Paolo Bassani, collaboratore di Lèucade |
IL
RACCONTO
L'AUTOSTRADA
DELLA LUNA
Tratto da "Lunigiana
Dantesca" n. 123, novembre 2016.
Oreste Burroni |
Nel
mese tradizionalmente dedicato al culto dei Morti il CLSD vuole ricordare
Oreste Burroni, poeta raffinato, per anni direttore del Premio “Frate Ilaro del
Corvo”. Si ripropone la
Prefazione dedicata dal presidente del CLSD all’ultima
edizione del suo capo-lavoro: Il Cantico della Lunigiana.
L'INVENZIONE
DEL POEMA EPIGRAFICO
PER LA MAGGIOR GLORIA
DELLA
LUNIGIANA
STORICA
Nella
mia Prefazione alla I edizione del Cantico (2009) a cui si rimanda per
la proposta di una precisa collocazione dell'opera nella Storia della Letteratura
Lunigianese – non avevo mancato di sottolineare che avevamo a che fare con un
«poema in itinere», cioè con un’opera a cui l'Autore attenderà «finché gli sarà
dato». Questa seconda edizione dell’opera, che giunge a due soli anni di
distanza dalla prima, è di per sé una chiara dimostrazione di quel modesto
giudizio. Si trattava, in effetti, di una facile profezia: la materia affrontata
da Burroni è parsa subito tale, e tanta, da rendere addirittura naturale l'idea
di future implementazioni. Viene in mente un’opera, seppur estremamente diversa
nella sua natura, come Il poema del mare di Ettore Cozzani, la quale conobbe
almeno quattro edizioni e con l'ultima, addirittura, si ripudiavano le altre
precedenti. Non sappiamo se questo sarà anche il destino ultimo del Cantico,
ma sicuramente anche questa favola bella non è finita qui.
Nell’avere
dunque nuovamente l’onore di dedicare una nota al pensiero poetico di Oreste
Burroni, mi conviene fare, in attesa dei nuovi sviluppi, un punto esegetico
aggiornato su quelli finora raggiunti. Ebbene, rispetto alle prime
considerazioni di un biennio fa, viene fatto di pensare ad un nuovo canone
artistico, e precisamente a quello di un Poema moderno, tanto quest'opera
appare sganciata dalle strutture e dalle simmetrie rigide della tra-dizione
trascorsa. Un po' come in Musica, dove si è passati dall'unità formale della
migliore tradizione operistica (e intendiamo specificamente alludere all'immenso
teatro lirico wagneriano) alla recentissima avventura della cosiddetta Opera
moderna (da ben distinguersi dalla stessa operetta).
Si
tratta di un ordine d'idee dove qualcuno, piuttosto frettolosamente, potrebbe
essere portato a pensare all'ennesima stazione di un lento, inesorabile degrado
del livello artistico, ovvero ad un nuovo traguardo del supposto nichilismo
imperante; ma non è affatto così: il nichilismo in Musica è la dodecafonia, non
certo l'opera moderna, e in Poesia lo sarà, semmai, l'estremismo operato sulla
frammentazione del verso, il ricercato “non senso fa-scinoso” (così pregno –
per dirla con un Franco Battiato – di “carisma e sintomatico mistero”) o,
ancora, quell'incomunicabilità (e allora, direbbe Wittgenstein: ma che parlate
a fare?) di chi subisce il tempo piuttosto che cercare di crearne finalmente
uno nuovo; non certo un lavoro operoso e ammirevole come il Cantico,
dove continuamente sono celebrati i grandi valori tipici del neoplatonismo che
fu sempre caro al grande padre Dante e dove il mantenimento (o si dovrebbe dire
piuttosto: la riaffermazione?) dell'endecasillabo stacca in modo immediato
l'impegno poetico dalla massa dei tanti (troppi) facili verseggiatori della
nostra attualità.
Ma c'è
un altro elemento, su tutti, che ci rassicura, oggi ancor di più, sul valore
della fatica poetica in esame: è la quantità eccezionale dei frammenti.
Come la prosa magistrale di Oscar Wilde è ricchissima di aforismi, così
la generosa poesia del Cantico è strutturata in una miriade di «quadri
poetici». Nella prefazione precedente scrivevo, giusto a questo proposito, che
nel poema «sono decine le possibilità di estrarre […] preziosità brevi ed assolute.
Si tratta di vere e proprie epigrafi, già pronte per la maggior gloria di
luoghi e personaggi del nostro territorio». Di più: molti di questi monumenti
virtuali sono destinati «a rimanere comunque nella memoria collettiva locale».
Pur
tuttavia, qualcuno potrebbe sostenere che si tratti di un risultato imposto dal
medesimo genere letterario proposto. Da qui l’opportunità di muovere una
precisazione essenziale: possiamo forse definire altrettanto epigrafica la
celebre ode “itinerante” di Ceccardo Dalla torre di Mulazzo, da dove il
poeta spazia con lo sguardo e il Canto sull'intera Val di Magra? Certo che no.
Eppure il Ceccardo fu un epigrafista di gran razza. La verità, dunque, a cui
volevamo pervenire è che il Cantico rappresenta una produzione originale
e diversa. La verità è che anche con Oreste Burroni ci troviamo di fronte ad un
poeta autentico.
Onore
a Oreste Burroni!
Mirco MANUGUERRA
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