giovedì 14 giugno 2012

Franco Campegiani su "Intervista a S. Angelucci" di N. Pardini


Conoscendo e frequentando da anni Sandro Angelucci, credo di poter correttamente intendere l’apparente contraddizione che affiora dalle sue risposte, laddove dichiara da un lato il nascere della sua poesia dall’osservazione della realtà e dall’altro di sentirsi irresistibilmente attratto da un programma di profonda ricerca interiore. Sono affermazioni che spiazzano chi è abituato – infantilmente oserei dire – a catalogare la poesia (e l’arte) secondo schemi precostituiti, seguendo i quali essa o è di impegno sociale oppure è lirica; o è realistica oppure intimistica; o è sperimentalista oppure tradizionalista; eccetera, mentre la poesia è poesia e basta.
Con ciò, ovviamente, non intendo escludere la liceità degli aggettivi che connotino una determinata poetica, ma tacciare – questo si – la presunzione di unicità con cui molto spesso le poetiche si presentano, dando l’ostracismo a tutte le altre. Fa bene Angelucci a ricordare che la poesia può trovarsi dovunque. La condizione per cui questo avvenga è che ci sia il poeta in grado di cogliere i lati sottili della vita, ovvero quel senso segreto della vita stessa che deriva dalla dimestichezza con il mistero. Né questa familiarità può venire confusa con la presunzione razionalistica che pretende di afferrare il mistero dall’esterno, evitando di immergersi nelle sue acque rigeneranti ed insidiose.
La confidenza con il mistero, dunque, è il tratto qualificante di ogni vera poesia. E non è un fuggire dalla realtà, come potrebbe sembrare, ma una penetrazione nella realtà, nel cuore segreto e sfuggente delle cose. La cosiddetta realtà oggettiva non è che un arbitrio riduttivo della soggettiva mente umana. Soggetto ed oggetto si giustificano l’un l’altro, ma non hanno nulla a che fare con la realtà, che è il mistero delle relazioni cosmiche e della comunione universale. Ed ecco l’essenza del mito. La poesia e l’arte hanno sempre a che fare con il mito (e ovviamente parliamo di mito allo stato sorgivo, non di mito decaduto a mitologia, a manierismo favolistico ripetitivo).
Sta qui l’universalità della poesia. Universalità da intendersi in senso qualitativo e non quantitativo. L’universalità dell’arte non è l’universalità del consenso o del suffragio universale. Il suo linguaggio non si rivolge a tutti, ma ad ognuno. A partire, ben s’intende, dall’ognuno di se stesso, giacché è lì il centro, il mistero del mistero. La comunicazione dell’arte pretende comunione, e questo può avvenire esclusivamente nell’autenticità, ovvero nel dialogo duale dell’artista con se stesso, con la propria Musa o con il proprio demone interiore. Angelucci sa bene che, se si salta, questo primo anello della catena relazionale, va in pezzi l’intera catena e la comunicazione diviene inautentica. Quindi non originale.


                                                                   Franco Campegiani

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