nella sua postfazione a proposito di “Arcani”: “Gli Arcani fanno parte dei
Tarocchi, carte, che rappresentano icone,
archetipi, che parlano la lingua dei simboli; distinti in Maggiori e Minori, il temine “arcano” contiene
in sé la parola “arca”, ossia il contenitore in cui si trova qualcosa riposta e
nascosta – forse anche dimenticata – all’interno di uno scrigno sicuro…” e
conclude: “L’opera, in estrema sintesi, è un’analisi temporale ancorata da un
lato all’utopia della poesia come necessità di sopravvivenza e, dall’altro, al
realismo della inevitabile “caduta” dell’Uomo ad opera della sua stessa
natura.”. Indicazioni di grande impatto umano ed esistenziale che ci fanno da
prodromnico avvio, da antiporta ad una analisi partendo dal presupposto di una
visione futile e provvisoria di una storia e, al contempo, di una poesia che
non potrà mai assumere, realisticamente, il ruolo di salvavita.
Credo sia opportuno iniziare
da un lacerto di un mio scritto per entrare nel mare magnum della sua poetica:
“Un poemetto di ampia suggestione, anche se l’autrice si lascia andare ad uno
stile di positura minimalista, con poca intrusione di personale apporto. Tutto
scorre libero e frammentato sotto gli
sguardi occasionali; gli ammicchi a perone ed oggetti che sembra non siano
legati da un filo conduttore. Cosa non vera, dacché la poetessa, anche se fuori
scena, fa sentire le sue emozioni sulla vita e la sua inesorabile piega. La
casa vuota, Mina, il fiore ostinato, il gatto, Ignacio, il toro, il Bolero di
Ravel, Giovanna, il portafotografie, Antonio, santo di metà gennaio...
tante immagini che si alternano in una
visione realistica tipo stesura Anceschiana, o correlativo di stampo eliotiano.
Ma non si può sfuggire, camminando, alle nostre impronte; e sono esse che
parlano e dicono di tante figure nella
morsa di un tempo che scorre fregandosene di tutto e di tutti. Una cosa è
certa. Angela Greco è alla ricerca di indirizzi nuovi che si distacchino dalla
solita poesia convenzionale, basata su sinestesie e strutture dalla classica
positura; e si concede ad ampie misure che richiedono quasi di stesura
narrativa per raccontare la vita, mirandola, a sprazzi, dalla sua postazione,
in disparte, senza ficcare il naso nel suo inesorabile consumarsi... Ed è essa, la vita stessa, che ci tiene imbrigliati nella sua rete-tramaglio
lasciandoci poco spazio d’intervento
durante il prosieguo della vicenda. Forse è proprio da questo porsi in alto,
sopra i fatti, che l’autrice ricava il leitmotiv che dà compattezza alla
trama….” (daTaurominomachia di Angela
Greco).
Questo è il breve scritto che riporto per
iniziare una esegesi su Angela, scrittrice versatile, eclettica, che non teme
di affrontare vie nuove, di nuova e epigrammatica veemenza scritturale, un po’
fuori dai canoni tradizionali, dove fa legge la solita prosodia immersa in un
romanticismo di fiorellini e prati verdi. Angela prende il toro per le corna e
si lascia trasportare da una forza interiore
verso orizzonti di ampia levatura; azzarda spazi e cime che richiedono scarponi chiodati per
inerpicarsi. Non le è sufficiente lo spazio dei mortali, deve guardare in alto,
deve estendere l’occhio oltre la siepe, dacché è la sua natura di poetessa di
razza proiettarsi oltre. Anche se è di ogni mortale ambire a qualcosa che
svincoli, sleghi, Ella lo fa affidandosi alla sua verbalità profonda e espansa,
come dimostra questo bel libro che mi è giunto stamani 28 febbraio per sua bontà. Un testo ben fatto, alla vecchia
maniera, quando pubblicare era un’arte; e qui c’è tutta l’arte di Achille e la
Tartaruga, casa Editrice di grande spessore, che fa dei suoi interessi
artistici prodotti belli a vedersi e a
sfogliarsi. Arcani, il titolo del
nuovo libro. Come abbiamo detto pubblicato per i caratteri di questa interessante
casa editrice. Forse la poetessa ci vuole mettere da subito di fronte al
mistero della poesia. Al mistero di questa nobile arte che ci cerca e ci trova,
dacché è essa che vuole insediarsi dentro noi, per farsi padrona della nostra
vita, dei nostri sentimenti, dal momento che, una volta catturatici, non molla
la preda e pretende di farci girare per mondi e piane in cerca di nature vive
e morte, che si traducano in linguaggio,
in reificazione dei nostri intendimenti.
E qui il linguaggio si fa
ampio, ipertrofico, voluminoso, dove le parole si uniscono in iuncturae di
grande contaminazione emotiva. Ci sembra difficile a volte differenziare la sua poesia dalla
prosa, tanto è esteso il suo dire. Ma il tutto deriva dal fatto che la Nostra è piena, mai sazia, di meditazioni e
riflessioni sulla vita e il suo processo infaticabile: solitudine, ritorni,
memorie, affetti, realismo lirico, lirismo smussato, e tanta epigrammatica
intrusione affidata a pomeriggi-talismani, a cicatrici che tagliano in due la città; ma Claire va impassibile,
attraversa la città vecchia dove profumi di tortine alla ricotta gironzolano
nell’aria: “S’aggira Claire tra le parole non dette, tetti di vecchie memorie
silenziate per antica abitudine”. Il “ti amo” è un progetto per l’indomani:
creatività, invenzione, voli en haut, falchi che sorvolano il luogo del
prossimo nido incuranti della sera incipiente. E’ dalla natura che Angela
prende la ire per fare i ritratti di un animo
inquieto, gironzolone; e non è
detto che in questi ritratti non ci si trovi con tutta la voglia di uscire dal
cerchio ristretto della vita. Segue Claire. Nei posti più impensati, anche
presso i ruderi dove crescono petali che vincono la pietra, mentre la
ruggine si attorciglia a un’eco del balcone, dell’isolato da dove giunge
profumo di pane. Questa è la storia di un messaggio antropomorfo, abituale,
comune, ma che nelle mani di Angela si fa diverso, oggetto di vera e rara
creatività, dacché tutto viene detto e descritto en passant, senza posare
troppo lo sguardo sulle cose. Comunque è da esse che la poetessa parte, dalle
cose comuni, di ogni giorno, da quelle che si possono incontrare per strada ad
ogni nostra uscita, poi da quelle si distacca verso pianeti di epifanica rinascita. Possiamo
anche seguirla nell’alcova dei suoi riposi, ma ci sfugge, perché si rifugia
nella poesia che vibra e palpita ormai posseduta dalla sua incursione. Le
invenzioni verbali si fanno sempre più fitte, per cui l’attesa cade dai rami
incontro ai tuoi piedi, o arriveremo a Capo Horn con le rondini in tasca, o
la notte
ricomincia con le dita sugli strumenti. Insomma è tutto un lievitare di
immagini che aiutano la poetessa a volare oltre la parola, perché anche lì, nel
verbo, si sente prigioniera e fa di tutto per non lasciarsi imbrigliare. Ma noi
seguiamola fino in fondo, mai stanchi delle sue magiche creazioni. Fino a
quando anche la poesia: “ha smesso di credere in questo genere che di umano ha
ormai ben poco”
Nazario Pardini
Mi sono commossa dinanzi alla bellezza di questa lettura, così viva da continuare a palpitare anche dopo averla terminata. Grazie è parola poca, da reiterare sorridendo felice in questo momento così poco colorato. Allora, grazie Nazario, grazie prof.Pardini, grazie di cuore!!
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