Franco Campegiani collaboratore di Lèucade |
Terrestrismo
Mostra dello scultore Gastone Primon presso il
Museo Civico "Umberto Mastroianni" di Marino (dal 05/09 al 27/09/2015)
La poetica di
Gastone Primon è animata da un fuoco distruttore e restauratore nello stesso
tempo. C'è un aspetto antiquario, nei suoi impasti materici, che non deve
suonare come un rimpianto di stagioni passate, ma come un tentativo di dialogo
con le culture più remote dell'umanità per averne nuove spinte vitali nel mondo
d'oggi. Il riferimento è ai substrati misterici delle antiche culture
mediterranee, legati alla ciclicità della Terra Madre, precedenti allo strappo
prodotto dal razionalismo grecoromano con l'innesto di quel processo che ha
gradatamente condotto, nei secoli e nei millenni, allo squallore attuale. Ed è
con quelle arcaiche culture che l'artista dialoga incessantemente, giacché le
sente vive, non morte.
Non è un caso che,
nei suoi impasti ceramici, lo scultore estense (romano di adozione) introduca
sovente degli elementi archeologici, come a volerli rigenerare nella modernità.
L'amore per i Paleoveneti, per l'archeologia, nonché per gli antichi maestri
estensi, la cui storia egli conosce come forse nessun altro, va di pari passo
con una poetica legata alla terra ed al fuoco, in una parola agli elementi, che
lui sente in maniera viscerale, quali antidoti contro i venefici di una cultura
millenaria fondata sul desiderio di affrancamento dall'ordine naturale. Tentare
di uscire dallo stallo, dall'odierna stagnazione culturale, dal rogo
dell'antropocentrismo che viviamo, non può significare altro, infatti, che
collegarsi, sia pure inconsciamente, con il cosmocentrismo e con il
terrestrismo più arcaici, con quei misteri della Morte-Rinascita che troviamo
ad esempio nei culti di Eleusi (Persefone e Core, per intenderci), come pure
nel mito dell'Araba Fenice.
Avviene spessissimo
che Primon si affidi, per comporre le sue opere, ad elementi e ad oggetti
trovati in natura, sia pure là pervenuti da una lunga e consumata consuetudine
con la storia e le storie dell'uomo. Egli è letteralmente affascinato dalle
culture che vivono di questa osmosi, di questa rete di scambi con la natura,
nello sforzo di creare un habitat gradito
alla Madre che ci ospita, un alveo naturale in cui stabilire le proprie radici,
la propria dimora. Ed è qui che nasce il desiderio di amalgamare, nelle sue
opere, reperti archeologici e reliquie fossili con prodotti e scarti della
moderna cultura industriale.
Lo scultore è anche
pittore materico, ma la sua opera pittorica non è fondata sul colore, bensì
sull'assemblaggio e sul collage, dove
entra di tutto: cassette della frutta, cartoni pressati, plastica arrotolata,
dipinta e poi bruciata. Una tecnica che non deriva dalla pittura, ma dalla
lavorazione della ceramica. E' materiale povero, il suo. I tubetti li ha usati
in passato, oggi non più. Gli acrilici pure. Predilige i colori lavabili, e poi
ama molto bruciare. Utilizza di tutto. La pietra gli piace, ed anche il legno,
soprattutto quando, prima di lui, l'ha già lavorato la natura, il fulmine. Ci
si soffermi di fronte allo spezzone di tronco fulminato che troviamo in
esposizione: sembra un lacerto amputato di un grande animale, una zampa, forse,
o un uccello ferito in volo, un trofeo di caccia, un animale macellato.
L'animalità della
natura, la natura pensata e vissuta come un grande animale: un immenso cuore
che pulsa, ma soprattutto un'anima,
una prorompente intelligenza creativa. C'è, costante, l'idea del riciclaggio,
del rimpasto, della rigenerazione; la visione della vita e della morte fuse in
un unico respiro. Tutto rientra nel circolo, ed è per questo che l'artista
utilizza di tutto nel suo laboratorio creativo. Anche se predilige l'argilla,
per la malleabilità e l'immediatezza espressiva. L'argilla, cuore e collante,
sangue ed anima di ogni essere del creato.
Ed è questo, se
vogliamo, uno sviluppo della poetica del ready-made,
dell'oggetto trovato, tanto cara al
Dadaismo, con la sua polemica nei confronti della tecnologia e del consumismo
industriale che alimenta l'effimero.
Una polemica, quella dadaista (comune anche alla Pop Art), nei confronti della consumazione vorticosa delle cose
imposta dai modelli della cultura attuale, che Primon riconduce tuttavia nei
binari autenticamente metamorfici del creato. Uno sperimentalismo non effimero,
perché non ricalca i modelli usa e getta della
cultura industriale. E' il morire e rinascere, il rinnovarsi festoso ed
angoscioso della vita.
La velocità di Primon non è più quella del
Futurismo, tutta proiettata in avanti, verso le conquiste di quel progresso
tecnologico che stiamo scoprendo responsabile di guasti difficilmente
risanabili. L'artista, dalla sensibilità acutamente contemporanea, coltiva un
rapporto di odio-amore nei confronti della cultura scientifico-tecnologica. Da
un lato ne subisce il fascino ed è catturato dalla sua spinta innovatrice,
mentre dall'altro ne avverte i pericoli e si proietta all'indietro, cercando
nelle ere archeologiche e geologiche addirittura. Una velocità, un movimento a
trecentosessanta gradi, capace di assimilare il futuro più avanzato con il
passato più remoto. Un leitmotiv,
d'altro canto, caro all'intero
avanguardismo storico, contrassegnato da primitivismo
e avvenirismo nello stesso tempo
(basti pensare a Picasso). E' l'eterna avventura dell'energia vitale, che si fa
mortale per potersi rigenerare in continuazione.
Inevitabile
il confronto con i grandi Maestri dell’Informale (Burri e Fontana
principalmente). Un confronto da cui non possono che emergere le
particolarissime peculiarità del Maestro estense. Dove, infatti, Burri non fa
che evidenziare i processi degenerativi della materia, la sua generale
consunzione, il suo ridursi graduale a polvere e a terriccio informe, Primon
tende a cogliere l’azione proteiforme e metamorfica della natura, il suo
distruggersi per rigenerarsi in continuazione. Confronto assai più calzante può
essere fatto con Fontana, anche per l’amore espressamente dichiarato da Primon
per questo grande esponente dell’Informale.
C’è
tuttavia da evidenziare la differente tipologia artistica primoniana, che non è
tesa a registrare la glaciale spazialità, bensì il ribollire tellurico, ctonio.
E potremmo dire anche cosmico, se per cosmos
potessimo finalmente intendere non più un ordine avulso e distaccato dal mondo,
ma un ordine convulso e intrinseco al mondo stesso, radicato nel caos magmatico
e incandescente delle cose, nel pane lievitante del creato, nei processi
generativi-degenerativi del pianeta e del cosmo in cui viviamo. E’ la ciclicità
metamorfica della vita ciò che l’artista evoca in queste lacerazioni e in
questi strappi, potremmo dire in questi parti, da cui germina in continuazione
l’urlo rinnovato della vita.
Franco Campegiani
Una mostra di grande interesse e straordinaria vitalità. Anche se le terrecotte sono il pezzo forte e i dipinti sono i maggiori poli di attrazione della mostra, i pezzi di legno bruciati, tagliati e violentati dai fulmini, prlano, urlano e attraggono il visitatore come una poesia della terra colta a frammenti. Sono un grido d'albero: dolore, orrore, paura e immobilità, un attimo congelato in quel gesto che si ribella alla tempesta e che esprime la dignità del Creato!
RispondiEliminaBella mostra!
Claudio Fiorentini