Adriana Pedicini, collaboratrice di Lèucade |
Recensione
di
Adriana
Pedicini
A
chi appartieni
Ettore
Scola -Trevico
Di
Giuliana Caputo-Mariangela Cioria
Non
si può parlare di Ettore Scola se non partendo da un simbolo, vale a dire un
sontuoso albero di tiglio, simbolo di Trevico, paese natìo del noto regista
cinematografico. Simbolo ben raffigurato nella foto, che occupa una delle prime
pagine del libro. IL tiglio è allo
stesso tempo memoria e speranza per gli abitanti del piccolo paese situato tra
i monti dell’Irpinia, descritto dettagliatamente nel libro citato.
“ciò
che maggiormente piaceva ai due fratelli (Pietro ed Ettore Scola trasferitisi a
Roma da bambini)) erano le serate fredde e nevose dell’inverno, trascorse
vicino al caminetto con nonno Pietro che raccontava le storie dei briganti e le
leggende. Ricordavano spesso con nostalgia anche quel giorno in piena estate in
cui il nonno li aveva portati vicino alla Cattedrale lungo via Roma ad osservare un bell’albero di
tiglio”.
Ecco il simbolo del paese di
cui si narra nel libro fin nei minimi particolari. Simbolo ben raffigurato
nella foto, che occupa una delle prime pagine del libro, del dott. Vito Isidoro
Calabrese De Feo, un vero appassionato di fotografia, autore anche di un
catalogo intitolato Cento scatti a Trevico e..venti altrove pubblicato nel
2006.
Il
tiglio, come altrove la quercia, ritenuto sacro dai popoli slavi, simbolo delle
forze invisibili della natura, ma anche della coesione sociale, nei suoi mille
anni di vita è il testimone più accurato delle decisioni prese in piazza sotto
i suoi folti rami sulle questioni comuni, come anche per amministrare la
giustizia, cosa che avveniva presso i popoli germanici perché si pensava che
sotto le sue fronde fosse difficile mentire e che le sue proprietà ispirassero
serenità e giudizio. Longobardi. Sempre sotto il tiglio si praticavano le
contrattazioni commerciali.
Tale
considerazione per il tiglio si consolida anche nelle popolazioni meridionali,
forse ad opera dei Longobardi.
Un
intrecciarsi di miti, usi, simboli che attraverso questo albero secolare offre
una particolare spaccato delle tradizioni locali, sempre oscillanti tra
evoluzione e ritorni al passato, tra voglia di cambiamento e nostalgia.
Ma non sono i particolari,
ricercati sicuramente con attenzione da Mariangela Cioria attraverso la memoria
vivente degli anziani o attraverso i documenti, che danno valore alla
narrazione, bensì il senso generale del recupero della memoria quale terreno
fertile per costruire o ricostruire le radici di un passato da cui sono nati
meravigliosi frutti. Non si tratta di
sapere come si viveva, di che cosa ci si nutriva oppure quali mestieri si
praticavano, quanto di perpetuare il senso di riti e miti, come il valore sacro
del rispetto reciproco, il gusto del desco condiviso, il conforto reciproco in
fatiche spesso disumane, il sostegno spontaneo nelle immancabili disgrazie
della vita.
Sicché
possiamo dire che la biografia romanzata così capillarmente creata da Giuliana
Caputo rappresenti non la realtà di quanto ci si aspetta di ascoltare o di leggere,
ma la sua metafora, vale a dire tutto ciò che è sedimentato nella memoria,
tutto ciò che si riscopre avendolo immaginato, tutto ciò che è potuto accadere
o anche se non è accaduto non è lontano dal senso generale delle cose. Direi
che allora questo volumetto ha un pregio storiografico, secondo l’insegnamento
dello storico Tucidide, che ammoniva a non cercare con il lanternino se i fatti
accaduti corrispondessero a quanto scritto o descritto ma a coglierne il senso
generale. Solo in questo senso la storia poteva essere uno ktema eis aiei, un
possesso perenne.
E
dunque emerge dalla descrizione il ritratto di un paese povero, ma forte, umile
e orgoglioso al tempo stesso, sottoposto ai travagli della sorte, ma con la
caparbia volontà di riemergere. Nessuno ignora le devastazioni della guerra,
benché avvertita, come lontana, come mirabilmente descritto nella storia di
Rocco, ricca di pathos, la piaga della
povertà, il fardello dell’emarginazione inutilmente scrollata di dosso nei
viaggi della speranza di migliorare altrove le condizioni di vita.
Ben
ce lo racconta Ettore Scola nel film-documentario Trevico-Torino del 1972/3,
proiettato nelle piazze di tutta Italia, in cui si evidenziano i disagi
concreti, il senso di smarrimento e di alienazione, di frustrazione per la scarsa
o nulla considerazione del protagonista da parte della gente del posto e
l’enorme nostalgia della propria terra. Difficoltà tutte aggravate da un mezzo
di comunicazione quanto mai oscuro ed emarginante quale doveva apparire ai
torinesi il dialetto irpino. Sicché il rischio è la perdita dell’identità.
La
conseguenza di ciò per molti emigrati soprattutto della classe operaia era la
rivoluzione sempre più vagheggiata, per altri un difficile e umiliante
adattamento a realtà sentite come estranee, per altri il ritorno al paese natìo.
Paese perfino bistrattato da scelte politiche
inopportune, che però ha temprato generazioni e generazioni di individui che,
una volta allontanatisi con fortuna, hanno portato in giro per il mondo il
tratto della loro identità formatasi tra qui monti e quelle valli. Una forma
mentis che non si cancella mai, neppure con l’andar del tempo, anzi trasferisce
nelle nuove vite e nelle nuove realtà di appartenenza quelle tracce antiche che
saranno i motori propulsori dell’impegno tenace, della creatività originale, in
una parola del segno di provenienza da terre dure, granitiche e non facili a
soccombere. Forse chiamiamo pazienza questa qualità, che è un po’ il segno
distintivo della gente del sud, che ad altri sembrerà inclinazione alla
sottomissioni, all’essere proni a qualcuno, è invece l’atteggiamento filosofico
che proviene da antiche scuole che dall’antica madrepatria trasferì nel meridione
d’Italia la sapienza greca.
A
ciò si aggiunga, come evidenziato in precedenza, la capacità di accogliere,
accettare, condividere, il senso di altruismo e generosità gratuiti ravvisabili
non solo nella povera gente per una sorta di comunanza di condizione, ma anche
nei nobili, come Don Giuseppe, il papà di Ettore e Pietro Scola, medico
condotto che non esitava ad accorrere gratuitamente, laddove il bisogno lo
chiamasse per un parto improvviso, o per l’aggravarsi di una salute malferma.
Sicché tutte le scelte che indirizzavano l’educazione dei propri rampolli erano
nel senso del rispetto, della relazione umana inclusiva, come leggiamo in un
altro passo di questa bella storia...donna Dina che sostiene moralmente e
materialmente una ragazza madre, da tutti additata come la peccatrice.
Ma
non è facile tirar su i figli e forse non lo fu neppure per il dott. Giuseppe
che avrebbe voluto che la sua professione fosse seguita dai due figli
maschi. Ma Ettore, al contrario di
Pietro, non voleva saperne, attirato com’era da altri interessi che trovavano
la leva principale nella sua fertile curiosità. Probabilmente fu proprio lo
spirito di osservazione già avanzato per la sua età che gli fece cogliere con
puntualità le differenze, gli aspetti reconditi, le particolarità di un
ambiente semplice come quello di Trevico che a confronto con la città, prima Benevento
dove la Famiglia Scola si trasferì per breve tempo, poi Roma in cui venne
definitivamente catapultato, lo orientò verso il cinema, linguaggio a lui più
consono per comunicare così come il fumetto satirico a cui si dedicò bene
presto. Si immedesimò dunque Ettore
nella vita, nelle vite e prese a raccontarle da regista scrupoloso, mentre su
altri binari un oriundo irpino dava luogo alle fantastiche avventure di
spaghetti western, Sergio Leone.
Le
vicende si ingarbugliano, la vita procede con i suo alti e bassi, ma ormai la
carriera di Ettore aveva spiccato il volo e si avviava a raccogliere
riconoscimenti meritati e statuine d’oro.
Ma
Trevico non scivolò mai dal suo cuore.
Per essa un atto d’amore, con il beneplacito di Pietro e delle stesse
figlie di Ettore decise a far crescere nel paesino irpino, il più altro
dell’Irpinia, la pianta della cultura e l’amore per il cinema, con la donazione
al Comune della casa gentilizia, trasformata in un centro attivo per convegni e
incontri culturali, secondo le disposizioni testamentarie del dott. Giuseppe,
padre di Ettore.
Ma
con la clausola che la dimora non fosse conservata “come un museo o un
ossario-soggiunse Ettore in un incontro con rappresentanti culturali del Comune
qualche mese prima della sua dipartita ma “uno spazio di aggregazione di
giovani e anziani per conservare le tradizioni, con una biblioteca, una sala
computer e una sala conferenze”, invitando da ultimo i giovani a considerare
casa Scola come casa loro.
Era
staio programmato un evento che celebrasse a maggio appena trascorso il suo
ottantacinquesimo genetliaco proprio nella sua abitazione d’origine. Il destino
ha disposto altrimenti. Rimarranno i suoi film a perpetuarne il ricordo.
Ma
il fatto che noi siamo qui riuniti per celebrare Ettore dimostra che il programma ideale affidato alla sua
gente continuerà nel tempo, solo se sapranno con la stessa curiosità che animò il Nostro e con la stessa disposizione mentale aprirsi al confronto,
all’accoglienza, all’arricchimento anche attraverso l’altrui esperienza.
Adriana Pedicini
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