SE NE CONSIGLIA LA LETTURA
A
cavallo tra il 20X- e il 20X+, la città di Captaloona, sarà teatro di eventi
epocali e, tra giallo e fantascienza, il romanzo li narra dipanandosi in un
clima sospeso e surreale (ma per questo ancora più reale), esplorando la città,
che diventa meta di stralunati personaggi dai quali muoverà una sorta di
progetto rivoluzionario. Ed ecco che un fattorino malato di call-center
adiction, una operatrice di call center che ha paura degli specchi ma che
possiede una voce meravigliosa e un architetto celebre che ha una storia
segreta e per questo sarà vittima di un rapimento, partono per questa città,
dove trovano i più estremi orrori dello sviluppo edilizio e mediatico. Lì
incontreranno una sessuologa frustrata e la sua assistente (una transessuale
bellissima), e poi un boss spietato appassionato di videogiochi, un assessore
corrotto, un rapitore filosofo e la sua mammina (una vecchietta che nessuno
infinocchierà mai) ed altri personaggi tanto onirici quanto veridici, che
potrebbero esistere nei sogni, nella realtà, nel presente e nel futuro… Tutti
insieme, in questo assurdo percorso, disegneranno i destini della città.
Captlaoona riuscirà a trasformarsi nel migliore dei mondi possibili?
Scritto con linguaggio agile ed ironico, Captaloona esplora le bassezze umane e
gli eroismi quotidiani di cui capita di essere ignari protagonisti. Il romanzo
è un'avvincente divagazione tra utopia
e realtà e si legge come una profezia e un thriller, catturando l'attenzione
del lettore fino all’inaspettato finale.
CAPTALOONA
di Claudio Fiorentini
Kairós Edizioni - Via Nilo, 28 - 80134 Napoli
www.edizionikairos.it
COLLANA SHERAZADE - PREZZO € 14,00
di Claudio Fiorentini
Kairós Edizioni - Via Nilo, 28 - 80134 Napoli
www.edizionikairos.it
COLLANA SHERAZADE - PREZZO € 14,00
RECENSIONI
CAPTALOONA
di Antonio Spagnuolo
Il titolo del romanzo di
Claudio Fiorentini, “Captaloona” (Kairòs Edizioni) non va inteso solo nella sua
funzione meramente paratestuale, di semplice curiosa introduzione alla lettura
ma come agente polisemico indicatore di sensi nell’itinerario composito delle
pagine: un indicativo che replica liricamente e criticamente il meccanismo di
imbrigliamento alla lettura, una operazione di scardinamento e confusione
gioiosa per cogliere scaglie di quotidianità, tutta in rimandi ed improvvise
sortite. Una scrittura densa, particolarmente ricercata per quella sua scelta
di fraseggi ed approfondimenti che fanno della pagina una operazione oserei
dire apertamente culturale. L’ambientazione è volutamente distanziata, nella
seduzione di avvicendamenti all’ombra di una incredibile quanto irraggiungibile
città scovata nell’affanno di un viaggiatore dagli ambigui rapporti.
L’espressione rivela una sensibilità moderna molto accattivante e la lettura
risveglia con premuraimmagini e trascendenze quasi colloquiali. Non mancano con
frequenza asserzioni di carattere filosofico , o di lucida interpretazione del
sub conscio, quasi un invito ad astenersi dalle attività positive dello
spirito, in cui c’è la fonte di ogni nostro dolore umano, ed educarsi
attraverso un esercizio di semplificazione ad un ideale di saggezza che
coincida con la sospensione. L’errore quindi non consiste nella sensazione che
riceviamo, ma nelle illusioni che accarezziamo, nella ricerca di una immediatezza
della levità.
Il racconto si apre con una pagina introduttiva, precisa nel suo carattere di romanzo poliziesco. Si inizia con la morte di Marc Mullett , sparato a bruciapelo da un tal Sebastiano e ci si introduce nella variegata e variopinta storia di una città caotica e suggestiva insieme- In quarta di copertina ci avvertono che ritroveremo il clima sospeso di un tempo fantastico, e la città di Captaloona è meta di stralunati personaggi dai quali sortirà una sorta di progettorivoluzionario. Un fattorino timidissimo, malato di call-center addiction, una operatrice di call center con la paura degli specchi e una voce meravigliosa, un architetto celebre che ha una storia segreta ed è vittima di un rapimento, una sessuologa frustrata con le vicende della sua assistente, una transessuale bellissima, un boss spietato appassionato di videogiochi. Ci troveremo fra numerosi personaggi , tutti delineati con arguzia e competenza. Un assessore corrotto, un rapitore filosofo e la sua mammina, una vecchietta che nessuno infinocchierà mai … Captaloona riuscirà a trasformarsi nel migliore dei mondi possibili?
L’autore sfida la quotidianità che incombe nei personaggi, in un percorso di aspettazione, di affabulazione, di loquacità , inseguendo i recessi degli animi nella dilatazione del reale e nella forte accensione delle emozioni più delicate. Le riappropriazioni delle varie identità, nel rispecchiamento dell’altro, non sfugge al controllo cosciente e va oltreil magico incantamento delle figure, in un crescente auto superamento, senza mai trasfigurare la scena. La trasparenza sembra essere il disvelamento di ogni mistero nel raffinato linguaggio dell’io narrante, ora disincantato ed evocativo, ora testimone involontario della storia e del destino. In alcuni tempi si vive in un alone di presenze – assenze ingigantite dai vapori delle inquietanti visioni confuse nell’ala dell’amore. O si alternano incertezze da affrontare timidamente, da scontrare verso immagini di malaffare, o si inseguono personaggi sorpresi nel tripudio improvviso dell’impazienza. Il pettegolezzo gioca, in alcune pagine , a rimpiattino con l’omosessuale di turno , spiazzando ogni accenno alla sua passata signorilità e confermando le maldicenze che lo avrebbero marchiato per sempre. Una forza sconosciuta sfugge al controllo del personaggio chiave e rivela la necessità di completarsi nel mistero nel quale vorrebbe immedesimarsi. Così circolarità ed infinito, quotidianità eirrealtà, giocano un ruolo centrale nell’alchimia trasversale della parola, come problematica ricerca dell’essersi e del non esserci, del mondo interno e del mondo esterno, della introiezione e della proiezione, qualcosa che è sempre in continuo divenire, per realizzarsi nel racconto policromatico. Insomma Captaloona appare improvvisamente una città di merda, ma esisteva, resisteva e ispirava gli amministratori che la prendevano come modello e volevano imitarne le glorie, che tra alterne fortune, vengono messe in luce nelle pagine del libro. “Ma doveva esserci dell’altro per decidere sul da farsi e costruire un futuro che si sarebbe dipanato tutto intero, se solo ora, in un attimo di intima libertà, avessero consentito di dipanarsi”. Così avviene anche che Cornelio e Galatea giochino in una indagine che si rivela più grande di loro. L’intuizione rimane sempre il filtro interiore che da vita alla creatività , e sembra intuitiva l’essenzialità della parola , la transività delsegno, o l’assoluto della connotazione che sposta l’orizzonte di attesa al di là della storia narrata. La folgorazione non rimane inappagata e trasforma la ricezione in un percorso che coglie la realtà tra il pensiero emozionale e la seduzione del significante. Ecco che trasalimenti e visionarietà sono delle vibrazioni che attraversano il vissuto dei personaggi , stabilendo gli spazi magici della scrittura. Seguiamo con ansia l’architetto, che non ha riconosciuto la sua cittadina, ormai invasa dal cemento e dall’incuria, e lo troviamo ammanettato ad un letto, sebbene comodissimo e profumato, comunque giaciglio coatto di un uomo che si scopriva sempre più estraneo alla sua città natale, ed ostaggio momentaneo di un uomo incappucciato. La struttura del racconto, in brevi capitoli attraverso i quali l’io narrante resta collegato ai vari personaggi solo dall’identità dell’ambientazione nel microcosmo del villaggio e non dallo sviluppo della vicenda narrata, la presenza di una vera epropria trama da lieve giallo, costituisce una ottima scelta stilistica del Fiorentini, che richiama ad una narrazione corale, una coerente polifonia nella voce dei vari attori che invadono prepotentemente la sua scrittura, e nei luoghi ove compaiono i controcanti della vicenda. E la vicenda non solo si dipana su paralleli diversi ma anche, come la contemporaneità insegna, su generazioni e stati sociali diversi: sono individui che si alternano continuamente e che danno movimento in tutta l’attualità di essere non solo uomini e donne, ma ancora elementi che affondano nel controllo del quotidiano. C’è un tentativo di mantenere – quasi in forma di compromesso – le immagini al riparo dall’erosione temporale; senza tuttavia farla scomparire nella dimensione non temporale, e perciò sempre un poco astratta. Non è una scrittura incline a rinnegare la sua provenienza “metafisica”, a farsi custodia di ricordi o improvvisazioni, per non tradire le distillazioni del «senso», perciò nonesitano a, per dir così, frantumare se stesse. In gioco c’è una finzione, fatta di metafore e astrazioni, che modifica con eleganza e ottima cultura le proporzioni e le aspettative, e che rimescola i dati sensoriali con impreviste fratture percettive. i segni rinunciano insomma a farsi verità al posto delle immagini, rifiutano di sostituirsi all’immediatezza della visione creando una dimensione altra: per cui la vita progredisce non per cancellare, ma per costruire fantasmi. Una scrittura che non si frantuma ed è una scrittura che ricalca una realtà «immaginaria» nei suoi tratti spesso sconnessi o incoerenti, frantumati appunto.
Come ogni thriller che si rispetti, l’epilogo mette in chiaro diligentemente tutte risoluzioni dei vari personaggi presentato nel lungo testo. Dai progetti dell’architetto ai crimini di un tal Collirio, dalla scomparsa di Sebastiano, ad Apollonia e Gregoria, dall’amore trovato di Gaetano ai due giovani Cornelio e Galatea, dalle imputazioniinflitte al defunto Marc, al colonnello in pensione costretto a chiudere il suo call center.
Il racconto si apre con una pagina introduttiva, precisa nel suo carattere di romanzo poliziesco. Si inizia con la morte di Marc Mullett , sparato a bruciapelo da un tal Sebastiano e ci si introduce nella variegata e variopinta storia di una città caotica e suggestiva insieme- In quarta di copertina ci avvertono che ritroveremo il clima sospeso di un tempo fantastico, e la città di Captaloona è meta di stralunati personaggi dai quali sortirà una sorta di progettorivoluzionario. Un fattorino timidissimo, malato di call-center addiction, una operatrice di call center con la paura degli specchi e una voce meravigliosa, un architetto celebre che ha una storia segreta ed è vittima di un rapimento, una sessuologa frustrata con le vicende della sua assistente, una transessuale bellissima, un boss spietato appassionato di videogiochi. Ci troveremo fra numerosi personaggi , tutti delineati con arguzia e competenza. Un assessore corrotto, un rapitore filosofo e la sua mammina, una vecchietta che nessuno infinocchierà mai … Captaloona riuscirà a trasformarsi nel migliore dei mondi possibili?
L’autore sfida la quotidianità che incombe nei personaggi, in un percorso di aspettazione, di affabulazione, di loquacità , inseguendo i recessi degli animi nella dilatazione del reale e nella forte accensione delle emozioni più delicate. Le riappropriazioni delle varie identità, nel rispecchiamento dell’altro, non sfugge al controllo cosciente e va oltreil magico incantamento delle figure, in un crescente auto superamento, senza mai trasfigurare la scena. La trasparenza sembra essere il disvelamento di ogni mistero nel raffinato linguaggio dell’io narrante, ora disincantato ed evocativo, ora testimone involontario della storia e del destino. In alcuni tempi si vive in un alone di presenze – assenze ingigantite dai vapori delle inquietanti visioni confuse nell’ala dell’amore. O si alternano incertezze da affrontare timidamente, da scontrare verso immagini di malaffare, o si inseguono personaggi sorpresi nel tripudio improvviso dell’impazienza. Il pettegolezzo gioca, in alcune pagine , a rimpiattino con l’omosessuale di turno , spiazzando ogni accenno alla sua passata signorilità e confermando le maldicenze che lo avrebbero marchiato per sempre. Una forza sconosciuta sfugge al controllo del personaggio chiave e rivela la necessità di completarsi nel mistero nel quale vorrebbe immedesimarsi. Così circolarità ed infinito, quotidianità eirrealtà, giocano un ruolo centrale nell’alchimia trasversale della parola, come problematica ricerca dell’essersi e del non esserci, del mondo interno e del mondo esterno, della introiezione e della proiezione, qualcosa che è sempre in continuo divenire, per realizzarsi nel racconto policromatico. Insomma Captaloona appare improvvisamente una città di merda, ma esisteva, resisteva e ispirava gli amministratori che la prendevano come modello e volevano imitarne le glorie, che tra alterne fortune, vengono messe in luce nelle pagine del libro. “Ma doveva esserci dell’altro per decidere sul da farsi e costruire un futuro che si sarebbe dipanato tutto intero, se solo ora, in un attimo di intima libertà, avessero consentito di dipanarsi”. Così avviene anche che Cornelio e Galatea giochino in una indagine che si rivela più grande di loro. L’intuizione rimane sempre il filtro interiore che da vita alla creatività , e sembra intuitiva l’essenzialità della parola , la transività delsegno, o l’assoluto della connotazione che sposta l’orizzonte di attesa al di là della storia narrata. La folgorazione non rimane inappagata e trasforma la ricezione in un percorso che coglie la realtà tra il pensiero emozionale e la seduzione del significante. Ecco che trasalimenti e visionarietà sono delle vibrazioni che attraversano il vissuto dei personaggi , stabilendo gli spazi magici della scrittura. Seguiamo con ansia l’architetto, che non ha riconosciuto la sua cittadina, ormai invasa dal cemento e dall’incuria, e lo troviamo ammanettato ad un letto, sebbene comodissimo e profumato, comunque giaciglio coatto di un uomo che si scopriva sempre più estraneo alla sua città natale, ed ostaggio momentaneo di un uomo incappucciato. La struttura del racconto, in brevi capitoli attraverso i quali l’io narrante resta collegato ai vari personaggi solo dall’identità dell’ambientazione nel microcosmo del villaggio e non dallo sviluppo della vicenda narrata, la presenza di una vera epropria trama da lieve giallo, costituisce una ottima scelta stilistica del Fiorentini, che richiama ad una narrazione corale, una coerente polifonia nella voce dei vari attori che invadono prepotentemente la sua scrittura, e nei luoghi ove compaiono i controcanti della vicenda. E la vicenda non solo si dipana su paralleli diversi ma anche, come la contemporaneità insegna, su generazioni e stati sociali diversi: sono individui che si alternano continuamente e che danno movimento in tutta l’attualità di essere non solo uomini e donne, ma ancora elementi che affondano nel controllo del quotidiano. C’è un tentativo di mantenere – quasi in forma di compromesso – le immagini al riparo dall’erosione temporale; senza tuttavia farla scomparire nella dimensione non temporale, e perciò sempre un poco astratta. Non è una scrittura incline a rinnegare la sua provenienza “metafisica”, a farsi custodia di ricordi o improvvisazioni, per non tradire le distillazioni del «senso», perciò nonesitano a, per dir così, frantumare se stesse. In gioco c’è una finzione, fatta di metafore e astrazioni, che modifica con eleganza e ottima cultura le proporzioni e le aspettative, e che rimescola i dati sensoriali con impreviste fratture percettive. i segni rinunciano insomma a farsi verità al posto delle immagini, rifiutano di sostituirsi all’immediatezza della visione creando una dimensione altra: per cui la vita progredisce non per cancellare, ma per costruire fantasmi. Una scrittura che non si frantuma ed è una scrittura che ricalca una realtà «immaginaria» nei suoi tratti spesso sconnessi o incoerenti, frantumati appunto.
Come ogni thriller che si rispetti, l’epilogo mette in chiaro diligentemente tutte risoluzioni dei vari personaggi presentato nel lungo testo. Dai progetti dell’architetto ai crimini di un tal Collirio, dalla scomparsa di Sebastiano, ad Apollonia e Gregoria, dall’amore trovato di Gaetano ai due giovani Cornelio e Galatea, dalle imputazioniinflitte al defunto Marc, al colonnello in pensione costretto a chiudere il suo call center.
Antonio
Spagnuolo
5 dicembre 2013
CAPTALOONA
di
Maria Rizzi
Le parole appartengono a tutti finché non riesci a
dimostrare di essere in grado di appropriartene. E i romanzi, certi romanzi,
sono come la vita: non finiscono mai del tutto. Non terminano quando l’Autore
mette il punto finale, perché ogni lettore sente l’esigenza di farli
propri e di reinterpretarli. Questi
romanzi non si perdono nel lungo tempo, in quanto rappresentano delle tracce
scritte lasciate dal narratore sulle
battigie delle nostre anime, che nessun onda lunga potrà mai cancellare. Se la
creatività è il respiro della personalità e rivela il mondo interiore del
narratore nel caso di Claudio credo si possa tranquillamente asserire che la
sua creatività è un fiume in piena. Il trapezista di idee, di sentimenti, che
vive in lui, in “Captaloona” fa le capriole su se stesso, come una girandola.
Ci insegna che occorre dimostrare ai nostri sogni che vogliamo davvero
incontrarli, senza pretendere che essi facciano tutta la strada per arrivare
fino a noi. I sogni hanno bisogno di appurare che siamo coraggiosi. Inventa
personaggi dai nomi improbabili, ma dalle storie probabilissime, anche se
condotte su un registro surreale: Galatea Malaspina, Cornelio Pesto, Palmira
Grattalapesca, Collirio, Penuria, Apollonio / Placido, Gregoria, che conducono
esistenze umili, da individui ‘parziali’, come dice l’Autore, ovvero
imperfetti, che soffrono per le loro
manie e alcuni di loro finiscono per andare incontro al sogno di un solo
individuo, l’architetto Marc Mullet, nativo di Captaloona, che, dopo molti anni
di assenza, riceve dall’amministrazione della città l’accettazione a
partecipare a un paio di gare d’appalto. Claudio ci introduce nel romanzo
allestendo la rappresentazione della società nelle cui vele restiamo impigliati
da individui imperfetti, in quanto creati a immagine e somiglianza di Dio, ma
non uguali a Dio. Uomini e donne dagli impieghi modesti, chiusi nelle proprie
‘scatole’, nel caso del testo i call center, in cui lavora Galatea e che
rappresentano la mania del fattorino Cornelio, che privano dei rapporti diretti
e alimentano l’immaginazione, come d’altronde gran parte del mondo virtuale,
che sta prendendo il sopravvento nel ventunesimo secolo. Un puro il nostro
Autore, che, allestendo con originalità e umorismo esemplari tale teatro, mette
in risalto quanto la malafede governi inesorabilmente le relazioni umane.
L’equivoco diviene, infatti, la condizione quasi perenne in cui vivono i suoi
personaggi, come da lunga tradizione drammaturgica. Possiamo partire senz’altro
dalle commedie dei latini Plauto e Terenzio, che si ispiravano alle
rappresentazioni greche, tant’è che ne mantenevano l’ambientazione. Si è
cimentato in questo genere anche Shakespeare in uno dei suoi primi lavori,
intitolato proprio “La commedia degli equivoci”. Goldoni ne è l’autore italiano
più rappresentativo. Tale commedia è stata talvolta considerata un teatro
minore, in quanto usa l’espediente dell’equivoco per creare la trama e
divertire, ma gli autori francesi Feydeau e Moliére hanno dimostrato che è la
rappresentazione ironica dell’incomunicabilità umana. D’altronde è stato
Charlie Chaplin a dire che ‘la vita è una commedia e, spesso, una commedia
degli equivoci’. Nell’Opera del nostro Claudio non esiste la figura del deus ex
machinae, che risolve il groviglio di malintesi nel finale. Le situazioni
incredibili che vengono a crearsi sono affrontate dai vari personaggi che
riempiono la scena e che sanno uscire dai propri panni e inventarsi altri per
dare il loro contributo alla causa di Galatea, Cornelio e dell’architetto Marc
Mullet. Captaloona, una città, che in
realtà rappresenta un concetto, come scrive lo stesso Claudio, nei ricordi
dell’architetto incarna ‘l’isola che non c’è’, il modello di vita ideale, ma
nel tempo si è trasformata in ‘un vero schifo’, in uno dei tanti ‘insediamenti
umani dal comune denominatore: la perdita del cuore’ – l’espressione è tratta
dal testo -. Il viaggio dei nostri protagonisti a Captaloona diviene una
discesa negli Inferi, ‘nell’abisso dell’umanità’ – altra espressione di Claudio
-. La città, in effetti, rispecchia con qualche paradosso, i luoghi nei quali
siamo abituati a vivere. I prodotti di questa società ‘liquida’, per dirla con
il sociologo Baumann, che rendono le persone schiave del sistema, tese a
considerare i sentimenti al pari dei beni economici. Società di tecnologie
avanzate e devastanti, di universi virtuali, di pochi scrupoli e poca anima.
Eppure proprio in questo luogo nel quale sperimentano più
volte la dolorosa vulnerabilità dei vivi, i nostri protagonisti, insieme a una
serie di altri personaggi, che Claudio caratterizza con maestria,
evidenziando la sua capacità di portare avanti il
discorso corale, indispensabile per la riuscita di un romanzo, prendono atto
che il peggiore dei mondi possibili può essere cambiato. Occorre evitare la
trappola del disfattismo. I ‘se’ nella vita rappresentano le patenti dei
falliti; si cresce, si cambia con i ‘nonostante’… L’autore asserisce ‘in due si
è il doppio di uno’ e trasmette il senso della forza. Due persone possono
essere già una folla. Il nostro Claudio ci dona una grande lezione di idealismo
rivoluzionario, che prescinde da ogni fede politica. Il Vecchio Saggio, ovvero
il Santo Asceta, la figura più affascinante del libro, che dovrebbe essere un
fantasma, ma probabilmente non lo è, afferma che coloro che abitano Captaloona
e detengono il potere ‘sono come il cemento, come la morte: tenaci, spietati,
implacabili… entrano nel cervello, controllano i pensieri, guidano i desideri’
– l’intera frase è tratta dal testo – . E parla di un Dio al quale non importa
in che lingua si parli, ma solo ‘che si sia buoni, che si viva con amore e si
agisca per amore’ – anche questo estratto è preso dal testo -. Ai potenti fa
comodo ‘un Dio utile, ma la bontà non è reazionaria, va al di là del colore
della pelle, della lingua, della religione o della fede politica; è il massimo
valore, la più grande delle qualità umane’. Sto riportando i brani del romanzo,
perché sono convinta che non potrei trovare parole adatte a esprimere meglio
simili concetti. Galatea e Cornelio a Captaloona divengono artisti di strada:
lei sfrutta l’ugola d’oro, lui strimpella una chitarra e ci trascinano nel
sogno di Claudio, che è costellato di fantastiche allegorie. Le fobie dei due
divengono le forme più innocenti di normalità, rispetto alla follia cieca di
coloro che vivono per distruggere. Tra
le numerose allegorie presenti nel testo mi piace citare quella dell’ascensore,
ossia del luogo in cui i due riescono finalmente a baciarsi. Diviene un simbolo
di elevazione verso i piani più alti di comunicazione e di felicità. Il libro,
si legge d’un fiato e nel finale sfuma nel giallo, per cui non ritengo
opportuno narrarne la trama. Tornando ai miei spunti introduttivi e, in
particolare, all’assunto che le parole hanno un senso solo se si dimostra di
essere in grado di appropriarsene, il nostro Autore, uomo animato da purissima,
incandescente passione, non solo si appropria delle parole, ma le veicola con
tale destrezza che in certi momenti rischia di perderne il controllo. Ed è lì,
in quei passaggi in cui l’ispirazione prende il sopravvento – torno a citare il
capitolo del Santo Asceta – che filtra il genio. Per genio intendo il talento
assoluto, del quale lo scrittore è inconsapevole. Captaloona è un flusso
inarrestabile di verità più o meno emotive, narrate con umorismo, inteso come
attitudine a considerare la realtà sotto aspetti bizzarri e singolari, che
muovendo il riso, consentono una più ampia e umana comprensione di essa, e
concepite a livello stilistico in modo ineccepibile. Leggendolo ho spesso avuto
la sensazione che nel corso delle nostre esistenze preferiamo ignorare le
verità. Per non guarire. Per non correre il rischio di divenire quello che
abbiamo paura di essere: completamente vivi! Maria Rizzi
CAPTALOONA
di Andrea Mariotti
Riguardo all’ultimo romanzo di Claudio Fiorentini dal
titolo Captaloona, Napoli, Kairòs
Edizioni, 2013, inizierei senz’altro col citare un illuminante passo dello
scritto che la poetessa e saggista Ninnj Di Stefano Busà ha voluto dedicare al
narratore che è pure -occorre rammentarlo- poeta e pittore (in CLAUDIO FIORENTINI
E LA SUA TRIADE ARTISTICA; leggibile, sulla Rete, all’indirizzo nazariopardini.blogspot.com/, in data
9/7/13): “In narrativa è spigliato, divertente, ironico, si esprime a tratti
alla maniera gaddiana. La sua scrittura molto stringata e parsimoniosa di
aggettivazioni, di orpelli, mira al discorso concreto, senza arrangiamenti o
infingimenti. Il realismo convive nelle sue opere e vi trasferisce le linee
essenziali di una verità dolorosa, ma sorretta da una saggia visuale
dell’esistente che si manifesta in ogni circostanza. Lo attraggono le grandi
tematiche: l’amore, la morte, la religione, la filosofia affiancate da una
visionarietà che scheggia talvolta il vissuto, fomentandolo e di riflesso
cercandolo e tentandolo metaforicamente. L’allegoria è anche una delle sue
attitudini. La sua pagina narrativa sembra ambientata in un tempo dialogico ma
anche diacronico, e si snoda lungo il corso di una ambientazione che riecheggia
di molti temi”. La copertina di Maria Rosaria Vado per il romanzo di
Fiorentini, sembra in effetti supportare visivamente le suddette osservazioni
della Busà; nel senso che in essa si vede eloquentemente contrapposta la
tetraggine della città commerciale
alla luminosità di quella ideale, a
misura d’uomo; in cui svetta, nel cielo senza nuvole, un grattacielo della
Musica. Scorrendo poi l’indice del libro, risulta più che evidente la scansione
musicale -in movimenti, per
l’appunto- che l’autore ha inteso dare ai blocchi della sua narrazione, da
leggere -pare suggerirci Fiorentini- tutt’altro che staticamente.
Conversando con l’autore dopo la lettura del romanzo, ho
avuto peraltro occasione di ripensare a un grande libro di Italo Calvino del
1972, Le città invisibili; con
specifico riferimento a quella coscienza
del multiforme -a fronte della complessità del reale- vibrante nelle pagine
calviniane, come del resto nel romanzo di Fiorentini in oggetto (rimando immagino lusinghiero per il
nostro autore che, evidentemente, ha saputo integrare al meglio negli anni
l’innato talento con i succhi vitali del suo andare per il mondo). Restiamo però concentrati un attimo su
Calvino: non si potrà certo dimenticare l’intima natura loico-raziocinante del
grande scrittore del nostro Novecento; laddove Fiorentini non ci appare
altrettanto distributivo, nelle sue pagine; pagine dei tempi attuali,
ovviamente, che si fanno carico di una “globalizzazione d’identità, la sua”;
cioè di Fiorentini, come osserva la Busà in conclusione del citato intervento.
Ma Claudio Fiorentini, a lettura ultimata di Captaloona, rimane comunque intimamente dalla parte di Calvino, a
nostro giudizio; alludendo a quella “gravità senza peso” che il grande
scrittore riconosce nello stile di autori quali Ovidio, Cavalcanti, Boccaccio,
Leopardi, Kundera (per limitarci a pochi ma significativi nomi) nella prima
delle sue memorabili Lezioni Americane:
Leggerezza; talché, tornando a
Claudio Fiorentini, qualsivoglia lettore non potrà negargli per l’appunto detta
leggerezza, in chiave espressiva.
Leggerezza che gli permette di dispiegare la suindicata coscienza del multiforme (e si pensi, al riguardo, al precedente e
felice “giallo metafisico” di Fiorentini, e cioè Il misterioso caso di via Delia da Gilal Gulta, del 2011). Così
dicendo, sarà forse possibile osservare più adeguatamente la scrittura efficace
e coinvolgente sulla quale Captaloona
può contare: aspetto evidente della bravura del romanziere; ma, ben più in
profondità, strumento aderente allo spessore umanistico (da scriptor rerum) di un sognatore,
Fiorentini, che sarebbe bene prendere sul serio.
“Captaloona non è una città, ma un concetto, eppure non
dubito che molte città abbiano caratteristiche simili, o peggiori di quelle qui
descritte. Se il mondo, come sembra, va nella direzione di Captaloona, sono
guai seri, e vanno risolti sul nascere. Non aspettate che un architetto malato
vi coinvolga, non aspettate che un fantasma vi guidi perché quelli, ahimè, non
esistono”. Così si legge nella severa epigrafe non a caso anaforata (“non aspettate…non aspettate”) posta all’inizio del
romanzo (con lontana e suggestiva eco del viaggio
per eccellenza (“Per me si va…”; Inferno,
canto terzo, 1-3). A pronunciare questa epigrafe è Ventresca, amico del celebre
architetto Marc Mullet e deciso a raccontare la storia dei fitti eventi
accaduti a Captaloona partendo appunto dalla fine, e cioè dall’assassinio di
Mullet; conditio sine qua non, in
sintesi, della rinascita della città. Il lettore di Captaloona non tarderà a prendere coscienza della superiorità
indiscussa di Mullet rispetto agli altri attori della vicenda; una superiorità
che trascende, a conti fatti, gli eventi stessi narrati nel romanzo. Sicché
sarebbe errato ravvisare in Mullet un vitale alter ego del romanziere; in quanto la figura dell’architetto suscita totalmente l’ammirazione dell’autore,
poco interessato ad attribuirle profondità di personaggio; così, al dunque, di
valenza demiurgica dovremo parlare a proposito di tale figura: in una parola
sola, funzione narrativa, apodittica
rispetto al flusso romanzesco e finalizzata a farsi sovente portavoce
dell’umanistico risentimento di Fiorentini, come ben dimostra l’attacco del secondo movimento del libro, dal titolo L’arrivo (a Captaloona, naturalmente): “Tutto cominciò con l’arrivo
alla stazione, un luogo veramente ignobile, ben diverso da quello descritto
dall’architetto”. Così la città appare, ivi giunti in treno, a Galatea
Malaspina, Cornelio Pesto e al celebre architetto, che non mancherà di
osservare poco più avanti come oggi ci sfugga “il senso della convivenza tra
cemento e libertà”. E proprio Galatea Malaspina e Cornelio Pesto sono di gran
lunga i personaggi, anzi, le vitali creature che maggiormente mi hanno
convinto, del romanzo; anche perché in
Galatea e Cornelio si incarna nel modo più efficace a mio modo di vedere e come
preciseremo la carica utopica diffusa nel libro. Galatea (si noti il mitologico
nome che rimanda alla “bianca”, una delle Nereidi amata invano dal ciclope
Polifemo); Galatea Malaspina, stavamo dicendo, entra subito in scena nella
narrazione: “per riscattarsi da una vita magra e grama” (e si osservi, qui, la
doppia aggettivazione frutto d’anagramma felicemente congegnato da Fiorentini;
uno scrittore dotato di una vis
ludico-linguistica capillarmente attiva all’interno delle vicende da lui
narrate). Ma come entra in scena Galatea in Captaloona?
Presentandosi nello studio del
celebre architetto per un posto di assistente nel suo staff. La giovane donna,
“protagonista vocale di un misero call center”, pur titubante di fronte al
“maestro”, finisce per assecondarne le catalizzanti pressioni a seguirlo a
Captaloona, per scoprire le carte di loschi gruppi di potere localmente
operanti (e suggestiva è la pagina che
quasi ci fa sentire la voce stupenda di Galatea impegnata a cantare ‘Na sera ‘e maggio, con l’architetto ad
ascoltarla “estasiato”). In effetti, la pagina accennata risulta ai nostri
occhi importante in quanto, sempre in essa, irrompe nella storia il giovane
fattorino Cornelio Pesto, romanzesca creatura uscita viva dalla penna del
narratore. “Timido e impresentabile”, perdutamente innamorato di Galatea, il
giovane Pesto, inzuppato d’acqua, ha la sfortuna di fare il suo ingresso nello
studio dell’architetto nel bel mezzo dell’esibizione canora della donna,
peraltro in accappatoio a causa dei suoi vestiti fradici di pioggia; donde “la
sagra del malinteso”, che però ferisce l’animo di Cornelio, fino ad indurlo a
scappar via umiliato; non senza moti di malignità e maleducazione rivolti a
Galatea e Mullet. Cornelio Pesto, con le limpide parole del romanzo “era un
ragazzone ingenuo, facile preda dei trabocchetti che tende ogni giorno il mondo
contemporaneo, e delle seduzioni insite nelle mille angherie diffuse dei mezzi
di comunicazione. Per un lungo periodo della sua giovinezza non aveva fatto
grande uso delle sue qualità, divenendo il ritratto di una società malata, un
giovane solitario e scontroso che aveva paura di parlare con la gente e si
chiudeva a riccio…Tuttavia aveva una vita sociale, sebbene discutibile: era,
forse suo malgrado, un esperto di numeri verdi, di quei numeri cui fanno capo
fantomatici call center…”. Non a caso abbiamo riportato quasi per intero
l’iniziale caratterizzazione del personaggio; trattandosi a nostro avviso di
uno dei punti più felici del libro, laddove bastano a Fiorentini pochi tocchi
per rappresentare fluidamente, con “gravità senza peso”, ossia con la suddetta leggerezza, quell’insidioso autismo
neppure così nascosto in tanti giovani d’oggi e che in Cornelio Pesto
costituisce un humus destinato
tuttavia a fare i conti con l’esperienza vitale del multiforme, in una città come Captaloona. Facciamo un passo avanti,
focalizzando la nostra attenzione sul capitolo Ali del Sud, incluso nel terzo
movimento del romanzo (dal sottotitolo Dove
si dipana l’intreccio). L’aria si è fatta pesante a Captaloona, dopo
l’incontro di Mullet e Galatea Malaspina nel palazzo del Comune con
l’inquietante burocrate dal nome Penuria; e, soprattutto, dopo il rapimento
dell’architetto da parte di “brutti ceffi” per un faccia a faccia con il
“temibile” Collirio, l’anima dannata della città. Netta, a questo punto, la
nostra sensazione di trovarci al cospetto del capitolo più bello e decisivo del
libro. Vediamo il perché. Cornelio Pesto
incontra Galatea, ossia la donna dei suoi sogni, “in quell’ignobile distesa di
catrame e lastroni di cemento”; che così si è rivelata nel frattempo ai due la
città di Captaloona. Lui, Cornelio, artista del pedinamento, con lo sguardo per
terra, si trova adesso irrevocabilmente di fronte alla schiettezza di modi e
parole della donna (non più rassicurata dalla stabile e povera monotonia del
call center dove lavorava). E Galatea, allora “saggia, manifestò una debolezza
per dare all’uomo la possibilità di rendersi utile”, leggiamo nel romanzo.
L’uomo non può più rimandare una lotta quasi epica contro i tortuosi percorsi
della sua ripiegata fantasia; in quanto Galatea Malaspina gli è ora di fronte
in carne e ossa; ed eccolo quindi confessarle la sua dipendenza dai “numeri
verdi”; per prendere atto che l’immagine della donna da lui costruita durante le
lunghe telefonate del passato non coincide con quella reale di Galatea ora
davanti ai suoi occhi. “Vagheggia/ il
piagato mortal quindi la figlia/ della sua mente, l’amorosa idea,/ che gran
parte d’Olimpo in se racchiude”, ci dice Giacomo Leopardi in Aspasia (versi 37-40), canto napoletano
del 1834 e relativo al suo infelice innamoramento per Fanny Targioni Tozzetti
(vissuto dal grande Recanatese nel suo precedente soggiorno fiorentino). Ma,
tornando a Galatea e Cornelio, come non prendere atto della umanità rispettosa
della donna che suggerisce “sottovoce” all’uomo, senza dileggio alcuno, di
“vedere un professionista”; non scartando l’ipotesi che “quelle storie”, ossia le vite degli altri immaginate da
Cornelio potrebbero avere una dignità editoriale? C’è in effetti poesia, in
queste pagine di Claudio Fiorentini, la poesia della vita che avvicina gli
umani “confusi e legati a migliaia di mondi diversi”, per dirla con le parole
di una famosa canzone di Francesco Guccini risalente ai primi anni Ottanta, ossia
Bologna; sì, perché il nostro
Cornelio Pesto, eroe negativo per eccellenza, avverte che “era una delle
rarissime volte che a lui capitava di parlare con qualcuno che fosse
fisicamente presente, e scoprì che gli piaceva farlo”. Ad un certo punto l’uomo
afferma: “Comunque non quadra”: quanto basta per provocare la reazione
esasperata della donna; la quale, avendolo sentito pure parlare di specchi (non
essendo a sua volta immune da manie) e trovandosi soprattutto di fronte alla
lentezza imperdonabile del suo interlocutore nell’accantonare sogni e
immaginazioni, eccola esclamare con foga; “Ma qui non quadra niente, niente,
capisci?”. “Se qualcuno l’avesse vista in quel momento, l’avrebbe amata e
temuta. Una donna che si espone è l’enigma più meraviglioso che a noi uomini
può capitare in sorte di risolvere”; osserva il narratore con lucida
partecipazione. Ma Cornelio,
inventandosi una pacatezza a lui sconosciuta, mette a parte Galatea dei suoi
dubbi più che fondati circa la sorte dell’architetto, sicuramente rapito in
quanto temuto dai potenti della città. Galatea rimane “quasi affascinata”
dall’eloquio disordinato ma non insensato dell’uomo “trasformato in giallista
di successo”; e qui bisognerebbe dire della tenerezza di Fiorentini
nell’osservare con sagace discrezione le sue romanzesche creature all’atto di
convergere al centro di quel quid (di
alto potere nutritivo per le sorti del romanzo) che così potremmo qualificare:
la ragione solidale, scaturita dalla
crescente complicità discorsiva di Galatea Malaspina con Cornelio Pesto, nelle
pagine oggetto della nostra riflessione. Ragione
solidale e dialogica sostrato delle grandi narrazioni d’ogni tempo; ciò che
assicura credibilità, nella fattispecie, alla carica utopica (cui abbiamo già
fatto cenno) vibrante nel romanzo Captaloona.
“ E andar via no? Lui non rispose, lei ci pensò su, poi capì che fuggire sarebbe
stato un atto di vigliaccheria, una rinuncia prematura, proprio quando la vita
stava per prendere strade impensabili. Ah, la mania di essere protagonisti, il
sapore dell’avventura che ora stavano pregustando, quello ha un valore
inestimabile, meglio rimanere. Sì, d’accordo, una donna indifesa e un maniaco
complessato non sono certo la combinazione migliore per un romanzo epico, ma,
nonostante le loro limitate forze, almeno potevano provarci. E poi se
l’architetto era in pericolo, avrebbero potuto tentare di tirarlo fuori dai
guai. Sì, sarebbero rimasti. Non lo disse”. Ancora un indugio, più tattico che
strategico da parte di Galatea, ed ecco finalmente Cornelio “vinto dal
coraggio”, chiedere alla donna: “Vuoi
tornare al tuo lavoro…immergendoti…nelle solite abitudini…oppure vuoi
divertirti a combinare qualche pasticcio a Captaloona insieme a me?”. I due,
ormai affratellati dall’afflato che Erich Fromm chiama filìa nel suo celebre saggio L’arte
di amare (laddove la intende quale premessa di un eros durevole, vale a
dire l’amore costruttivo) i due, dicevamo, rimangono pertanto nella città
abitata da santi eremiti e loschi trafficanti; cercando per prima cosa di
calmare lo stomaco brontolante con il menù “Ali del sud”; così come leggiamo in
conclusione del capitolo del libro. Un capitolo al cui interno -lo affermiamo
convinti- noi cogliamo l’umanistico spessore del sognatore Claudio Fiorentini ; al quale la leggerezza dello stile “serve” per concretare la sua aspirazione a
quella città ideale -la vediamo nella
copertina del libro- fatta di luce, di azzurro, e di musica; e contrapposta
all’altra resa oscura dalle polveri sottili del malaffare consacrato al vizio e
al denaro. Sicché, in sintesi, alla lettura del capitolo in oggetto, ben al di
là dell’intreccio che si dipana, noi
avvertiamo una scossa narrativa dovuta all’intelligenza
del cuore di Claudio Fiorentini;
tale da elettrizzare i suoi personaggi -Galatea Malaspina e Cornelio
Pesto in primis- e di conseguenza noi
lettori, intimamente rallegrati dalla percezione di quel bene in apparenza oggi
disperso eppure radicato in profondità: il senso dell’umana solidarietà. Bene
prezioso da risultare -così efficacemente evocato dal narratore- il fondamento,
nel libro, di quella carica utopica fatta di creatività, buon senso, allegria
di mente; allo scopo di voltare le spalle a Pluto,
il dìo della ricchezza e dei centri commerciali che ottundono l’immaginazione
“primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto
più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli”; come osserva Leopardi nello Zibaldone in un passo del luglio 1820
(pagina autografa 168). Tornando al romanzo di Fiorentini è giusto, a questo
punto, parlare di messaggio segnatamente positivo di cui esso si fa carico; in
vista degli umani non più disintegrati sine
die nell’intimo e nelle relazioni sociali (a fronte di quei “guai seri” cui
fa cenno la già ricordata epigrafe del libro).
Naturalmente si compie qui un’ingiustizia nei confronti
di un romanzo come Captaloona, nel
tacere della sua diacronica complessità abilmente padroneggiata dall’autore al
quale dovremo addebitare -a voler cercare il pelo nell’uovo- solo una certa
lentezza, all’inizio, all’atto di far partire la macchina romanzesca (in
termini di tecnica narrativa, come una sorta di prevalenza del processo di produzione rispetto al prodotto finito).
Cosi dicendo, tuttavia, alludiamo davvero a trascurabili lacerti non integrati
nella carne viva di una narrazione al cui interno la bravura di Fiorentini
finisce poi per nascondersi del tutto, per far parlare direttamente i suoi
personaggi, “cattivi” e “buoni” (molti dei quali da noi deplorevolmente non
citati); personaggi a conti fatti vitalisticamente trasfigurati dal divenire; ossia da una vera e propria poetica della trasformazione alla base
del romanzo. Come non essere grati, in conclusione, a Claudio Fiorentini di
fronte a un libro come il suo Captaloona?
in tempi cupi come gli attuali, questo romanzo ci offre un sorriso ricco di
saggezza e di amore per la vita.
Andrea
Mariotti
Ottobre 2013
POESIE
Da "Incauta Magia del Mentre"
(Kairòs, 2012):
In questa scalza notte
Felpate idee sorvegliano
Qualora illudermi volessi
Che ancora esiste Dio
Quiete d’intanto si dilata
Mentre apostata palpito
Denso e buio
Mi trangugia
Ch’io mi perda e non travisi
Quanto ancor resta sconosciuto
A far di vita semina
Perenne.
Insudiciarmi di vita
In queste borgate
In queste strade rumorose
In questi cumuli di terra e foglie secche che
tappano i tombini
Da lì con un prodigio risalire
E muovere la vita con le mie gambe fino ad
esserne vittima
Fino a fondermi in lei come io solo posso farlo
E nascere nuovo al mondo
Morendo all’apparenza
Per non cedere uno solo dei miei attimi
All’attesa.
Felpate idee sorvegliano
Qualora illudermi volessi
Che ancora esiste Dio
Quiete d’intanto si dilata
Mentre apostata palpito
Denso e buio
Mi trangugia
Ch’io mi perda e non travisi
Quanto ancor resta sconosciuto
A far di vita semina
Perenne.
Insudiciarmi di vita
In queste borgate
In queste strade rumorose
In questi cumuli di terra e foglie secche che
tappano i tombini
Da lì con un prodigio risalire
E muovere la vita con le mie gambe fino ad
esserne vittima
Fino a fondermi in lei come io solo posso farlo
E nascere nuovo al mondo
Morendo all’apparenza
Per non cedere uno solo dei miei attimi
All’attesa.
Dal Blog di Antonio Spagnuolo
Quando la luce finirà
noi non saremo ciechi all’abbaglio
di quel terrore
e solo potremo credere
allora come non mai in quel laccio di fede
nascosta e limpida
come da notti e giorni
e tempi andati
e vibratili fibre che ci impediscono
ora come sempre
di volare
Quando la luce finirà
e d’improvviso un altro degrado
sarà lì a convincerci che la follia
forse non era tale
e che il tempo non è bastato a farci capire
che matti si è savi e savi si è stolti
così come ci vediamo oggi
e forse non immaginiamo una possibile fine
ci ritroveremo allora
per un solo attimo
eterno, vero, solido
... a pentirci
noi non saremo ciechi all’abbaglio
di quel terrore
e solo potremo credere
allora come non mai in quel laccio di fede
nascosta e limpida
come da notti e giorni
e tempi andati
e vibratili fibre che ci impediscono
ora come sempre
di volare
Quando la luce finirà
e d’improvviso un altro degrado
sarà lì a convincerci che la follia
forse non era tale
e che il tempo non è bastato a farci capire
che matti si è savi e savi si è stolti
così come ci vediamo oggi
e forse non immaginiamo una possibile fine
ci ritroveremo allora
per un solo attimo
eterno, vero, solido
... a pentirci
Profilo dell’autore
Sono nato nel 1959, quando neanche le macchine da
scrivere facevano parte del corredo di una casa. Roma, a quei tempi, era
ignorante e incontaminata, ora è solo ignorante, ma pur sempre meravigliosa. Ho
viaggiato tanto per lavoro e per mie vicissitudini, ho messo piede in più di
quaranta paesi, patrie, terre, universi… ed ho vissuto in Messico, Francia e
Marocco. Ovviamente, tutto questo mi ha segnato, e sebbene abbia cominciato a
scrivere nella lingua che ho studiato, lo spagnolo, l’italiano è la mia lingua.
Ho cominciato a scrivere quando ho scoperto la musica, la chitarra, il mondo e
le donne… se parliamo solo di scrittura, ho cominciato con la poesia, come
quasi ogni adolescente, solo che da grande non l’ho tradita, e l’ho esplorata
nel suo essere sperimentale… da lì il mio primo libro, pubblicato a trentatré
anni, che contiene trentatré liriche sperimentali, il titolo? “Da comunque
Uomo”. Ma non mi bastava la poesia, volevo altro, volavo alto, e allora ho
cominciato con i racconti, poi con i romanzi. Ne ho pubblicati sei: “Ovvero, la
porte del Mare” nel 2002, “Io parlo Jazz” nel 2004, “Il faro di Bighlise” nel
2007, “La stella e la sua luce” nel 2008, “Il misterioso caso di via Delia da
Gilal-Gulta” nel 2011 e “Captaloona” nel 2013. Nel 2012 ho anche pubblicato una
seconda raccolta di poesie, “Incauta magia del mentre”. Di premi (minori) un
po’ ne ho vinti, e me ne vanto, dato che il mio unico vero sponsor è la mia
volontà. Del resto, uno scrittore dopolavorista come me, prima di spiccare il
volo deve percorrere tanta di quella strada che c’è da diventar matti.
Per pubblicare, come tanti altri autori validi e non, ho
usato il mio ego, e con esso approvato spese immani che mi hanno fatto
accettare offerte di editori a pagamento. Ebbene, sono passato per le forche
caudine dell’APS (A Proprie Spese), ma poi ne ho avuto fin sopra i capelli (e
di capelli ne ho ancora molti, nonostante l’età), e mi sono rivolto ad un
agente, che mi ha insegnato molto. Ma poi, ahimè, si rimane sempre nel gran
calderone, e nonostante l’esperienza e la qualità, il successo di vendite è
minimo. Per questo mi sono messo anche a fare il pittore, esponendo i miei
lavori in Italia e all’estero, con la speranza di riscuotere maggiori successi
che sono sempre lontani da quello che raccontano le cronache fantastiche dello
showbiz. I miei libri nascono da un appunto, da un’idea, da un sogno. Spesso i
sogni li trascrivo, poi li faccio crescere. Comunque un appunto di dieci linee
non è certo un romanzo di sessantamila parole, sebbene quest’ultimo venga da
lì. Comunque, per un romanzo mi occorrono circa due anni di lavoro, approfitto
dei miei frequenti viaggi, e scrivo, riscrivo, correggo… diciamo che la parte
più importante, dopo aver covato personaggi ed eventi per mesi e mesi, è la
sedimentazione, poi la rilavorazione, che richiede modifiche di dettaglio
minuziose e riletture periodiche. Insomma, il lavoro è tanto. E poi, ci vuole
comunque un bel coraggio… ecco quello che ci vuole. C’è chi esce con gli amici,
chi va a ballare, a bere una aperitivo, a passeggiare, e c’è chi invece gli
amici li descrive. L’invenzione è il mio mestiere. Mi capita di preferire di
starmene di fronte al computer piuttosto che andare a ballare. Noioso, no? Ma a
me piace. Per essere più precisi, sono uno splendido cinquantenne che adora le
sue figlie, piccole, perché mi sono sposato grandicello. Dimostro meno anni, ma
questo non è un bene, perché fatico a sopportare che certi giovanotti mi diano
del tu. Mi piace la musica, sono un collezionista di vinili ed un ascoltone incallito.
Non sopporto le canzonette, trovo che la musica pop sia tutta déjà vu. Adoro la
classica, il jazz, il tango… quando vivevo in Messico mi sono fatto flebo di
blues e peperoncino. Mi piace leggere i russi, non mi piacciono i gialli, non
sopporto alcuni blasonati autori che vincono premi prestigiosi. Mi piace il
cinema, Fellini, Scola, Mikalkov, Kieslowsky, Chaplin… non sopporto gli splat e
i bumbumbum… odio gli effetti speciali e le esplosioni che durano venti minuti,
con grida e panico che si diffondono tra il pubblico, e angoscia a fiumi che ti
porti a casa, e chiudi a tre mandate per paura che qualche mostro
intergalattico ti spii mentre ti lavi i denti. Insomma, mi reputo un
rompiscatole volubile di grande raffinatezza.
Se avessi un motto, forse non lo direi per timore a
dovermi ricredere… tuttavia, tento di riassumere la mia vita pensando che ogni
giorno può essere l’ultimo, ma dato che forse oggi non è ancora l’ultimo,
diciamo che oggi è il primo di quello che resta. E chissenefrega se resta un giorno,
o se ne restano centomila. Intanto mi do da fare, poi si vedrà! Ora veniamo
alla mia opera omnia. Perché comprare i miei libri? Diciamo che si comprano per
leggere. Con la lettura si deve esperire un brivido, un dubbio, un rimpianto…
qualcosa di profondo. Ma ciò che caratterizza i miei ultimi libri è un tocco di
elegante ironia. A leggere i miei libri, ci si diverte e si ride, senza cadere
nel tranello dell’intrattenimento, perché non sono banali.
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