volò alto,
alto volò toccando cime immense,
azzardi che gli umani
cercano con l’anima e la mente;
ma ci si può bruciare
se il volo è troppo arduo,
si annullano in abissi senza fine
le nostre identità;
sperderci oltre la siepe,
o in cieli fra le stelle
è un naufragio per la nostra essenza.
E tu Icaro
privo di remeggi, a braccia nude,
senza appigli,
brancolasti in vertigini d’azzurro
quando l’astro di vita e di morte
ti rammollì la cera.
Cadevi impaurito,
risucchiato:
“padre, tu che mi hai dato il volo,
aiuta questo figlio, dagli l’ali,
che il cielo non mi regge
ed io sprofondo incauto negli abissi.
Padre, io sono qui,
corrimi incontro, arresta il mio naufragio,
tu puoi, con il tuo amore
e il tuo superbo ingegno”.
“Icaro, Icaro dove sei?
dove giace mio figlio eterni dèi?
Ditemi alfine! Ch’io sappia almeno
ove cercare; carne della mia,
figlio imprudente, dove il volo tuo
lontano dai miei occhi. Cosa fare?
che cosa potrà fare questo padre?”
Ma d’Icaro la bocca
fu chiusa dalle onde di quei pelaghi.
E quando il genitore
scorse le vane piume
sparse sull’acque a sfiorare gli scogli,
non poté che ergere un sepolcro
in terra d’Icaria.
Maledì la sua arte ed il destino,
gli azzardi degli umani, le imprese folli,
la violenza del cielo, il regno del sole,
maledì quella natura umana,
il suo continuo ardire e discoprire,
il suo coraggio eterno di sfidare
il mare nero, lo scoglio e le sirene,
quella pazzia di un fuoco che ci fa
scintilla degli dèi, impronta del divino,
bocci di libertà.
Era simile il cielo a quei mattini
in cui andavamo ad erpicare
il profumo di terra. Era mio padre.
Mi prese per la mano trepidante
e mi portò
a mirare i suoi spazi. Io non sapevo,
nella nuova coscienza, ch’era morto.
Mi apparve certamente perché stessi
sereno. Stava insieme – in un salone
immenso e somigliante vagamente
a quelli riportati negli affreschi
dei rinascenti artisti pontifici -
con persone serafiche. Una peluria
gli fluitava cadente ed abbondante
sugli omeri. Brillavano i suoi occhi
di un’altra dimensione. Stranamente
il soffitto sforava aperto un cielo
di luce biancicante: “Vorrei tanto
rivedere con gli occhi di un terreno
i nostri monti simili a puledri
rincorrersi tra i lecci ed i castagni
rutilanti ai tramonti. Vorrei tanto
trascorrere con te un tempo, pur breve,
per le cose del giorno e anche di più
vegliare una nottata tra i sentori
d’erbale umore estivo. Per esempio
nel campo dei covoni.” “Che ti prende?
Perché non puoi? Domattina farò
ch’io possa liberarmi dagli impegni
e andremo insieme,
tutto un giorno sul Serchio e poi sul piano
dei fulvi girasoli. Anch’io lo sento
questo bisogno in anima di vivere
di nuovo sprazzi e guazzi giovanili”.
“Guarda, figliolo, ch’io ti sono in sogno.
Quello che vivi è fumo ed io son qui
vicino solamente con lo spirito,
non col corpo. Son morto. Ti ricordi
quella brutta giornata di febbraio?
Io spiravo e tenevo la tua mano
nella mia tremolante. Dentro il cavo
ho sempre il tuo calore.” “Come faccio
a sapere che è tale?” “Puoi provare!”
“L’unico mezzo è quello di destarmi
per saperlo. Perché dovrei distruggere
l’occasione di un sogno veritiero.
Di un sogno che è realtà più di un reale
che non arriva a tanto. Che momento!
O sogno o realtà che importa, padre,
io ti rivedo, bello, fra quei marmi
così lucidi, vasti senza dubbio
ben di più degli scrimoli a cui noi
eravamo abituati. Con gli amici
a dissertare sui concetti astrusi
dei misteri del cielo e della terra.
Così importante mai ti vidi padre.
Che piacere.” “Figliolo tu hai ragione.
E’ rara l’occasione che in un sogno
si sappia di sognare e che per questo
si viva ben più a fondo un segmento
coscienti di un prosieguo del reale.
Sogniamo! E tutto sarà vero: tu
mi parli ed io ti corrispondo. Manca
una magia estrema. È in mio potere.
Ricostruirò quel tempo del passato,
e forse il più felice,
di quando dodicenne tu passavi
(tornando di città schivo e scorbutico)
all’ora di mangiare dalla vigna.”
“Rivedo tutto! Che magia! Sono
laggiù sotto il mio pioppo a rovistare
nella borsa del pranzo. Ecco ti chiamo.
Tu accorri trepidante poi mi abbracci.
Tre cose sulla scuola. E la tovaglia
sui crini di gramigna. Che bel pane!
Tu stacchi i pomodori e li zuppiamo
in picchiata nel sale.” “Vedi bene
come si mischia a volte col reale
l’immaginario.” “Si! Però per me
questo momento dice che tu esisti.
In quanto alla tua morte non ricordo;
perché dovrei svegliarmi?
Continuiamo a vivere così.
Nella magia di un sogno. Per domani,
quando torno da scuola, nella borsa
voglio trovare – diglielo a mia madre -
il pane fritto. Sai quanto mi piace!”.
cala puntuale la sera sul mare
ad immolare il giorno alle memorie;
e quante primavere sono scorse,
quanto affollata
l’alcòva dei ricordi;
forse impigliati in risvolti d’azzurro
abbiamo ceduto
al correre dell’ombre;
al correre di autunni indifferenti
alle fulgide carezze delle foglie.
arriverà presto sul mare maligna
la notte più fonda dell’ultimo autunno
e non feconderà con i suoi resti
gli assenti abbrivi della primavera.
di un verde pensiero smarrito
in gorghi di vita, a riaffiorare,
per far da stella a questo naufragio
nel mare nero del nostro eterno esilio.
tutto: la commozione, il sogno, il rammarico di non poter più colloquiare
col padre, ma anche la commozione di percepirlo soltanto con i sensi
metafisici. Una grande apertura verso il mondo dei defunti che permea
di grandezza e di orgoglio il sereno rinnovellare, come se l’anima fosse
ancora lì, presente dentro la bianca materia dell’immortalità che rivitalizza
il ricordo dentro un dualismo che sempre consente un prezioso
afflato materico e insieme spirituale. Quella di Nazario Pardini non è
attesa disperante di illusioni, e certezza che dentro di noi nasce, vive; e
si rinnova la speranza di un equilibrio ontologico che non ci annulla del
tutto, ma ci fa partecipi di un piano superiore che solo la fede può sfiorare…
Il mistero persiste, ma vi è dentro questi versi l’apertura al trascendente
che si fa “altra” forma di vita, pietas, speranza, complessa
eppur portentosa materia dell’essere (si fa per dire), ma di un essere
tendenzialmente vòlto verso l’alto, verso un sogno immortale di vita oltre
noi… Nazario Pardini in questo testo esemplare ci insegna a guardare
oltre la barriera della materica nullificazione verso un eterno destino
che rappresenti per noi, e al di là di noi, lo scenario aurorale di un credo
superiore, sempre in crescendo che ci salva.
.
“Il volo di Icaro” di Nazario Pardini”
(…)
“E tu Icaro
privo di remeggi, a braccia nude,
senza appigli,
brancolasti in vertigini d’azzurro
quando l’astro di vita e di morte
ti rammollì la cera.” (…)
*
Publius Ovidius Naso
“Metemorphoseon libri”, VIII, 183 sgg.
(…)
“captabat plumas, flavam modo pollice ceram /
mollibat…” (Dedalo crea le ali per il figlio raccogliendo penne e rammollendo la bionda cera con il pollice)
(…)
.cum puer audaci coepit gaudere volatu /
deseruitque ducem caelique cupidine tractus /
altius egit iter. rapidi vicinia solis /
mollit odoratas, pennarum vincula, ceras;”
(il volo troppo ardito di Icaro causa la sua morte, perché la vicinanza del sole rammollìsce e scioglie la cera che teneva unite le penne …)
*
La fedeltà ai Classici di Nazario Pardini, in questo caso specifico al poeta Publio Ovidio Nasone, cantore dell’affascinante mito di Dedalo e Icaro, fa sì che ricorra nella sua composizione “Il volo di Icaro” non solo la tragica vicenda in sé, ma persino la stessa terminologia ovidiana nel descrivere i gesti dei personaggi.
Par di vedere il padre Dedalo che dispone le penne l’una accanto all’altra e, rammollendo la cera con il pollice, le incolla in scala come quelle degli uccelli (ceram mollibat) e più tardi il figlio Icaro che, ebbro d’altezza e dimentico degli insegnamenti del padre, vola troppo vicino al sole, il cui calore rammollisce le cere profumate che tenevano unite le penne (mollit odoratas ceras).
Il solo verbo “mollio” (mollibat, mollit), pur significando letteralmente “rammollire, rendere duttile, morbido, molle”, qui esprime la creazione di un mezzo di fuga dal Labirinto e la distruzione di questo stesso mezzo: la libertà e la morte.
Si stabilisce nella rievocazione, nel ricordo un circolo di relazione e comunicazione che è di identificazione. Ricordo intenso, natura trepidante, terra e cielo, incontro e lavoro, pudore, emozione e quotidianità … : vegliare una nottata tra i sentori d’erbale umore estivo,… sul piano dei fulvi girasoli… realtà più di un reale che non arriva a tanto… E la tovaglia sui crini di gramigna. Che bel pane! Tu stacchi i pomodori e li zuppiamo in picchiata nel sale…
Ai bordi del sogno più avvincente: dove la realtà è più vera. La voce più dolce e profonda.
… Vienmi vicino, parlami, tenerezza,/ – dico voltandomi a una/ vita fino a ieri a me prossima/ oggi così lontana – scaccia
da me questo spino molesto,/ la memoria:/ non si sfama mai…/ Non dubitare – m’investe della sua forza il mare -/
parleranno…(V. Sereni)
scorse le vane piume
sparse sull’acque a sfiorare gli scogli,
non poté che ergere un sepolcro
in terra d’Icaria.
Maledì la sua arte ed il destino,
gli azzardi degli umani, le imprese folli,
la violenza del cielo, il regno del sole,
maledì quella natura umana,
il suo continuo ardire e discoprire,
il suo coraggio eterno di sfidare
il mare nero, lo scoglio e le sirene,
quella pazzia di un fuoco che ci fa
scintilla degli dèi, impronta del divino,
bocci di libertà.
Grazie Pardini
ci hai donato un capolavoro
Pf. Angelo Bozzi.
Poesia appassionata quella di Pardini, che spicca il volo verso le mete sempre più alte sempre più mature di una poesia che non può tradire il presente il passato e il futuro. Nei passaggi della parola di queste poesie vi è forma e sostanza. Vi è tutto e ben condensato. Vi è anche la retorica, ma non nell’accezione negativa a cui ci ha abituato la modernità. Magari anche oggi, oggi più che mai, fosse presente un pizzico di retorica nella poesia! La retorica è il sale della poesia, altro che. Nella poesia di Pardini, vi è l’epica con la sua narrazione pacata e sublime. Vi è l’idillio. Vi è l’elegia. Vi troviamo l’epicedio. Ma soprattutto c’è tanta lirica. Il canto è elevato al di sopra di una ipostatizzazione di vita di vissuti di arte e anche, mi sia concesso, di letteratura. Perché sì, contrariamente a quanto si afferma oggi, il passato poetico, la tradizione, non può essere dimenticata e in qualche modo il classico deve restare nella contemporaneità. Pardini dimostra quando scrive di conoscere l’arte. I richiami a Pascoli, Carducci, Montale e soprattutto all’amato D’Annunzio sono evidenti. Ma non perché si possa parlare di un epigonismo. Assolutamente. Pardini attualizza il canone classico e lo rivitalizza attualizzandolo magistralmente nella sua poetica, che sembrerebbe andare controcorrente nella misura in cui oltre al recupero della tradizione sostanziale, punta al recupero di una tradizione formale alla ricerca del canto.
Oggi tanta poesia è volutamente impoetica, alla ricerca di forme anti-liriche e giocate in una dimensione materialista e sempre più naturalizzata. Non per criticare questo approccio, comunque lecito e praticato talora anche da chi scrive. Anche perché l’esercizio del naturalismo in poesia è importante, nella misura in cui riporta in auge il corpo. Ma il corpo non può essere visto, fenomeno logicamente parlando, solo come Körper, ma va assunto come Leib, nel senso che le persone non hanno un corpo, inteso come oggetto, ma sono un corpo. Noi non abbiamo, pertanto, un corpo, siamo corpo. Necessario dunque assurgere dal corpo, da cui pur bisogna partire, alla corporeità. E la poesia, come ho detto più volte in altre sedi, volendo mirare ad una ricerca in chiave esistenziale della verità, della bontà e vieppiù della bellezza non può non mirare alla ricerca delle fonti della persona intesa come unitotalità somato-psichica-spirituale, lì dove lo spirito che riporta all’essere in chiave ontologica e metafisica ha una somma importanza. Pardini, ritengo, non teme questa scommessa ed è per questo che la sua poesia non ha paura di percorrere le strade dell’essere nel suo senso più pieno e pertanto del sentimento, come quando si distende nel canto nostalgico della terza poesia rivolgendosi alla propria donna nell’orizzonte di Amore. Di quell’amore, che insieme a cuore, sembrerebbero dover essere banditi come sacrilegio dalla poesia di oggi. Non so se sbaglio, ma la poesia ha bisogno di ritornare al canto, ai sentimenti, alla vita intesa come Erlebnis. Abbiamo bisogno oggi più che mai che nella poesia dopo la desoggettivizzazione dalla modernità in poi, a partire da Baudelaire, si recuperi non solo l’individualità della lirica e del bel canto, ma vi si faccia sentire in modo forte quello che è e significa persona.
Nazario Pardini, mi sia concesso, lo situerei proprio in questa dimensione, che recupero dalla dimensione personalista intesa nei termini filosofici dell’esistenzialismo personalista à la Marcel à la Mounier à la Ricoeur, che auspico possa un domani essere definita “poesia personalista”. E di questa corrente, se così si può chiamare, nella quale in qualche modo mi piacerebbe essere pure collocato, Pardini è un indiscutibile maestro.
Come potrei non amare con tutta la mia passione la poesia di Nazario quando rileggo le parole che egli ha dedicato a una mia raccolta che lo scorso anno ha vinto al Portone.
Io ritorno a lui, con lo stesso entusiasmo e con la stessa energia le parole che ha voluto scrivere per me perché sono le stesse che io avrei voluto davvero scrivere per lui. E devo dire che se le sue parole hanno peccato di eccessiva generosità, quelle che io rivolgo a lui peccano di pochezza per il suo valore ineguagliabile.
Nella poesia di Nazario trovo e riconosco i temi e i modi della vera grande poesia. Non dirò altro sulla perfezione del suo endecasillabo e degli altri versi, una perfezione senza sbavature che conferisce alla sua parola poetica le cadenze e i ritmi di una cantabilità perfetta.
Non dirò altro perché non possa filtrare sottilmente l’idea che sia la forma il merito principale di questa scrittura. Non spenderei una parola di più per una poesia che sia semplicemente un esercizio di competenza tecnica, spendo invece l’anima davanti a un testo in cui la perfezione formale è solo la bella veste indiscutibile di un pensiero poetico “alto e sublime”:
Il “sublime”, la chimera inseguita da tutti i poeti abita da sempre la poesia di Nazario e la abita in maniera leggera ed elegante, senza peso apparente.
Ognuno dei poemi che ora ho letto si muove nella magia dell’incontro tra perfezione e ispirazione. Una perfezione cosi penetrante da sembrare spontaneità assoluta più che lavorio accurato e preciso e un’ispirazione sempre “d’alta quota”!
Nella poesia “A colloquio col padre” mi intenerisce, qualche volta capita con la grande poesia, questa frase poetica:
“E’ rara l’occasione che in un sogno
si sappia di sognare e che per questo
si viva ben più a fondo un segmento
coscienti di un prosieguo del reale.
Sogniamo! E tutto sarà vero: tu
mi parli ed io ti corrispondo.”
Grazie Nazario per l’emozione che mi hai regalato. Un abbraccio
Grazie
leopoldo attolico -
Ma questa è solo un’impressione personale di cui Nazario Pardini conosce la causa. Spero che non me ne vorrà.
Giorgina Busca Gernetti
Ed ecco affacciarsi, dal ricco apparato fonoprosodico, termini quali meriggio, remeggi, pelago o versi del tipo” brancolasti in vertigini d’azzurro/ quando l’astro di vita e di morte/ ti rammollí la cera”, ove peraltro troneggia il termine “molle”, tanto caro ad Orazio.
Con un linguaggio adeguato Pardini crea dunque un collegamento con la materia trattata, mitologia e poemi classici come Iliade e Odissea, proponendo tuttavia temi universali di grande attualità.In quest’ottica va intesa la poesia dedicata al padre, legame essenziale,affetto eterno, mai scontato e sempre in grado di coinvolgere lettori di qualunque generazione.
E la terza lirica del Professor Pardini funge da sigillo. E’ cantico d’amore per la sposa, per la compagna del lungo viaggio tra ‘le primavere e gli autunni’… L’inverno è in agguato, ma la chiusa salvifica annulla il timore del suo arrivo. “Il raggio di un pensiero farà da stella all’eterno esilio”: ed esiliare è naufragare in altra storia… è metamorfosi dell’amore…
Stordita da versi così intensi mi sento inadeguata a commentare.
Proprio per questo Icaro/Pardini accetta il rischio e, in cerca di libertà e di luce, verticalizza il volo, ben consapevole che l’Assoluto, e quella stessa “violenza del cielo”, potrebbero bruciare le sue ali e ridurre in cenere la sua scommessa. In fondo, l’evasione di Icaro (e del padre Dedalo) dal Labirinto, altro non è, per analogia, che l’evasione del Poeta dall’indecifrabile e inquietante enigma esistenziale. E Nazario Pardini tenta l’azzardo, ben consapevole del “naufragio” cui rischia di andare incontro; ma lo fa con la levità e il nitore di una “narrazione” sospesa tra l’elegia e la grazia, il desiderio e il sogno, in una rivisitazione trasfigurata, oltre che del mito, dei Lari e di Ovidio, anche di Kant, di Leopardi, di Blaise Pascal.
Un buonissimo viatico, questo, per il nuovo anno.
Grazie, Nazario.
Io non sapevo,/ nella nuova coscienza, ch’era morto”: e contenuta in
questo lacerto – a mio modo di vedere – la chiave di lettura di una lirica
(un colloquio) che travalica l’onirico per approdare ad una dimensione
inedita ma esistente, concretamente esistente.
Ma perche “distruggere”, perdere un’occasione unica e, forse, irripetibile
come questa, destarsi per sapere? Sapere cosa, e per quale ragione
poi? Qui non c’e posto per il raziocinio, ce n’e – infinito – per la poesia,
per la vita e il suo mistero: “Sogniamo – allora – E tutto sarà vero…”.
Queste parole paterne non provengono dal genitore del poeta: sono la
voce di un tempo immortale che continua a vivere dentro di lui (“questo
momento – e soltanto questo momento – dice che tu esisti”).
Cosa fa, dunque, Nazario? Rifiuta di svegliarsi, edifica anziché abbattere
il muro: un muro che, invece di dividere, permette di salire più in alto
possibile, lassù dove la vista è più ampia e accoglie nel suo abbraccio i
ricordi tuffandoli, come quei pomodori appena colti, “in picchiata nel
sale”. E tutto acquista sapore, e si dimentica la morte, e si aspetta una
fetta di “pane fritto” per il domani.
Sandro Angelucci
Nazario Pardini si sia voluto cullare in una dolce speranza, in un sogno
assurdo e meraviglioso, ben sapendo che trattasi di zuccherosa illusione.
Io certamente non so che cosa sia passato nella testa dell’esimio poeta e
professore, ma non posso fare a meno di adirarmi di fronte al pregiudizio
di chi esclude a priori il mistero e comodamente pensa di poter ritagliare
una mattonella nell’immenso mosaico, sostenendo che quella, e
non altra, e la vita reale. E invece non c’e nulla di più sfuggente del reale,
legato con fili invisibili, ma robustissimi, al Tutto che noi non conosciamo.
Non lo conosciamo, certamente, ma, santo dio, in esso e di esso
viviamo! E una questione di equilibrio, a parer mio. E l’equilibrio è
sempre bilanciamento di pesi contrastanti. Un conto e il dualismo conflittuale
e schizofrenico, un altro la dualità fonte di armonia. Se c’è il nero,
c’è il bianco; se c’è il giorno, c’è la notte; se c’è l’inverno, c’è l’estate,
e via dicendo. Se c’è la materia, c’è lo spirito; se c’è la vita mortale, c’è la
vita immortale. E anche una questione di logica, in definitiva, e non soltanto
di fede. Sempre che la logica stia nel principio di contraddizione,
come sopra specificato, anziché in quello di non-contraddizione, che
vorrebbe catturare la complessità del vivente entro risibili formule unilaterali.
Ma e soprattutto, indubbiamente, questione di fede. Non fede
nella Befana, bensì nell’equilibrio, nella serenità, come dice Pardini a
proposito del babbo: “Mi apparve certamente perché stessi/ sereno”.
Ovviamente si è liberi di credere o non credere nell’equilibrio, ma se
non si crede si deve onestamente ammettere di essere degli squilibrati
Franco Campegiani
Sandra Evangelisti
-Padre, aiutami!,- linvocazione più semplice, quotidiana, più umana, più filiale: il racconto affettivo, che da sempre si rinnova. È la Poesia che scende dalla altezze inebrianti della lirica e diventa invocazione daiuto, preghiera, sa calarsi umanamente negli affetti più quotidiani, conosciuti, più cari, con unumanità ricca e preziosa che aderisce alla vita con misura, equilibrio e serenità emozionante.
Ma dIcaro la bocca/
fu chiusa dalle onde di quei pelaghi.
L’azzardo giovane e gioioso si fa tragedia. E il padre impotente maledice:
quella natura umana,/ il suo continuo ardire e discoprire,
il suo coraggio eterno di sfidare/ il mare nero, lo scoglio e le sirene,
quella pazzia di un fuoco che ci fa/ scintilla degli dèi
La comunione filiale e paterna Dedalo ed Icaro- di rinnova nonostante il fluidificarsi annichilente delle ali di cera, così come lincontro sognato padre e figlio, nel ricordo intenso, trepidante, tra terra e cielo, lavoro ed incontro festoso, emozione e quotidianità del colloquio sognato- col padre naturale :una comunione cercata nel pudore, nel vegliare una nottata tra i sentori d’erbale umore estivo, sul piano dei fulvi girasoli :
Vorrei tanto/ rivedere con gli occhi di un terreno
i nostri monti simili a puledri/ rincorrersi tra i lecci ed i castagni
rutilanti ai tramonti. Vorrei tanto/ trascorrere con te un tempo, pur breve,
per le cose del giorno
Nostalgia che fa vibrare il cuore di commozione, contenuta, virile.
Presenze e assenze come in un inquietante enigma esistenziale nella memoria che si sfalda.
Reale più del un reale quotidiano che non arriva a tanta potenza.
Sogniamo! E tutto sarà vero: tu mi parli ed io ti corrispondo, sentimento, che si distende nel canto nostalgico, con serenità e misura.
quante primavere sono scorse,/ quanto affollata
l’alcòva dei ricordi;/ forse impigliati in risvolti d’azzurro
abbiamo ceduto/ al correre dellombre;/ alle fulgide carezze delle foglie.
e la nostalgia di un Amore diventa desiderio:
stella a questo naufragio/
nel mare nero del nostro eterno esilio.
Strette consonanze tra le tre liriche, un solo animo, una sola ispirazione, splendidamente monotona, come sapeva dire, da par suo, Cesare Pavese, della vera poesia.
Canto intenso, appassionato, luminoso ed elegiaco, perfetto orizzonte di Amore nell’alcova dei ricordi: Amata eterna Poesia