Paolo
Mazzocchini: Zero termico. Casa
Editrice Italic. Ancona. 2014. Pg. 64
La
fine del ghiaccio o l’inizio del fiume
Poesia
nuova, straripante, ironica, sarcastica, incisiva, i cui versi, alimentati da
una perspicacie metaforicità, abbracciano, con virulenza, gli abbandoni, le
rinascite, o il “Rischio/ di afflosciarmi sul declivio finto-/ erboso del sofà,
brucando immemore/ abbrutenti tormentoni/ di spot pubblicitari”. “Immemore”.
Senz’anima, dacché l’anima vive del suo patrimonio che è la memoria. Sottrazione
di una coscienza lasciata alla mercé di un modernismo avvilente e omologante. Una
metaforicità, appunto, che, durante il percorso dello spartito, si traduce in
allegoria, tanta è la simbiosi fra significante
metrico e significato. Fra intenti etimo-allusivi e impatto paradigmatico. Una vis
creativa sapida di vita e di tutti i suoi rocamboleschi scenari: fughe,
ritorni, scandalo delle contraddizioni, e, alla fine, simbiotica fusione fra
elementi di memoria eraclitea sullo scorrere del tempo, la imperscrutabilità del
caso, e l’anormalità di tanti accadimenti in cui siamo coinvolti, o da cui
siamo attratti, involontariamente, durante l’anoressia di un inverno che tanto
rassomiglia a una stasi del nostro esistere. Zero termico. Riferimento ad un
liquido che sta uscendo dal gelo, (“La fine del ghiaccio o l’inizio del fiume”
- come afferma l’Autore in un risvolto di copertina -).
E
l’allusione è già ben chiara nella poesia eponima dove gli scheletri di ragno,
l’estate, i sogni di neve, l’atarassia invernale, il cervello raffermo, i
risentimenti d’antan, il declivio finto erboso del sofà, o gli spot
pubblicitari sono ingredienti che simboleggiano con estrema visualità sia la possibile
contaminazione della trasparenza del pensiero dagli abbrivi emotivi, sia la instabile
fluidità della coscienza nella cristallizzazione del verbo. Un verbo che
tramite nèssi di urgenza meditativa riesce a seguire con potenza espressiva i
risvolti della vicenda umana:
eroi
ed antieroi, umano e disumano, guerra e vita, reale e irreale, assoluto e
relativo, contingente e necessario, con un ritmo incalzante e coinvolgente. Sì,
una generosa combinazione di contrapposizioni emotive e verbali che costituisce
il leitmotiv dell’opera. Dacché l’autore
è spinto da una esigenza: ricerca dell’etimo
e della parola; l’esigenza interiore di traslarla oltre il senso per equivalere
gli input filosofico-intellettivi. E tanti i messaggi sulle aporie di una
società liquida fatta di viandanti sperduti. Riferimenti ad un mondo parossale,
irrazionalmente distribuito, alogico, inconcludente, sul cui terreno “posavamo
prima/ sicuro il piede dei nostri/ pensieri, di far scintillare ai nostri/
occhi /…/ il filo delle spade sospese/ da sempre sopra i nostri/ mollicci crani
di neonati”. Ed è l’iterazione del
possessivo “nostri”, a concretizzare nel verbo la sottrazione di una partecipazione
primaria da parte di un iter sempre più disumano. Il ritratto di una realtà
cruda dipinta in bianco e nero, partendo
dai minimi particolari che ne costituiscono la struttura portante. Anche nel
confessare l’amore il Nostro è spinto dalla necessità di intraprendere vie
antiliriche, paradigmi esistenziali concretizzati in formule lontane anni luce
da sdolcinatezze erotiche: “Perché/ da sempre distinguo l’odore opposto/ del
male e del bene più/ che un segugio la
traccia/ dello sterco o del sangue./ Per l’ironia tua lenta/ e benigna che da
me storna/ le orde della comune follia/ quotidiana ed abita limpida/ le umili
rocche/ dei sapienti. Per questo/ in me tu vivi”. Un linguismo generoso e
modernamente intrecciato, non solo da un punto di vista metrico, ma proprio per
i suoi interscambi azzardati; per i suoi incontri divoratrici del comune senso
di far poesia. Dove la sostanza creativa,
fonica e cromatica, la pienezza ontologica, legata alle sue strutture oggettive
e reali, evitano con maestria l’insidia dei luoghi comuni, modulando le parole
con ironia, o con crudi riferimenti ad una verità ultrattuale: “Ci piace, e non
vorremmo/ mai pensare che la polvere/ di fabbriche campi quartieri/ sputata
oggi dal vento/ sui nostri davanzali/ non è già più/ la stessa di ieri”. Un
fluire paratattico che denota la voglia di dire, di confessare, senza
armamentari retorici, situazioni, anomalie, forgiate in pensieri netti e densi.
Una ruggine che tutto contagia dando l’idea di un tempo che fugge e tutto
corrode; di un oblio che si mangia la stessa memoria: appuntamenti mancati,
ricette mediche scadute, un pullover anchilosato, un polsino liso: “atomi di
spossata/ ruggine zampillano/ nella lama di luce/ sghemba dell’abatjour”, o una
bellezza divorata dai rigagnoli sozzi di un tombino: “Presto/ è un pianto
diffuso/ dirotto. Si strugge in un amen/ (di pudore,o di rabbia?)/ la corolla di ghiaccio,/ di botto precipita/
nei rigagnoli sozzi/ che un tombino divora”. Anche se trapela da questi versi
una piena coscienza della caducità dell’essere e dell’esistere; una
consapevolezza della miseria del mondo e degli uomini che non si rendono conto
che la vita è il tempo prestato dalla
morte: “Il buio che segue/ la luce non è mai/ identico al buio/ che l’ha
preceduta”, non è che ne fuoriesca un sentimento di nichilismo, o di pessimismo
senza ritorno. Affatto. Qui c’è l’amore, la speranza, il sogno e soprattutto un
grande attaccamento alla vita. Perché il poeta la vorrebbe migliore, la
vorrebbe pulita; ma è a lei, al fin fine, che rivolge il suo canto. Un canto
zeppo di forza rievocativa, a cui il Poeta dà tutto se stesso, nella speranza
che urli ai quattro venti il suo disappunto per tutto ciò che non ne è degno:
Non rido più della vetusta
fede
nel tempo circolare udendo
intimare
usurai canuti, tecnosnob,
ammuffiti
capitani di sventura che a
guadagnare
la proda verde del mondo nuovo
indietro tutta si punti la
prora
della sfasciata nave…
Non rido più. Anzi, non so
se la nausea o la pietà
prevale (Non rido più).
Nazario
Pardini
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