Da dove solo il gabbiano
s’avventura. Tu m’hai gettato,
da dove solo la rondine
felice, m’hai gettato
in superficie –
ma quella io ricordo
come fosse mia nutrice,
la Tua promessa –
il Verbo era in principio,
presso Dio era il Verbo,
e il Verbo era Dio –
o me infelice!
Da
qui inizia il “Poema” di Emidio Montini; da una terrenità che avventura sguardi
verso una Luce di intensità esplosiva; dalla caducità dell’àmbito umano all’appagamento
del Verbo-Dio. E questo è il tema fondamentale del percorso poematico; un
percorso di grande intensità emotivo-contemplativa dove l’Autore confessa il
suo desiderio di completamento vitale: “O Vita! – più Vita ti chiedo/…/ Luce! –
più Luce ti chiedo”. E se commisuriamo questa spinta pascaliana verso l’oltre
alla pochezza della staticità amorale del presente, quello che vien fuori è lo
sfogo non sempre pacato di un Poeta in versi di complessità eufonica ed
ermeneutica; in un lirismo sentito di
preghiera e di canto; di dolore e di critica “ I Vecchi di Colono,/ se
necessario,/ solo tu mercante/ li sai beffare,/ solo tu ruffiano”; insomma un
viaggio del novello Edipo verso la sua Colono, una città che si fa simbolo
della ricerca umana, e qui un iter del Poeta alla scoperta di se stesso, fino
al completamento spirituale del suo
esistere. D’altronde Eschilo stesso aveva composto la sua tragedia all’età
avanzata di novanta anni, e trattando la tematica della morte non poteva che
fare dell’opera uno stretto riferimento autobiografico. Anche se qui il
discorso tende a spersonalizzarsi in un oggettivazione trasversale; nella
visione di un uomo impegnato nel travaglio continuo verso un porto di difficile
ancoraggio dove il tutto si fa simbologia, attualità, ritorno, nostos e nostoi,
odeporico intento verso una sponda dopo molteplici peripezie esistenziali. Un
cammino reso visivo dalle plurime soluzioni linguistiche di potenza iconica. In
fin dei conti è proprio dell’uomo ambire all’oltre per sottrarsi alla
precarietà del terreno. Un’operazione in cui è facile sperdersi. Il mare è
immenso e un faro può aprirne soltanto lo squarcio, oltre c’è il buio in cui non
è difficile disperdere le nostre tracce se non c’è una buona strumentazione,
una grande carica spirituale che ci traccino la rotta.
Poesia
ricca, ampia, efficace, prodiga di accostamenti umani e sovraumani. I versi con
urgente mobilità si fanno corpo di un animo zeppo di accadimenti di perspicua
forza ontologica. I Vecchi di Colono il titolo, che, ripreso da quello della
seconda sezione dell’opera, si pone come momento incipitario con valore
eponimo. Considerando il significato, il significante e il reiterato verso iniziale
nelle otto poesie della sezione (I Vecchi di Colono), non è affatto complicato entrare fin da
subito nel cuore della vicenda multicorde di Emidio Montini che riesce a fare
del mito una sentita attualizzazione delle incongruenze del mondo odierno; o
semplicemente a condannare questa materializzazione in cui l’uomo stesso si è
impelagato; quindi vita, materialità e spiritualità, sorte, coscienza della
precarietà del l’esser-ci, inquietudine,
saudade, e slanci verso un Cielo tinto d’azzurro; sì, vita con tutto il suo
plurimo mélange; vista come ricupero di un’epigrammatica interiorità da contrapporsi
a una modernità priva di valori: il potere, gli interessi, le sofferte tappe
che sono proprio quelle del doloroso cammino di Edipo. Un insieme di contrasti
che nella loro simbiotica fusione determinano l’evolversi della vicenda umana e
del suo mistero; il nostro esistere. Colono è quella della mitologia greca; la
città in cui la sorte avrebbe fatto terminare i giorni di Edipo, Edipo coloneo;
ma Colono può essere un mondo qualunque, irreale, inventato, o reale, ma
fortemente simbolico, i cui Vecchi: “hanno il labbro lascivo” “Loro a Colono
detengono il potere” “ aggiogato lo straniero/ in nome di Zeus,/ e l’anima
fanciulla/ alle loro cosce/ implacate perfino/ ahimè di fronte/ alla morte” “I Vecchi di Colono/…/ appostati siedono/ ai
quadrivi del potere” “I Vecchi di
Colono,/…/ giammai potranno/ divino accettare/ come tale l’universo” “Oh
gioventù/ iniettata d’oblio,/ lo scandalo non è il Male,/ ma che a gestirlo sia
il Padre…”I Vecchi di Colono,/ ciechi lo dissero cieco,/ lo straniero, lacero,/
di nome Edipo,/ per mano condotto,/ e come supplice,/ vocante in lui il Dio/
per essi assente…”. Un fluire apodittico, segmentato, dove l’anacoluto rende il
verso originale e potente; dove ogni tratto è volto ad una metaforicità di efficace
modernità. Si ricorre a tutto ciò che, linguisticamente, possa dare forza e
visività alle immagini. Quelle di un Poeta che direi più mitopoieta che
mitologo. E la parola si fa incisiva, nuova, neologica, anche, per reinventarsi
e adeguarsi alla complessità di un’anima volta con tutta la sua epigrammatica
vicenda all’immensità del Supremo.
Nazario
Pardini
DA
I VECCHI DI COLONO
Ella
non si mostra mai due volte,
(muta
per sempre per sempre di sale)
Colei
che tu sai perduta funzione,
e
tu che gridavi alle stelle,
tua
dal principio, l’ineffabile,
come
luce intatta di luna sul prato,
lei
severa dai capelli di salice,
tu
malato all’ultimo stadio.
Colei
che tu sai perduta ahimè,
noi
anche continuamente perdiamo,
o
carne, carne del nostro canto.
Orfeo
l’inferno è dovunque. (Euridice).
Quaggiù
due dita di ghiaccio,
sulle
fontane. Disadorne le aiuole,
un
capogiro pulsante di stelle
sul
tetto chine, sul prato.
O
Vita! – più Vita ti chiedo,
in
questo buio per me momento,
le
bende di Lazzaro intorno
e
delle donne il pianto.
Luce!
– più Luce ti chiedo,
e
ciò per vedere com’è l’Eterno,
se
Nome che puro bilancia,
o
nero nume infecondo. (Più vita ti chiedo).
Oh!
Svegliarsi un giorno,
rivestiti
di pietà alfine,
sciolto
il groppo, il grumo,
con
davanti il tempo
fattosi
quieto,
senza
steccato.
Svegliarsi
un giorno,
Proserpina
in un angolo,
dimenticato
Ares,
assolti
alfine
dall’ordine
fasullo,
dal
falso bene. (Svegliarsi un giorno).
Nessun commento:
Posta un commento