Rita Fulvia Fazio METAMORFOSI E
SUBLIMAZIONI, GUIDO MIANO EDITORE
Rita Fulvia Fazio METAMORFOSI E
SUBLIMAZIONI, GUIDO MIANO EDITORE
Quasi una rinascita dell’architettura
palladiana la stesura di questa plaquette: semplicità ed equilibrio delle
forme. Candore di marmi su ardui colonnati di vicentina memoria
Leggere i versi di Rita Fulvia significa
elevarci alle soglie dell’eccelso; ai gradini più alti dello spirito, mossi
dalla stessa curiosità da cui è motivata la poetessa: “... Così poco agevole e
a me del tutto inagibile, quella porta catalizzava la mia attenzione, la
curiosità non mi lasciava mai. Esercitava una forte attrattiva il desiderio di
scoprire cosa poteva esservi al di là, immerso nell’azzurro cielo...” (La
raccolta dell’anatroccolo). Al di là; oltre quel segno, quella riga, quel
confine, per guardare in faccia la conoscenza, il sapere, tramite l’anima della
semplicità, della naturalezza, della forza di un verso che ti innalza
all’alcova della pace estetica: «Se la poesia non nasce con la stessa
naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure.» (John
Keats).
Un volo in alto, sì, en haut, dove
l’animo puro trova il suo nirvana edenico, la luce che lo illumina e che gli dà
la quies dell’estasi. D’altronde è cosa umana, fortemente umana, cercare di
superare le ristrettezze del quotidiano con azzardi verso larghezze di
azzurrità; verso sinfonie di Bach affinché “il florilegio a due voci/.../sia
libero di volare alto,/ costantemente/ nell’oasi di vita e di pace che è vita/
di pensare non è poesia per te/ mentre è rapito in estasi” (Florilegio a due
voci). Palpiti emotivi, brividi sensoriali, amorosi sensi, input di aerei
spazi dove: “Assaporai
quell’attimo:/ mi regalò/ una leggerezza delle membra tutte/ che pareva
volassi!...” (Shiatsu); eros e thanatos, tappe focali dell’esistere; “…
Il mistero del sonno e della morte è l’unico tema della grande arte...”
affermava De Chirico. Cercare di oltrepassare il limen che ci condiziona, di
scavalcare quella soglia che ci tiene vincolati alla terra, significa
ri-trovare noi stessi, il cuore della nostra origine, l’amore per il sublime e
tutto ciò che ci trascina dalla vita alla vita-altra, dall’incoscienza alla
coscienza di esistere, hic et nunc. “Esisto, eppure/ non per me vorrei/
chiedere al tempo/ d’esistere... vorrei/ ma per... chiedere/ alla fonte
d’essere viva,/ sempre;...” (Scintilla d’eternità). E riflettere sul
tempo, sulla sua grande ingordigia, sul poi, su quello che sarà, è come
misurarci con l’infinito, con l’estensione del mare, o con la pluralità delle
stelle. È semplice sperderci nel tutto, fino a smarrire il senso della nostra
identità. D’altronde l’uomo si è sempre sentito a disagio di fronte all’idea
del niente e del tutto, di un’eco di bellezza, o un senso d’infinitezza: “In
scintillio di luna e stelle/ conduci l’oscurità della notte/ eterna,/
infinitezza gentile...” (Eco di bellezza). Forse è proprio nella
solitudine, nel faccia a faccia con noi stessi, che troviamo quel “Tu sai cos’è
altro da te...” per vivere “il racconto irreversibile/ nella pienezza
interiore/ ad innalzare fisicità/ di spirito/ nel presente del/ tempo
infinito...” (Desiderio di solitudine). Tanta spiritualità in questa
silloge, tanta polisemica attrazione, tanta pluralità di voci che chiama alla
meditazione sull’essere e l’esistere: tempo, memoria, saudade, nostos, vita. E
l’anima zeppa di emozioni trova forza ontologica reificando: Amplessi, Oltre,
Peonie, Passi di danza, Livori, Respiri, questioni alla luna: “Eppure oso
chiederti: /essenza,/ tu che togli il silenzio/ del silenzio del tempo,/ posso
consolarti/ di tutto ciò che desideri/ anche di quello di cui avrei/ bisogno
d’essere consolata io?...” (Io, luna). Tanti interrogativi che l’uomo si
pone sulla sua condizione di anima vagante; tanti perché irrisolti e
irrisolvibili per noi legati alla terra con lo sguardo rivolto al cielo: pascaliana
diatriba tra rien e tout che ci rende inquieti, ci tormenta facendoci poeti;
coscienti della nostra precarietà:
<<Tra noi e
l'inferno o il cielo c'è di mezzo soltanto la vita, che è la cosa più fragile
del mondo.>>. (Blaise Pascal, Pensées)
Nazario Pardini
RICEVO E PUBBLICO:
RispondiEliminaDi recente ho visitato lo splendido borgo medievale di San Gimignano, in Toscana, con le sue 13 torri innalzate all'azzurrità del cielo.
Apparivano, ai miei occhi, permeate dai colori caldi del sole, così come rappresentate dal pittore Alessandro Andreuccetti: luminescenti geometrie che lo sguardo apprezzava, al di là del tempo e dello spazio.
L'interiorità reificava vibrazioni umane in simbiosi con quelle delle genti di ogni dove che, avide di luce, si perdevano negli slanci del cielo. Il linguaggio poetico si scioglieva in sublimi accostamenti, in immagini fuori dal tempo, che, solo il mito di madre natura eleva da fragilità a purità d'animo; a edenici messaggi di speranza e di bellezza.
Così lei, Nazario, con la sua sensibilità e ricchezza culturale, ha dipinto un quadro della mia complessità poetica. Che dire, grazie della sua profonda riflessione esegetica stimolante e profonda. Grazie a lei, che, con magnanimità, affida il patrimonio culturale e umano a quanti hanno il privilegio di seguirla.
Un caro saluto
Fulvia