Serenella Menichetti, collaboratrice di Lèucade |
LA SURARNITE
La "surarnite" termine coniato da mio padre, per
denominare la voglia di scappare “surarno” (sull'Arno) era la malattia che
assaliva Sara e me, subito dopo pranzo:
l'adrenalina saliva come la colonnina di mercurio di un termometro, sulla pelle
di un febbricitante. Il sintomo
consisteva in un pizzicorino che prendeva
l'intero corpo. Uscivamo di casa
promettendo di recarci da Anna per i compiti, invece, scalavamo l'argine scivolando dalla parte opposta. Ai lati di un viottolo sterrato: si
estendevano campi coltivati a vite. In cima folti canneti,
celavano fiume e panorama. Bastava oltrepassarli per ritrovarsi davanti, uno
scenario incantevole. Proprio in quel punto, iniziava il nostro fantastico
mondo. “Promettimi
di non andare surarno” l'ammonimento di
mamma: pur scivolandoci addosso come l'olio, risuonava nell'aria simile a nota
stonata in un concerto. Da tempo, la mia amica Sara ed io, avevamo
progettato di recarci quotidianamente sull'argine, per fare incetta di canne e foglie secche, atte
alla costruzione di un rifugio segreto.
Mano a mano che ci avvicinavamo all' Arno, la voce di mamma e il senso di colpa
si allontanavano, per disperdersi nel flusso acquatico. Libere, mordevamo quegli attimi di sogno, come
d'estate: la succosa e rossa polpa di cocomero.
Chissà per quale motivo dopo ben quarantacinque anni il ricordo di
quell'episodio: serie “Surarnite story” si affaccia improvvisamente alla
finestra della memoria. Forse sarà stato il profumo dell'erba appena tagliata,
oppure il folto canneto incontrato nel recarmi alla biglietteria del lago, per
l'acquisto dei biglietti per la Butterfly.
Seduta su una panchina di fronte al lago, lascio che il ricordo
fluisca in tutto il suo percorso. La prima immagine è quella di due ragazzette
di undici anni, con una voglia pazza di avventura, che trascinano
canne tagliate, giù in spiaggia, sopra i ciottoli di fiume.............Quando ne avemmo un discreto numero,
le unimmo passando tra l'una e l'altra: una corda a mo' di tessitura. Dopo
svariati tentativi sostenuti da grande
determinazione, riuscimmo a mettere in verticale la parete, a cui demmo forma
circolare. Sara con voce intrisa di orgoglio disse -Ecco pronto il nostro
piccolo tucul-Io specificai -quasi tucul, non vedi che manca ancora il tetto?-
O che ci vole, basta un po' di paglia! Te la fai sempre difficile, rispose la
mia amica.
Presto ci rendemmo conto, che prima di montare il tetto, sarebbe occorso un lavoro
di pareggiamento della base superiore: le canne di diversa altezza formavano
dei merli irregolari. Ricordo che dopo
varie discussioni sul come poter ovviare al problema decidemmo di prenderci una
pausa di riflessione, da consumare sull'isolotto in mezzo all'Arno. Era la prima volta che ci accingevamo a farlo
da sole.
Ci togliemmo le scarpe,tenendo con le mani l'orlo della gonna fin
sopra i fianchi, per non insaccherare il vestito. Ricordo ancora la scomoda
sensazione, e il disappunto di non aver potuto indossare i pantaloncini.
La gita all'isolotto, per molte famiglie di Cascina, rappresentava
una piacevole consuetudine estiva. Si partiva carichi di vivande: immancabile
la mitica zuppa di cavolo, posta nella zuppiera, a sua volta imballata nella
tovaglia, che mamma trasportava con
cura. Mio padre, teneva invece, la cesta di vimini: contenente il beveraggio e
un cocomero, appena tolto dal pozzo.
Il tum tum del cuore, al momento del guado, faceva a pugni, con
l'espressione fiera e coraggiosa, da me, indossata, per celare la paura. Il
pensiero che aveva scatenato quel sentimento, riguardava un tragico fatto,
risalente a qualche mese prima. Sicuramente pure da Sara condiviso. Procedevo
comunque imperterrita, lei, mi seguiva con cautela.
-Meglio morire da temeraria che vivere da codarda- Mi dissi.
Quel motto, entrò in circolo, irrorando tutto il mio corpo del
coraggio di cui avevo bisogno. Avevamo quasi raggiunto la meta, quando fummo
disturbate da alcune voci. Infastidite ci voltammo: Poco distante dalla nostra
capanna, notammo una schiera di ragazzi che ci chiamava ad alta voce. Non era
nostra intenzione raggiungerli, ma il timore che ci rovinassero la costruzione
fu così forte che ci fece cambiare idea. In pochissimo tempo tornammo alla
spiaggia.
Mio fratello ed i suoi amici, poco più grandi di noi, ci
aspettavano. Mamma ti ha cercato ovunque riferì Lorenzo rivolto a me, sai che
ore sono? Non avevo con me l'orologio, ma dalla esigua luce del sole, capii
dovesse essere l'ora di cena.
Intanto i ragazzi si divertivano a dare calci alla nostra opera.
-Lasciate stare il tucul!
urlò Sara infuriata. Quella frase scatenò
nei ragazzi, un'esplosione di risate. Il “tu tu- cul” non te lo tocca
nessuno, tranquilla, disse Carlo, con voce demente, ed espressione beffarda che
odiai ferocemente. In seguito i calci alla nostra capanna si intensificarono
talmente, da distruggerla. La rabbia e la voglia di vendetta ci giunsero
sottoforma di nodo che si fermò in gola, in attesa di essere sciolto. Purtroppo
il peggio non era ancora arrivato. A casa ad attenderci trovammo i nostri
genitori arrabbiatissimi.
Ci accolse mio padre furibondo, che annunciò di avere per noi, una
confezione di sciroppo di sculacciate. Secondo lui, unico farmaco efficace,
soprattutto se mischiato al divieto di uscita per una settimana, a debellare la
surarnite da cui eravamo
irrimediabilmente affette.
Non andammo “surarno” né il giorno dopo né mai
Anche perché a breve, le vacanze, ci condussero al mare, in differenti luoghi.
Ci lasciammo con la promessa di costruire una nuova capanna. Ma l'anno
successivo con l'entrata al grado superiore di scuola, il tempo per il
divertimento si ridusse. Crescendo cambiarono anche i nostri interessi. E quel
desiderio scivolò sullo scalino più basso, della scala, fino a evaporare in
ricordo.
-Giulia sta per iniziare!- La voce dolce di
Carlo mi raggiunge per comunicarmi che è giunto il momento, di prendere posto a
teatro. Lo guardo e mi rendo conto di
quanto lo scorrere del tempo, meriti il guinnes dei primati di mago: per le
inverosimili trasformazioni, che esso riesce ad operare.
Serenella Menichetti
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