TANTO VALE VIVERE: “UN
LIBRO CHE NON C’ERA”
“Chi frequenta Natale Luzzagni per la sua
attività, e i suoi interessi più evidenti, si sarebbe aspettato che il primo
libro da lui scritto riguardasse il mondo dell’arte pittorica, del quale è
profondo appassionato e conoscitore […] Chi ha stretto con lui anche un
rapporto umano d’amicizia, sa che l’altro possibile argomento sarebbe stato
l’amore […] invece, rispetto all’arte e all’amore, in questo volume troverete
tutt’altro […] Il meno sorpreso tra tutti, ad ogni modo, è stato forse il
sottoscritto […] Conosco abbastanza Natale e non c’è stato bisogno di alcuna
spiegazione affinché io comprendessi, in un attimo, che il suo vero interesse
non erano le ragioni nascoste dentro e dietro le morti, ma quelle presenti nei
respiri, sussulti, singulti degli animi viventi.”
È l’incipit, dell’impeccabile e acuta
prefazione all’opera, di Stefano Valentini, il quale mette subito in chiaro che
Tanto vale vivere – lungi dall’essere
un resoconto – è un libro, un testo letterario nuovo e originale per un’unica,
imprescindibile ragione: vede le cose da una prospettiva diversa. Dove – per il
senso comune – il contrario della normalità è l’anormalità; qui l’anormale
assume la connotazione di speciale, straordinario, non massificato.
È l’insieme: la vita intera (comprensiva
della morte) ad essere presa in considerazione; ascoltate come, e con quale
efficacia, il critico padovano rende metaforicamente il concetto: “Se Luzzagni
si interroga su come un ramo d’improvviso si spezza, su dove possa ravvisarsi
il punto di rottura, è perché gli interessa il ramo nel suo insieme, non
soltanto il punto in cui ha ceduto.”.
Trovo magnifica l’allegoria: chi,
davvero, quotidianamente saggia la vita non può non sapere cos’è la morte;
viceversa, chi non vive, lasciandosi andare, facendosi trasportare dalla
corrente, non conosce né l’una né l’altra. Ecco perché questo lavoro è
importante: è la dimostrazione che prendersi cura della privazione più grande,
di cui ci si possa fare carico, è provare – senza se e senza ma – che il dono,
la ricchezza e il bene è uno soltanto: la vita.
E bene fa Stefano, ancora, a definire un
inno alla stessa questo encomiabile debutto letterario di Natale. “La
letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta” (da Il poeta è un fingitore di Ferdinando
Pessoa), si legge nella citazione riportata sul finire de Buio: l’ottimo prologo a firma dell’autore stesso, che si conclude
con l’apporto di una poesia, di Martha Madeiras, Lentamente muore, della quale, se non altro, voglio segnalare i
primi versi; quelli che confermano le verità di una visione anticonvenzionale
della realtà come è giusto debba essere considerata quella di Luzzagni:
“Lentamente muore / chi diventa schiavo dell’abitudine, / ripetendo ogni giorno
gli stessi percorsi, / chi non cambia la marcia, / chi non rischia e cambia
colore dei vestiti / chi non parla a chi non conosce.”.
Quella che s’incontra in queste pagine è
una pluralità di voci: “Qui ci sono voci, tracce, storie, istanti, parole e
numeri appartenenti ad esistenze uniche – scrive il Nostro – ed a lui sembra
rispondere ancora Valentini (v. quarta di copertina) immedesimandosi
nell’amico: “potevo esserci io, al posto tuo (al posto di qualunque dei
cinquantasette autori presentati), forse con meno talento ma altrettante
domande, perché la vita di chiunque è un susseguirsi d’interrogativi e chi si
suicida, semplicemente, sa darsi meno risposte, o forse invece qualcuna di
più.”.
“Meritano tutta la delicatezza di uno
sguardo benevolo” questi scrittori e scrittrici: la meritano in virtù di quanto
detto finora; perché è sbagliato e presuntuoso fissare disuguaglianze non solo
tra vita e vita ma anche tra morte e morte, sentenziare ed ergersi a giudici in
ambito morale; perché – come canta Fabrizio De André per l’amico Tenco –
“Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte / ai suicidi / dirà baciandoli alla
fronte / venite in Paradiso / là dove vado anch’io / perché non c’è l’inferno /
nel mondo del buon Dio.”.
“L’assunto moralista contiene in sé il
bisogno essenziale di separare quello che è assolutamente giusto da quello che
non può essere perdonato – scrive ancora Natale –. Gli stessi suicidi, quelli
che aderiscono all’idea che il peggio è per chi resta, hanno l’istintiva
premura di chiedere scusa ed invocano la benevolenza dei viventi.”.
Ma il motivo fondamentale per cui costoro
sono degni della più completa, fiduciosa attenzione è un atto altruistico, è il
primo passo per arrivare ad amare sul serio. Si obietterà: chi si toglie la
vita non sa volersi bene; ecco, questa è la classica conclusione cui giunge chi
nulla fa per non cadere nella trappola del luogo comune e del giudizio
aprioristico, acritico e superficiale. Non è vero che il suicida non si ama a
sufficienza: non appaia paradossale ma egli, al contrario, si ama troppo; si,
troppo per sopportare di non sentirsi amato.
Neppure uno, degli autori antologizzati,
contravviene: a ben vedere, ciò che li induce ad optare per la scelta estrema è
costantemente una carenza affettiva – da parte dei loro simili, però,
attenzione – nei confronti di chi non riesce a sostenere il peso di tale
mancanza.
Persino quelli che sembrerebbero i più
sicuri, i più fedeli, i più vocati e addirittura più attratti dal vigore
esistenziale tradiscono poi i segni dell’impazienza, della ribellione. Penso
all’affermazione di Carlo Michelstaedter: “Né alcuna vita è mai sazia di vivere
in alcun presente che tanto è vita e si continua nel futuro quanto manca del
vivere. Che se si possedesse qui tutta e di niente mancasse, se niente
l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d’esser vita” (pag.
64), quasi sconfessata – e confermata – dalla lettera alla madre (testualmente
riportata a pag. 68) in cui molti hanno visto e ravvisato l’annuncio di farla
finita all’età di soli ventitre anni. Penso allo scrittore e saggista
statunitense David Foster Wallace che scrive: “Io sono decisamente antimorte.
Dio sembra essere sotto ogni profilo promorte. Non vedo come potremmo andare
d’accordo sulla questione lui ed io” dopo aver espresso quest’altro pensiero:
“Sono tremendamente spiacente di importunarla. Posso ripassare. Mi stavo solo
chiedendo se in un Programma speciale ci fosse una preghiera per quando ci si
vuole impiccare” (pag. 172). Mi viene in mente la Cvetaeva, che così immagina
di rivolgersi ad un ipotetico passante, che si ferma davanti alla sua tomba: “Strappa
uno stelo selvatico per te / e una bacca – subito dopo. / Niente è più grosso e
più dolce / di una fragola di cimitero. // Solo non stare così tetro /…. / Con
leggerezza pensami, / con leggerezza dimenticami.”, rafforzando l’idea (da lei
stessa sostenuta) di non voler morire, semmai di voler
non essere.
Sono soltanto tre delle storie – ciascuna
per suo conto – straordinarie contenute nell’opera: un libro, tra l’altro,
interessante anche per costrutto: per prime, presentate le storie; poi, i casi
inevitabilmente ancora avvolti nel mistero; quindi, la lunga serie dedicata
alle Parole e ai Volti e – per finire, come in un album fotografico – le
Istantanee. Tutto, a dimostrazione di una cura certosina nell’impostazione e
nell’interpretazione di un lavoro fuori dagli schemi precostituiti.
Per concludere, mi piace tornare alle
ragioni, al perché della scelta dell’ambito letterario: lo esprime – in modo
chiaro, inequivocabile lo stesso Luzzagni – “Poeti e scrittori, nel loro
processo contemplativo sono completamente soli […] La parola è una dotazione
essenziale in diretta connessione con il proprio mondo interiore; è uno
strumento simbolico che richiede una misura attenta […] Le parole costringono
ad una capacità sintetica che è essa stessa il distillato di uno spirito strabordante…”.
Tracimante, appunto, come la sensibilità di un suicida, troppo spesso e
banalmente identificato con l’eroe o con il debole; quando di prodi e
vigliacchi è pieno il mondo.
Non ci vuole né audacia né viltà per avere
la certezza che – comunque vada – tanto
vale vivere.
Sandro
Angelucci
Natale
Luzzagni. Tanto
vale vivere. Venilia Ed. Padova. 2016.
Pp.322.
€
18,00
Cercherò il libro di Luzzagni, incuriosito come non mai da questa nota di Angelucci. Il moralista ha il difetto di guardare sempre fuori di sé, sputando sentenze a destra e a manca, senza mai guardarsi dentro. Moralità è fare i conti con se stessi, moralismo è pretendere di modellare squallidamente il mondo a propria immagine. Ognuno è o dovrebbe essere il padrone incontrastato di se stesso e nessuno può sapere fino a che punto il suicida sia un traditore o un fedele servitore di se stesso (del proprio spirito, intendo). Di sicuro è un uomo ricco dentro, dotato di abissali profondità interiori, e questo dovrebbe farci avvicinare a lui con grande rispetto, oltre che con la volontà di apprendere qualche lezione di vita salutare.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Se le fa piacere lo spedisco da Padova. Basta chiamarmi al 338/5865311. Ringrazio sentitamente Sandro Angelucci e Nazario Pardini per questa lieta sorpresa. Davvero grazie…
EliminaNatale Luzzagni