Massimiliano
Bardotti: L’abbraccio. FaraEditore.
Rimini. 2015. Pg. 64. € 10
Poesia
segmentata, frammentata, incisa da rattenute, riprese, da frasi a sé stanti,
apodittiche, parenetiche, e conclusive, dove il verso, con energica forza
verbale, abbraccia cospirazioni di natura sociale, umana, esistenziale, onirica
e memoriale. Qui c’è la vita con tutta la sua forza motrice. La terrenità, di
cui l’Autore si sente parte, e in cui rinviene la storia delle sue radici: “Ma
io amo la terra che fu di mio padre”; l’amore: “Mi tiene la mano/ stretta sul
cuore/ una piccola fata”; e tanta spiritualità che prende il via dalle cose
minime, da quelle che osserviamo, se vogliamo, in ogni angolo del nostro
vivere: angoli di strada, donne nella
notte, altalene nel vento, albergo a ore, affollate stagioni, la cicala
che canta, l’aurora celeste, l’urlo del mare, la gente comune, i sofferenti,
gli esclusi “La Classe Operaia sta ancora aspettando il Regno dei Cieli”, dove
ogni sprazzo della vicenda dà corpo ai battiti diastolici di un cuore spesso
inasprito dalle aporie della società; un dire anche ironico, sarcastico, ma mai
violento, mai giovenaliano, anche lirico, spesso, in abbandoni a naturismi di
simbolica efficacia: “Stiamo appesi alle grondaie/ come gocce di una pioggia
che non cade./ Come alibi di nuvola/ se il
sole le sorprende e le sgomina”. Un viaggio, un odeporico travaglio, che
attraverso tappe di riflessioni e pensamenti, va in cerca di una luce che
illumini il cammino; di una luce che rompa le brume di un autunno tanto simile al
redde rationem della vita; di una luce più vicina di quello che si pensi: “Dio
è nelle cose più semplici”; direbbe Du Bellay: “Felice come Ulisse chi ha varcato i mari, o chi fino
alla Colchide si è spinto, Giasone, che poi tornando esperto e ricco di ragione il
tempo che gli resta si gode fra i suoi cari!”. E il tutto con una
metaforicità e un insieme di figure iperbolico-allusive che rende originale e
personale l’architettura stilistica del Nostro; la geografia fisica di un poema
aperto a parate di senza tetto, a invidia che corrode, a saudade, dove “un
misero bacio può farti perdere la rotta/ nelle partenze e nei ritorni”; e dove il
passato, col suo fardello di promesse, speranze, illusioni e delusioni, sta
aggrappato al nostro animo facendoci prigionieri: “Un passato di speranza/ che
ci rende prigionieri”. Quel passato che ci dà l’idea della nostra precarietà,
della nostra fragilità nei confronti di un presente che mai si fa vedere in
faccia per delle soluzioni ai nostri irrequieti perché. Resta un racconto
abbondante, plurimo, folto di padri e di madri, di affetti e rimembranze, che
da soggettivo si rende plurimo, totale, dacché ognuno di noi vi legge una gran
parte di sé:
Mio padre era nel sindacato
combatteva una guerra di contratti.
Nessuno sparava
eppure moriva un sacco di gente.
E tu nascevi
bella come i fiocchi di neve
che cadono ad agosto
in una città sul mare.
Tu nascevi
nuda e vivace.
Rimasero tutti di sasso.
Una femmina elegante
il portamento di una regina…
E
soprattutto vi legge il tempo che fagocita tutto: il bene, il male, il giusto,
l’ingiusto, l’ordine e il caos:
L’eterno
non è di questi tempi.
Il principio
la fine
ci stiamo in mezzo.
La notte?
Una scommessa…
Per
cui lo stesso amore sembra languire nell’eterno cigolio:
Un pasto nudo
nel letto disfatto
di notti vibranti
di gonne tirate sui fianchi.
L’amore veloce
che scalda l’inverno
e muore
lamento
nell’eterno cigolio.
Nazario
Pardini
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