venerdì 10 febbraio 2017

FRANCO CAMPIGIANI: "IL LAVORO DEL CRITICO"

Il lavoro del critico
Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade

Le filosofie, da sempre, costruiscono estetiche in linea con la propria visione del mondo, ignorando che l'arte è essa stessa una particolare visione del mondo che non ha nulla a che vedere con le estetiche e con le filosofie. Interpretare l'arte, o la poesia, sottoponendole a criteri impropri (non soltanto filosofici, ma anche religiosi, morali, scientifici, politici, eccetera) significa fare critica pedante e dottrinaria, tentando di catturare l'arte, nel nome del Bello, per porla al servizio di altre categorie mentali. Né le cose cambiano sottoponendo l'arte a un ideale di bellezza assoluta e astratta (Estetismo, Parnassianesimo, eccetera), che potrebbe sembrare propriamente artistico in quanto estraneo ad ogni altra dottrina. In quel caso, infatti, l'arte si fa schiava di se stessa, finendo nel narcisismo, nell'esibizionismo, nel virtuosismo e deviando, nel nome del Bello, dalla sua autentica natura.
In quali condizioni, allora, essa può essere realmente libera da ogni sudditanza, e quale è la sua più autentica natura? Ebbene, l'arte, da sempre, nasce nella nostra mente quando vi fa irruzione una visione esaltante, capace di illuminare, in positivo o in negativo, il valore della vita.  Ed è questa l'essenza del mito: di quel racconto - così dicono i dizionari - che rivela l'origine della vita e direttamente conduce al mondo degli archetipi, dei principi. E' da lì che sgorgano i miti, da quella mente extrarazionale, depositaria di sapienze superiori, universali, che da sempre (anche se oggi non più) i poeti e gli artisti hanno chiamato Musa. La mente razionale, necessariamente schematica, non ha il ruolo di creare miti, ma di accoglierli, chiarendone, senza disconoscerne l'essenza, le presunte contraddizioni e ponendoli nella giusta luce.
Se l'arte è questo, qual'è il ruolo del critico e quale la funzione del suo lavoro interpretativo? Indubbiamente quello di rintracciare nell'opera i segni di quell'ispirazione e di quella sapienza che, illuminando il mistero, hanno il ruolo di ri-cordarci (riportarci al cuore) qualcosa che ci riguarda, di cui abbiamo smarrito memoria. Adottare altri criteri valutativi significa imporre all'arte una veste non propria. Sarebbe come voler valutare la politica con i criteri della fisica, o l'economia con quelli dell'arte culinaria, o la filosofia con quelli della pesca subacquea, e così via. I linguaggi creativi vengono dal cuore della creazione universale, per cui il mithos non è altro che l'auto-rivelazione del logos negli orizzonti dell'intelletto umano, contrariamente a quanto i dottrinari insegnano, ponendo i due termini in antitesi tra di loro.
Il poeta non parlerà mai del mare o del vento, ma lascerà che sia il mare stesso, o il vento, a parlare attraverso la sua scrittura. Egli presta la propria voce alla voce del mare e del vento, all'empito incontenibile della vita, che non potrà mai venire racchiuso (contenuto) in una formula espressiva. Da qui l'esigenza di leggere tra le righe, di leggere il non detto, di ricomporre l'opera a modo nostro, di farla rivivere in noi, perché ciò che conta, leggendo un'opera, è capire noi stessi e non il suo autore. "Ogni lettore, quando legge, legge se stesso", ha scritto Proust ne Il tempo ritrovato. E ha chiarito:  "L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”.
Non è soggettivismo, come potrebbe sembrare. Soggettivismo e oggettivismo sono attinenti alla mente orizzontale, superficiale, razionale. L'arte, al contrario, evoca gli archetipi: la sua natura non è soggettiva, né oggettiva, ma universale. Con l'avvertenza che i parametri dell'universalità qui si trasformano, perché essa non parla a tutti astrattamente, come un messaggio pubblicitario, bensì alla mente e al cuore di ognuno. L'opera è uno specchio attraverso il quale ciascuno tenta di capire se stesso, il proprio mistero. Ne segue che il critico non può sparare sentenze, non può spendersi in stroncature o in elogi sperticati, ma può solo restituire la risonanza spirituale che una determinata opera ha provocato dentro se stesso, se ovviamente questo è accaduto. Chiunque legga un'opera, vi si deve immergere come fosse lui a riscriverla daccapo.
Se non avviene il transfert, l'opera lascia indifferenti e l'universale sfuma, non viene colto, diviene un miraggio lontano. Anche la critica, pertanto, è un'attività creativa, tesa a ri-creare in modi del tutto autonomi quei sensi o valori universali che abbiamo dentro, ma che purtroppo dimentichiamo. La critica non è che una possibilità ulteriore, per l'arte, di risorgere attraverso uno specchio interpretativo. Ogni opera è uno specchio. Non soltanto per il fruitore, che attraverso di essa entra in relazione con se stesso, ma prima ancora per l'autore che ne approfitta per dialogare con se stesso. Non è vero che si scrive per gli altri, questo è un luogo comune. L'esigenza di scrivere nasce dallo scrittore stesso.
Ciascuno scrive per se stesso, e ovviamente noi gli siamo grati per l'offerta di questa sua ricchezza interiore. Ce la deve dare di riflesso, però, non di proposito, altrimenti lo fa per salire sul piedistallo, per farsi acclamare, per soddisfare il suo narcisismo, per ottenere la nostra venerazione. La vera comunicazione è fine a se stessa, come quella del fiore che emana i suoi profumi, o quella del vento che sparge la sua musica, o quella del sole che effonde il suo calore. L'opera d'arte non ha secondi fini, è solo un'occasione per rinascere dentro noi stessi e farci stupire del miracolo della vita. A questo scambio e a null'altro occorre la trasmissione del pensiero.
 L'ermeneutica di Gadamer, sviluppando le premesse della fenomenologia e dell'esistenzialismo, giustamente afferma che la comprensione tra esseri umani avviene sul piano discorsivo (e ciò in un orizzonte certamente non più aristotelico, né più neanche husserliano, avendo egli abbandonato ogni pretesa "scientifica" della comunicazione verbale). Resta tuttavia da chiedersi come mai a volte ci si intenda meglio senza parlare, mentre le parole molto spesso finiscano per dividere e allontanare gli uomini tra di loro. Evidentemente il linguaggio non è sempre autentico e colui che scrive o parla non è sempre attento alla responsabilità del comunicare. Bisogna cercare la verità nelle profondità dell'anima, e ciò è possibile soltanto dialogando con se stessi prima di dialogare con altre persone.
L'uomo è un soggetto di relazioni. A partire, però, dalla relazione con se stesso. Saltando questo primo anello della catena relazionale, salta tutta intera la catena e le comunicazioni si fanno inautentiche. Non si può instaurare un dialogo con altre persone se si evade l'obbligo di dialogare in primis con se stessi. Di tutto ciò la Fenomenologia non parla, ma non c'è altro modo per raggiungere quella pulizia mentale che secondo Husserl occorre affinché il mondo possa presentarsi "in carne ed ossa", mostrandosi per quello che realmente è, anziché per quello che a noi fa comodo che sia. I linguaggi artistici, se veramente tali, posseggono queste qualità altamente spirituali. E la critica che se ne occupa vi si dovrebbe avvicinare con altrettanta potenza spirituale, risalendo dal prodotto (testo, quadro, scultura o altro) alle fonti archetipe da cui sono generati.
E tanto meglio se il critico possiede qualità di poeta, o comunque di uomo non solo interessato, ma direttamente coinvolto nei fenomeni creativi. Ha scritto il Maestro Bruno Fabi ne “Il Tutto e il Nulla”, opera fondamentale dell’Irrazionalismo sistematico ("Fratelli Bocca", 1952; poi "Anemone Purpurea", 2006): “E conclusi con ciò che poteva sembrare un paradosso, e non lo era: che il critico, per essere veramente tale, doveva essere egli stesso artista; che la pretesa obiettività del critico non artista, di cui si faceva forte la schiera dei più, era obiettività razionale, e cioè superficiale e relativa valutazione di quanto si sottraeva ad ogni giudizio, ad ogni confronto, ad ogni obiettivazione, mentre la rara qualità di artista nei critici d’arte, in quanto sensibilità al tutto, era universalità, e dunque obiettività in senso totale, vera obiettività, come possibilità per il bello di risorgere costante, oltre che dall’opera dell’artista, dall’opera del critico come artista”.

  
                                   Franco Campegiani



14 commenti:

  1. C’è una dichiarazione forte, decisa (potrebbe sembrare polemica) che guida l’intervento intorno al lavoro del critico di F. Campegiani: “Da sempre scrivo e penso per me stesso, per la mia festa spirituale, e proprio non riesco a comprendere da dove nasca il bisogno di convincere gli altri della giustezza delle proprie idee…” E la tesi è espressa e suffragata da una vis poetica intrigante non di poco conto: “ La vera comunicazione è fine a se stessa, come quella del fiore che emana i suoi profumi, o quella del vento che sparge la sua musica, o quella del sole che effonde il suo calore. L'opera d'arte non ha secondi fini, è solo un'occasione per rinascere dentro noi stessi e farci stupire del miracolo della vita. A questo scambio e a null'altro occorre la trasmissione del pensiero…ciascuno tenta di capire se stesso, il proprio mistero…” Conosco il valore delle analisi di F.C., conosco l’affascinante proposta del tema del mithos, l’evocazione degli archetipi, delle radici che non sono nella storia, ma nella patria interiore e le cui origini non si trovano all'inizio della storia dei tempi, ma stanno fuori dal tempo, ed è per questo che sono sempre attuali: sono ricerca ed espressione dell'universale che è dentro noi stessi e che non può essere avvilito ai livelli del pubblico consenso o dissenso, dell’opportunismo, moralismo, estetismo ..e via di seguito, o del rigore astratto dell’analisi razionale.
    Già: il critico per essere tale, deve essere un artista e Franco lo è nella sua interezza.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Cara Maria Grazia, mi sento compreso nel profondo e ti sono immensamente grato. Il tuo commento mi fa sentire a casa. La "dichiarazione forte, decisa" cui ti riferisci è stata depennata su mia richiesta dal patron Nazario Pardini, in quanto facente parte di un altro mio scritto. Era comparsa - non so come - per puro sbaglio in coda al presente articolo: misteri telematici (per me il p.c. è e resta un alieno). Mi fa comunque piacere che tu ne abbia colto la valenza polemica: fa parte di me, del mio mondo spiritualmente irritato da tanta arroganza intellettuale. Grazie.
      Franco Campegiani

      Elimina
  2. "...l'arte, da sempre, nasce nella nostra mente quando vi fa irruzione una visione esaltante, capace di illuminare, in positivo o in negativo, il valore della vita. Ed è questa l'essenza del mito: di quel racconto - così dicono i dizionari - che rivela l'origine della vita e direttamente conduce al mondo degli archetipi, dei principi. E' da lì che sgorgano i miti, da quella mente extrarazionale, depositaria di sapienze superiori, universali, che da sempre (anche se oggi non più) i poeti e gli artisti hanno chiamato Musa...";
    "...Se l'arte è questo, qual'è il ruolo del critico e quale la funzione del suo lavoro interpretativo? Indubbiamente quello di rintracciare nell'opera i segni di quell'ispirazione e di quella sapienza che, illuminando il mistero, hanno il ruolo di ri-cordarci (riportarci al cuore) qualcosa che ci riguarda...";
    "...I linguaggi creativi vengono dal cuore della creazione universale, per cui il mithos non è altro che l'auto-rivelazione del logos negli orizzonti dell'intelletto umano...";
    "...Il poeta non parlerà mai del mare o del vento, ma lascerà che sia il mare stesso, o il vento, a parlare attraverso la sua scrittura...".
    Mi scuso per il 'copia-incolla', ma chiedo: c'è bisogno di aggiungere altro a queste illuminanti e incontrovertibili dichiarazioni di Franco Campegiani sul senso di fare arte?
    "Il lavoro del critico" - dice, in sintesi, l'amico - è il lavoro del poeta: non esiste alcuna differenza. Ho letto "Il Tutto e il Nulla" del Maestro - perché tale era - Bruno Fabi (è stato Franco stesso a farmene dono) e la sua conclusione sull'opera artistica e critica - qui riportata - è esemplare. Campegiani, non solo l'ha fatta propria ma è riuscito ad ampliarla. E oggettivamente (nel senso di universalmente) ha realizzato un altro capolavoro, confermando che quanto asserisce è vero.
    E' prossimo ad uscire il suo saggio: "Ribaltamenti": non perdetelo!

    Sandro Angelucci

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Sandro, è un grande piacere, oltre che un onore, trovarmi in questa pagina da te fraternamente affiancato. Quante volte abbiamo conversato su queste tematiche, e su molte altre, trovandoci sostanzialmente allineati! Ti ringrazio per la vicinanza. Ci siamo incontrati navigando in modi del tutto autonomi verso la stessa direzione.
      Franco Campegiani

      Elimina
    2. Leggo sempre volentieri Franco Campegiani, perché la sua scrittura ha il pregio di non essere mai banale; anzi è pensosa, acuta, fervida e generosa. E si muove -specialmente in ambito filosofico- sui binari di una logica rigorosa e stringente (però mai fredda e asettica), perché il pensiero è severamente -ma anche serenamente- piegato alla riflessione. È molto convincente questo suo contributo che condivido in tutte le sue parti, in particolare laddove si discute dell’arte e, poi, dell’essenza, del ruolo e del lavoro del critico: e penso che ciò accada perché anch’io ho scritto un po’ di pagine -che ora scopro consonanti- su alcuni degli argomenti brillantemente trattati da Franco. Al quale faccio di cuore i miei complimenti.
      Pasquale Balestriere

      Elimina
  3. E' con vera gioia, Pasquale, che accolgo questo tuo contributo. Ne sono lusingato. E' raro ed esaltante ottenere la condivisione di un poeta e critico del tuo valore. Mi piacerebbe leggere le pagine consonanti alle quali accenni, anche se avevo già intuito la tua vicinanza di pensiero.
    Franco Campegiani

    RispondiElimina
  4. Quale meravigliosa interpretazione del ruolo tanto controverso del 'critico letterario'! Mi hai chiarito molti aspetti di questo modo di approcciarsi alla letteratura e alle altre arti senza sconfinare nell'interpretazione. In un libro che hai letto recentemente e che, per caso, ho letto prima di te, si parlava del diritto all'autodeterminazione e del principio di verità. Nel leggerti ho ripensato alle parole del professore di filosofia del romanzo. Non si può attribuire agli altri i nostri pensieri. Sarebbe esattamente come parlare del mare attraverso il vento, mentre, come asserisci: "il poeta non parlerà mai del mare o del vento, ma lascerà che sia il mare stesso, o il vento, a parlare attraverso la sua scrittura".
    Una rivoluzione che evita la massificazione esistente. Tutti si inventano critici letterari ed eludono i due aspetti che ho citato e che tu hai trattato in modo a dir poco esaustivo. Dovremo evitare di 'riscrivere' un testo, ma attuare con esso un transfert... Purtroppo il piedistallo rappresenta un'attrazione irresistibile e nel dare il proprio parere su un'opera si vive il delirio di onnipotenza, la tendenza all'autoreferenzialità. E si perde il senso del 'mito', dell'archetipo che ha dato origine ai concetti che leggiamo. Una grande lezione di umiltà la tua e un breve trattato didattico. Occorre prendere le misure di se stessi e attenersi al vero. Grazie infinite Franco. Ti abbraccio.
    Maria Rizzi

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Equidistanza sia dall'anarchia interpretativa di chi attribuisce a un autore i pensieri che vuole, sia dalla presunzione dottrinaria di chi si attiene a canoni incontrovertibili di valutazione critica. Cara Maria, come è accaduto altre volte, tu hai il potere di chiarire meglio di me i miei pensieri. Soggettivismo e oggettivismo non colgono l'universale che vibra in ciascuno di noi. Solo il transfert può avvicinare un lettore all'opera d'arte e, più in generale, un uomo a un altro essere umano. Grazie a te per il tuo contributo.
      Franco Campegiani

      Elimina
  5. Una verità assoluta la tua concezione dell'arte e della funzione del critico: la libertà, la sensibilità, la preparazione, il sentimento, l'oggettivazione dell'anima, l'irrazionalità, l'esplosione superba di un io còlto da sensi di vertigine, e la ri-creazione: dopo una lettura il critico la fa sua l'opera e la rigenera col suo sangue. Non si può essere obiettivi in maniera eliotiana. Si può essere obiettivi solo di fronte all'universalità di un teorema la cui soluzione secondo me non esiste dacché è base e fine di una ricerca perpetua ed eterna. Se esistesse la soluzione non ci sarebbe più lo stimolo umano a perseguirla. Cosa che si fa molla e spirito, alimento di un percorso vòlto ad un'isola che non c'è. E questo è il Bello dell'Arte: un continuo andare che dà segno del nostro magro esserci ma al contempo la coscienza di farne parte come pedine.
    Ho letto due volte il tuo articolo che imbambola come contenuto e come forma; quel tuo stile che sempre ho apprezzato e che pochi possiedono: contenuti forti con linguaggio mansueto e docile che ti agguanta e ti accarezza l'anima.

    Nazario

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Carissimo Nazario, devo ringraziarti due volte. La prima per avere dato spazio al mio pensiero in questo blog letterario che definirei di "classica avanguardia", gestito con così inestimabile apertura. La seconda per la condivisione esaltante e lusinghiera che mi esprimi. L'universale esiste e non esiste. Verso di esso ci sentiamo irresistibilmente attratti, ma nessuno può afferrarlo con gli artigli delle sue dita. E' il mistero in persona. Balena nelle opere d'arte, senza poter essere contenuto in alcuna formula espressiva. Mi trovo totalmente a mio agio nelle mura domestiche da te edificate.
      Franco Campegiani

      Elimina
  6. Ti ringrazio molto, carissimo Franco, degli innumerevoli spunti che ci concedi per riflettere sul ruolo degli addetti ai lavori, dei critici d’arte. E’ sacrosanto il tuo dire. Corretto e serio è “il critico” che “non può sparare sentenze, non può spendersi in stroncature o in elogi sperticati, ma può solo restituire la risonanza spirituale che una determinata opera ha provocato dentro se stesso, se ovviamente questo è accaduto”. Sono fermamente convinta che l’arte sia una manifestazione dell’interiorità emozionale dell’uomo e non può che apparire con il solo scopo di dare forma alle emozioni dell’artista, ma anche del critico. Da qui l’altra verità: “chiunque legga un'opera, vi si deve immergere come fosse lui a riscriverla daccapo”, con l’idea che è sempre il dubbio a muovere le cose. E il dubbio porta alla ricerca, alla conoscenza.
    Sonia Giovannetti

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Carissima Sonia, questo tuo intervento mi rende sommamente felice. Siamo impegnati, come giurati, in avventure letterarie comuni, e constatare questa sintonia di vedute è incoraggiante oltre ogni dire. Conosco il tuo talento letterario e, da poetessa e scrittrice quale sei, non puoi che essere proiettata verso una visione interiore dell'arte e della vita. L'interiorità è dubbio e fede congiunti tra di loro.
      Franco Campegiani

      Elimina
  7. Aggiungo un mio commento a quello di voci più esperte della mia soltanto perché in me “è accaduto” ciò che può succedere dopo avere letto un’opera d’arte. Mi sono totalmente immersa nelle dichiarazioni interessanti e intense di Franco Campegiani sul significato dell’arte e il conseguente lavoro del critico;
    una lezione per me che sto muovendo i primi passi nel mondo spietato e spesso polemico della critica. Un ambito affascinante del quale intuisco vastità immense e altrettante possibilità di sbagliare.
    Il rischio di “sparare sentenze” di “spendersi in stroncature o in elogi sperticati” è sempre dietro l’angolo e ben più impegnativo è invece immergersi così profondamente nell’opera da riuscire a farla “risorgere attraverso uno specchio interpretativo”. Forse ciò che alla fine conta, nell’arte come nella critica, è l’onestà con se stessi e il proprio sentire, è la necessità di essere veri e liberi nell’espressione del proprio pensiero se è vero, come è vero ciò che suggerisce Franco, che l’opera d’arte non dovrebbe avere “secondi fini” ma essere “solo un’occasione per rinascere dentro noi stessi e farci stupire del miracolo che è la vita”.
    Grazie Franco, cercherò di fare tesoro delle tue parole.

    Annalisa Rodeghiero

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie a te Annalisa, per queste tue considerazioni preziose. L'onestà con se stessi è fondamentale nell'arte e nella critica, così come è imprescindibile nella vita. La ricerca dell'universale che è in noi, senza offendere il particolare che noi stessi siamo, non è che un altro modo per definire quel dialogo interiore il cui ruolo è di rendere autentico l'essere umano.
      Franco Campegiani

      Elimina