Edda Pellegrini Conte: Navigare. Edizioni Helicon. Arezzo. 2015. Pgg. 82
Una fede che, sofferta e forte dentro,
mantiene la rotta della navigazione
Trascorre Autunno
tutto di ruggine
avvolto
come animo
logorato
non più appagato.
Inquietudine
ovunque origina ed
effonde.
Ottobre
la sua esistenza
breve…
il grigiore è alle
porte
Iniziare da questi versi incipitari significa andare a fondo, da subito,
nella poetica di Edda Conte: autunno, ruggine, animo logorato, non appagato,
ottobre, il grigiore. Un insieme di riferimenti emblematici che avviano il
percorso di lettura verso una plaquette
fortemente intimistica, e d’intensità epigrammatica.
Navigare il titolo di questa
silloge, i cui versi, di perspicua vis creativa, concretizzano immagini ed
impatti emotivi rimasti a decantare in un animo fecondo di latebre meditative.
Un prodromico inizio che presuppone un fiume, un mare. Presuppone una barca zeppa di tutti i congegni per una lunga
navigazione; presuppone un faro che ferisca la notte: un faro che dallo scoglio
illumini quegli orizzonti tanto vasti quanto misteriosi con una scia luminosa a
indicare quell’approdo che noi umani cerchiamo e simboleggiamo in questo piano
azzurro. Un sentire che sa di libertà, di apertura, di spazio, di speranza, di
un infinito in cui spesso smarriamo i nostri slanci contemplativi. Di una fede
che, sofferta e forte dentro, mantiene la rotta della navigazione. E dire
quanto l’abisso si addica alle cospirazioni intime della Conte è come rimandare
il pensiero ad Alfredo Panzini che definì i poeti “simili al faro del mare”; ad
una luce che rompa la notte e le brume
di un domani verso cui azzardiamo i nostri sguardi. Quali immagini più vicine
alla vita, al suo scorrere, al suo dipanarsi veloce e impietoso; al miraggio
ultimativo, oracolare, speranzoso che ognuno si pone. C’è in questa silloge
tutto il vivere fatto di passato, presente e futuro che si fondono indissolubilmente
per dare forza al logos del poièin. Un’anima tutta volta a incidere la sua
vicissitudine esistenziale in versi concisi, folti, energici, apodittici che
facciano delle loro misure alloritmiche lo specchio di un vissuto e di un
auspicante futuro pregni di essere e di esistere. E ci si affida alle memorie:
“Commiati remoti/ nell’ora vespertina del Paese/ ritorni
d’infanzia/ tra il verde dei monti/ il bianco delle case/ il ponticello sul
Canale/ il nespolo dell’orto…/ Un cartello scolorito/ sul sentiero tra gli
ulivi/ ricorda degli avi/ l’Eterno Riposo”; “Oltre andiamo/ coltivando la
mestizia dei giorni…/ Continua l’aria della sera/ a riportare voci/ che l’animo
trattiene a malincuore”.
Ci si
affida a un alcova che spesso fa da nirvana edenico; da ristoro alle aporie del
presente, alle sottrazioni del giorno. Pur coscienti che nessuna Arte potrà mai
dar vita ad una realtà sfiorita. l’Autrice sente forte questo groviglio di
fatti e figure dentro sé che tanto dice di saudade, di melanconia; di
quietudine ritrovata, anche: “Memorie/
immagini in negativo/ che nessun’arte al mondo/ potrà più inverare./ In questo
cielo autunnale/ resta in attesa la pioggia/ sospesa/dubbiosa/ la città vuota/ come
giardino spoglio”. Immagini
in ansia di tornare al calore di un sole che le scaldi; immagini care e
rigeneranti in un autunno che passa senza risposte alle tante perplessità, e dove
i palpiti ottobrini sanno tanto di redde rationem, di conclusione, con tutto
ciò che essa comporta: inquietudine del vivere, senso del limite, coscienza
della precarietà del nostro esser(ci), ma anche tensione di rinascita, di
epifanico volo oltre il tempo, troppo terreno, vincolante per aperture
visionarie di un futuro che chiede armonie: “Un sentiero di luce/ riflesso di tramonto/ affaccia una speranza/ che
in armonia si scioglie; armonie che percorrono tutta la versificazione dandole
un’euritmica sonorità che rende piacevole la lettura da un lirismo che esplode
in arcature e guizzi”. Tante le iperboliche allusioni, gli incisivi guizzi di
metaforicità, le creazioni di assemblaggi lessicali o di intensificazioni
verbali in contenuti tesi a sottrarre la bellezza all’ingordigia del tempo. D’altronde
è dell’umano cercar di rompere le nebbie del quotidiano, e il brumoso domani
della vita; ed è dell’uomo, cosciente di una breve esistenza, azzardare sguardi
oltre orizzonti troppo vasti per la nostra miopia; troppo ingenerosi per
un’anima combattuta fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, fra realtà e
verità: “Inviteranno le stelle/ questa
sera/ dalla volta celeste ammiccando/ in classica danza./ Messaggio sublime/ nel
tempo nuovo/ certezza di un ordine divino/ eterno e immutabile”.
È qui
il nocciolo della silloge, il focus che sottintende una
melanconia domata da un andamento estensivo e contrattivo avulso da contorsioni
fonetiche; da sterili espedienti sperimentalistici; ma sorretto, al contrario, da esperita
sicurezza del ductus poetico, che tanto si rifà alla migliore tradizione della
nostra letteratura nel controllare, con strutture ben solide, il flusso emotivo
dell’esistenza e di tutto ciò che
comporta il rapporto della vicenda umana col tempo. Dacché la diatriba
pascaliana del fatto di essere umani è quella che ci vuole coi piedi a terra e
con l’animo volto al cielo: “L’homme c’est un milieu entre rien e tout”.
Un’operazione esistenziale che la
poetessa attua mediante una scelta di combinazioni verbali e di nessi
tacnico-fonici che denotano una assidua frequentazione culturale, resa spesso
da endecasillabi liberi alternati a misure più brevi per dare forza empatica al
nobile verso.
Ma c’è
tanto sole, tanta luce, tanta speranza spirituale, ontologica in queste
composizioni; tanta natura che abbraccia l’animo di una Poetessa volta all’azzurro
e alla visione di un presente che dia voce al suo sentire: “Di nuovo stupore sorride la vita/ nel fiorire del
pruno/ che si accende di promesse…/ Arabesque di Primavera!/ Sul fiume solatio
dei miei pensieri/ danza una zattera di loto/ naviga lontano/ verso l’
Isola-che-c’è”.
Un’opera
di polisemica valenza, di plurale emotività, densa di ogni input umano, di ogni
abbrivo esistenziale: gioia e dolore, tempo e non tempo, notte e giorno. Una
miscellanea di contrapposizioni che dànno vigore al dipanarsi di pièces in cui
la Nostra, non di rado, va in cerca di
un luogo solitario per riconciliarsi col suo spirito; per rintracciare quella
parte di sé nascosta nella poesia: “Accompagnare il Tempo/ per non sentirsi sola./ Farsi
“casa”/ e chiudere fuori il mondo”.
Finché
un grido leopardiano dà netto segno del vivido amore di Edda Conte per questa
vicissitudine terrena che ci avvolge e sconvolge; che ci esalta e ci annulla,
facendoci meditare su quei perché che assillano l’uomo, l’unico animale
cosciente della morte: “Dorme il
colombo sotto la grondaia/ il capo nascosto sotto l’ala/ silenzioso compagno/ inconsapevole/
testimone dell’ora che passa”.
Nazario Pardini
La lettura del mio Navigare sentitamente e artisticamente fatta da Nazario Pardini è un'"opera" nell'opera. Grazie.
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