Luciano Domenighini, medico, scrittore, collaboratore di Lèucade |
Con gioia
ti comunico che proprio ora ho ricevuto la notizia di aver ottenuto il 2°
premio assoluto nella sez. "Critica letteraria" al concorso
"L'arte in versi" ( Ass. Euterpe, Jesi) con il commento al tuo "I
dintorni della solitudine". Le premiazione e' prevista a Jesi a meta'
novembre. Sono felice, non tanto per il riconoscimento in sè, ma perché
così posso dare un piccolo contributo alla conoscenza di un vero poeta quale
sei tu.
Un
abbraccio
Luciano
“I
DINTORNI DELLA SOLITUDINE” DI N. PARDINI: APPUNTI PER UN’ESEGESI
E’ tutto un mondo
di ricordi, passato ma rimasto vivo nel suo cuore, quello che Nazario Pardini
racconta, con sinestesica dovizia di dettagli, nella sua ultima opera
poetica, “I dintorni della solitudine”.
Le poesie di tutti
i poeti, anche dei più modesti, vanno lette con attenzione e senza urgenza, per
poterne intercettare e penetrare lo
spirito loro proprio, per coglierne il clima e l’atmosfera peculiari e
distintivi, per trovarne la chiave di lettura.
Questo approccio
“di maturazione e di rispetto” è tanto più raccomandabile quando si esaminano
quelle di un poeta di vaglia come Pardini e , in particolare, la sua
produzione più matura e consapevole dei propri mezzi tanto naturali che
acquisiti tramite una militanza letteraria feconda, protrattasi per un’intera
vita. Così è per questa raccolta poetica del 2018, edita a ottantun’anni di
età, che segna il punto forse più alto e consapevole del suo percorso
letterario.
L’opera è divisa
in tre parti: la prima consta di 39 liriche “della memoria”, dove l’idillio del
presente evoca e recupera sovvenimenti lontani e cari; la seconda,
simbolica, storica, è un “Dialogo”fra Leonida e la Storia in cui l’eroe
rappresenta l’individuo, come volontà, fama, mentre la storia personifica il
destino; la terza, infine, intitolata “Verso la luce” è un polimetro di 176
versi, ricapitolativo, intimistico,riflessivo e perorativo, sul senso della
propria vita trascorsa e presente e sui confini dell’esistenza, imminenti e
misteriosi.
In quest’opera
poetica, sosta meditativa negli anni della saggezza, il poeta toscano si lascia
cullare dalla musica aleggiante e riafforante di agevoli
endecasillabi, sovente ingemmati in franchi periodi prosastici occupanti
due o più versi, spesso da emistichio a emistichio, endecasillabi rotondi, suadenti
e leggeri, chiamati a dettare la cadenza dominante e a sostenere l’eloquio
poetico.
L’impianto metrico
pardiniano meriterebbe uno studio approfondito e un’analisi attenta.
Il suo
modello-guida è la canzone leopardiana, endecasillabi e settenari. Tuttavia in
liriche quasi sempre monostrofiche, lunghe solitamente dai venti ai quaranta
versi, all’endecasillabo e al settenario si alternano decasillabi singoli o a
gruppi brevi oppure dodecasillabi isolati ma, eccezionalmente, compaiono anche
altre misure. Perciò il suo metro abituale potrebbe definirsi “polimetro a
canzone leopardiana dominante”.
Vanno segnalati
altresì l’accostamento, o meglio, la compenetrazione di metro e prosa,
l’alternanza dei toni dell’eloquio poetico, dal conversante, al
colloquiale (anche in forma diretta), a passaggi letterariamente più ricercati
e rifiniti, la sicura invenzione metonimica e metaforica, le
corrispondenze fonetiche anche con un impiego, sebbene intermittente, sporadico
e incidentale, delle rime. Il suo linguaggio, pur non essendo ostentatamente
“totale”, appare come eclettico e compilativo, con l’evidente intenzione di
estenderne facoltà espressive. Poesia composita e articolata dunque, a ben
vedere complessa, ma (e qui emerge il magistero compositivo del
poeta) sempre coesa e fluida, schietta, comunicativa, governata da
un equilibrio e da una misura e, in definitiva da un gusto, che la tutelano da
scadimenti iperbolici e gratuite ridondanze. Il colore dominante è quello
elegiaco ma è un’elegia sommessa, colloquiale, contenuta, pacata, che sgorga da
sé medesima, spontaneamente, quasi suo malgrado, da una realistica lettura dei
ricordi.
Accanto a quello
narrativo evidente è poi il talento descrittivo, tanto d’insieme che di
particolare; notevolissimi, ad esempio, la pittura naturalistica,
sinestesico-dinamica, della “Piena del Serchio” o il breve asindeto,
sospeso, immerso nella luce, morandiano, che apre “Senza una meta” (“Quasi alla
fine il tempo che ci è dato: uno spicchio di mare, una canzone,/ un viale
d’autunno in un tramonto….”).
Per toni e per
temi e per la forte componente narrativo-descrittiva dell’esposto, il modello
di riferimento è Pascoli.
Pascoliana della
più bell’acqua, ad esempio, è “Voci di campane”, miniata pascolianamente nella
pertinenza della terminologia botanica dell’esordio (“Gli equiseti, il
vilucchio, la gramigna / affollano la piana/…), nei successivi primi piani di
dettagli d’ambiente e infine nella chiusa, elegiaca e cristiana (“…le voci di
campane/ che chiamano i credenti alla preghiera/per qualcuno che è andato oltre
la terra).
Valore aggiunto di
questa poesia anfibolica, tributaria in pari grado tanto all’armoniosa
musicalità del metro quanto alla diretta e gergale facondia della prosa, è
la confezione di alcuni virtuosismi metaforici di alta caratura, inediti e
suggestivi, oppure anche di talune singolari corrispondenze fonetiche (“O
Caprigliola immersa fra i capricci/ di ulivi centenari…..”).
Nei “Dintorni” il
sentimento del tempo ignora i confini convenzionali di passato
presente e futuro, la mente cosciente della giovinezza irrompe nel
presente e la percezione della realtà si arricchisce dei segni della
profezia, della visione, del sogno.
L’inventario dei
ricordi e degli affetti è residuale ma così è meglio, sembra dirci il poeta, perché
solo quello che conta è giusto che rimanga.
C’e’ un
distico di endecasillabi che chiude una lirica che parla del vigneto paterno
ormai scomparso (“Disatteso” pag. 53). E’ un momento di alta poesia, imprevisto
e indifeso, commovente e commosso, dove bene si vede come per il poeta gli
affetti siano il comune denominatore delle memorie, il loro senso, la forza
primaria che assimila e riconduce il tempo e gli accadimenti della vita alla
dimensione singola, costante, incorrotta, onnicomprensiva dell’affezione, dove
tutto, ma proprio tutto il vissuto, diviene un “unicum” transepocale, sempre
immanente. Anche il sogno, anche chi non è più: “Come farò a dirglielo al mio
babbo/ Se mi tornasse in sogno questa notte”
Nata dalla
solitudine e dalla desolazione che avvolgono la senilità, la poesia
equilibrata e sapiente dei “Dintorni”, esprime, con saggia mitezza, con
affettuosa, disincantata clemenza, una lucida, universale, assolvente
pacificazione, fiorita dalla coscienza e dalla conoscenza del mondo e delle
cose.
Nei “Dintorni”,
non c’è traccia di enfasi autocelebrativa o di orpelli consolatori, non si
rintracciano compiacimenti o sensazionalismi.
L’opera, dal tono
conversante e contenuto, è ispirata e conformata a un genuino
realismo che trapela e si palesa nei passaggi prosastici, di corrente
gergalità e, malgrado il confine della vita ne sia il motore, l’occasione
poetica, il suo spirito disdegna qualunque rituale autocommiserativo, qualunque
tentazione di iperbole tragica. Persino la tentazione profetica,
oracolare, sentenziosa (le profezie della seconda strofa di “Il fiore” sono in
realtà ancora evocazione del doloroso passato della guerra) viene qui governata
e, infine, scongiurata dall’onestà intellettuale del poeta che in “La
commediola” (P.42) riconosce la forte valenza teatrale della vita, vocata alla
finzione. Con lo stesso candore, in “Non chiedermi” (p.46) delinea la sua
poetica (“…Ti posso solo dire delle cose/ che mi sono vicine e che hanno un
corpo”) e in “La poesia si scrive” (P. 43) dettaglia ulteriormente gli
ambiti e le occasioni delle sue epifanie poetiche, concludendo con un distico spregiudicato
e sorprendente (“E’ l’unico modo per fregare/lo scettro imperituro della
sorte”).
Per una volta
dagli anni della vecchiezza non sono scaturite penose e sgomente lamentazioni
di amari e nostalgici rendiconti, ma le parole limpide e sapienti, umili e
forti, e per questo incoraggianti e rasserenanti, di chi non ha mai
smarrito le ragioni del suo amore.
E’ un piacere e
un’occasione leggere le poesie di questo libro ma è ancor più piacevole e
istruttivo tornare a rileggerle, perché ad ogni “rilettura”si scoprono
bellezze e profondità nuove.
Luciano
Domenighini
(febbraio-marzo
2019)
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