BREVI CENNI SU ALCUNI TEMI
RICAVATI DA
IL FUOCO E IL VERBO
di
Milica Jeftimijević
Lilić
Affrontare la
vasta, variegata e politematica poesia di Milica
Jeftimijević Lilić si prova imbarazzo,
difficoltà, sconcerto, nonché un sacro timore, perché si ha davanti un autentico
monstrum della Poesia nella sua più ampia e completa espressione e
comprensione. La poetessa serba entra di diritto nell’ampio panorama dalla
poesia mondiale e vi accampa un posto di considerevole rilievo, come ha, e
giustamente, notato la critica, anche la più esigente, che a più riprese si è
interessata della sua vasta produzione. Tra le tante voci, che formano il
grande coro, il vasto panorama della Poesia mondiale, quella di Milica è, senza
ombra di dubbio, notevole e di grande impatto sul lettore, anche a prima vista.
La grandezza del vero Poeta e
della grande Poesia si avverte subito, a fior di pelle: basta leggere pochi
versi di una lirica, anche scelta a caso. Il poeta, infatti, quando scrive e
l’ispirazione gli sorride, non verga sul foglio parole vuote, alla rinfusa,
senza avere chiaro nella mente il messaggio da veicolare al lettore, le
emozioni, che intende suscitare, le riflessioni, verso le quali convogliare la
complessa psiche del fruitore. La scrittura di Milica, lontana da fronzoli e da
ogni preconcetto, che, di solito, si ha della Poesia, è piana, semplice, comprensibile,
anche quando tratta temi impegnati e impegnativi sotto il profilo culturale
sociale morale teologico. Nella lunga e paziente riflessione, che precede ogni
lirica, Milica rifugge dal linguaggio aulico, altisonante, roboante, tipico di
quanti si credono poeti. Il vero Poeta non è un povero e illuso imbrattacarte,
perché è cosciente della sua missione paideutica all’interno della società,
nella quale opera. Alla doctrina, la cultura sottesa a ogni singolo
componimento, la Poetessa cela abilmente il lungo e faticoso labor limae,
il paziente lavoro di revisione, di correzione, di rielaborazione. A queste due
peculiarità segue la brevitas, l’esigua lunghezza delle singole liriche.
Queste abilità, già sottolineate e richieste da poeti come Callimaco Catullo e,
in modo particolare, da Orazio, sottendono una cultura ampia e articolata nei diversi
settori dell’attività umana. Se viene a mancare una di queste peculiarità, non
c’è vera e grande Poesia, ma solo una serie di lessemi più o meno articolati,
che si affannano ad esprimere e trasmettere un messaggio vuoto, morto mentre le
parole scorrono sul foglio.
In seguito alla lettura della
vasta e interessante produzione poetica, bisogna innanzi tutto considerare che
Milica, prima di iniziare la sua attività poetica, si è formata una cultura di
tutto rispetto, degna di essere alla pari di quanti, nel passato, hanno
coltivato il meraviglioso e dolce dono delle Muse. La preparazione è stata lunga,
faticosa, difficile e tutt’altro che conclusa: il vero Poeta, infatti, è sempre
consapevole di essere continuamente nella condizione di apprendere, di trovarsi
impreparato davanti ad argomenti, che esigono studio e approfondimento
particolari. Per il Poeta è sempre valido l’immortale e intramontabile
apoftegma di Solone (fr. 22, 7 D): γεράσκω διδασκόμενος, invecchio e intanto apprendo
ancora. Col trascorrere degli anni e, soprattutto, con lo studio matto e
disperatissimo, come, a proposito di Orazio, scrive Leopardi nello Zibaldone,
il Poeta, con gli occhi spalancati sul mondo, rinasce ogni giorno, ogni
momento, nel quale impara ciò, che in precedenza ignorava. Dopo ogni carme,
come se ne segnasse la fine, Poeta, con la composizione di una nuova lirica
rinasce, diventa un altro, pur continuando ad essere la stessa persona. A tal
proposito si può adattare al Poeta quanto dice Orazio là dove nel Carmen
Saeculare, vv. 10s., parla del Sole e, non senza ragione, osserva: aliusque
et idem / nasceris: sei uguale a quello di ieri, ma diverso, un altro.
Per leggere e comprendere nel
senso più completo la poesia d’una Poetessa di siffatto calibro, bisogna avere
una formazione più che adeguata. Per tal motivo, senza esagerazione, credo che
si attagli molto bene a Milica quanto nel libro IX dell’AP, nel XVI epigramma,
attribuito a Platone, si legge:
«Ἐννέα τὰς Μούσας», φασίν τινες· «ὡς ὀλιγώρως.
Ἢν ἰδέ· καὶ Σαπφὼ Λεσβόθεν, ἡ δεκάτη».
Il testo
greco, reso in italiano, reca: «Alcuni affermano che le Muse siano nove; che
distratti! Ecco, c’è Saffo di Lesbo, la decima».
Per ispirazione, accuratezza, cultura e raffinatezza,
Milica non differisce dall’antica Poetessa di Lesbo, che ancora oggi getta profondi
e inconfondibili riverberi e squarci di luce su quanti si accingono a scalare
le scoscese balze del Parnaso, dove le Muse, guidate da Apollo, hanno la loro
sede. Il colloquio con le Muse non è facile, né è agevole percepire i tenui
sussurri emessi dallo stormire delle fronde, dagli scrosci dei ruscelli, dai sussulti
e singulti, che silenziosi sgorgano dal cuore affranto dalle miserie della vita
terrena. È, questa, la forgia che tempra l’animo del Poeta e lo rende idoneo a
parlare all’Uomo di ogni età, di ogni tempo, di ogni luogo.
A Milica la Natura, insieme con le drammatiche
traversie, che hanno forgiato la sua vita e inciso profondamente il suo animo,
ha concesso a piene mani l’amabile canto delle Muse. E proprio in forza di questo
dono, un unicum, un monstrum per il comune mortale e per la
banale concezione dell’esistenza umana, fondata, per lo più, su un vuoto edonismo,
Milica oggi si può bene ascrivere tra le voci più alte e sublimi della lirica
europea e mondiale.
In queste brevi osservazioni si richiama l’attenzione
del lettore, innamorato della Poesia, su alcune liriche tratte dal recente volume,
Il fuoco e il verbo, edito in italiano nel 2015 da Giuseppe Piacente, a
Corato, in provincia di Bari. Quanti leggono la poesia di Milica avvertono immediatamente
un’intensa emozione, anticipata ed evocata già nel titolo, che allude e include
un vasto e intimo programma di rinnovamento mediante la riflessione sulle
vicende umane, che l’Autrice ha sperimentato, introiettato, assimilato, proposto
con parole semplici, ma pregne di vita e di sussulti. Nel caloroso lavorio
dell’atto creativo, che ribolle nel suo animo come il magma all’interno del
cratere vulcanico, Milica idealmente e fattivamente si allaccia, come credente,
al Verbum, al Verbo di Dio, del quale avverte tuttala potenza creatrice,
evidenziata e cantata, con ben altri toni e altri intenti, nel prologo
giovanneo, cui idealmente si collega e dal quale trae la forza ispiratrice per
la sua Poesia in generale e, in particolare, per questa silloge.
La prima volta il Verbum sul Sinai apparve a
Mosè (Es 3,1,4-17) sotto forma di fuoco, nel roveto ardente. Solo quando
il Profeta si avvicin per osservare da vicino lo strano fenomeno, dal fuoco
proviene chiara e netta la voce del Verbum,che affida al suo servo una
missione di non poco conto: liberare glie Ebrei dalla schiavitù. Non a caso,
quindi, Milica, profondamente imbevuta di dottrina cristiana, nel dare il
titolo alla raccolta ha premesso il fuoco al Verbum, perché, come
il grande Patriarca, anche lei ha la missione di liberare il lettore dalla
schiavitù dell’ignoranza. Il titolo, ancora, permette di dare adito a un’altra
illazione, umana, logica, attuale ogni qualvolta il Poeta si accinge a dar vita
a una nuova creatura: dapprima avverte il fuoco, il calore della
creazione, che gli ribolle dentro e lo sconvolge, e successivamente parla,
mette per iscritto quanto gli urge nell’animo.
Il lettore, ignaro del processo, che precede ogni
composizione lirica, vede e ferma la sua attenzione solo, e unicamente, sul verbum,
sulla parola, sull’elemento sensibile, che trasmette il fuoco interiore. Il
titolo, però, letto solo su quanto accennato, sarebbe riduttivo, se al fuoco e
al verbo non subentrasse un altro elemento, che, sotteso nel roveto ardente,
diviene manifesto solo dopo aver udito il Verbum: l’Amore. Dio parlò a
Mosè, perché mosso da amore per il popolo ebreo, che, schiavo in Egitto, in seguito
alle leggi emanate dal Faraone, rischiava di sparire dalla faccia della terra.
Nel titolo Milica, scientemente, riversa la sua esperienza umana di profuga
liberata, richiamata alla vita dal Verbum.
Come donna, come creatura razionale composta di carne
e di ossa, la Poetessa avverte prepotente, e in tutta la sua grandezza,
l’Amore. Il quale nella sua dimensione più alta, più pura, più armoniosa,
conferisce all’espressione poetica il tocco particolare dell’unicità. La
Poetessa, infatti, è consapevole che se dalla vita dell’uomo si togliesse
l’Amore, nell’animo si spegnerebbe il sole della vita. Milica avverte questa
forza dirompente e, dopo averla privata delle scorie terrene e delle ruvide
croste della sensualità, la presenta in tutta la sua bellezza, in tutta la sua
grandezza, perché nella vita non c’è nulla di più grande, di più bello, di più
potente dell’Amore. È questo elemento primordiale, primigenio, impalpabile e
pur presente come componente essenziale della psiche umana, che alimenta la
passione per la poesia e per la vita. L’amore esplode in ogni verso, permea
ogni lirica in modo così impercettibile, che solo un animo vocato alla Poesia
riesce a comprendere e a percepirne la profonda essenza.
La Poetessa, però, mentre col suo canto, con i suoi
sospiri innalza il lettore verso le sublimi vette dell’amore, gli spalanca, a
un tratto, anche l’immancabile abisso del dolore, provato e sperimentato in
tutta la sua portata. Ma l’animo, forte della sua appartenenza a un genere, che
non si lascia abbattere o vincere, lotta e, con la forza della volontà supera
tutte le avversità della vita, anche se al loro passaggio lasciano tracce indelebili,
ferite sanguinanti, strascichi dolorosi. La Poetessa non annienta il dolore; ci
convive, lo domina, lo piega alla sua volontà, sì che diventa componente
essenziale della Poesia. Sono, tutti questi elementi, le colonne portanti di
un’architettura poetica unica nel suo genere e paragonabile solo alle opere dei
i grandi Poeti vissuti nel passato.
Nella produzione lirica la Poetessa sparge a piene
mani anche l’ironia, che, adoperata con squisita sensibilità e accortezza,
conferisce alla composizione quel tocco umano reale, vivo, palpitante. L’ironia
non si presenta da sé: va colta nella sua sottile e strisciante silenziosità.
È, questa, una componente fondamentale nel tessuto narrativo e poetico, a tutti
i livelli, sotto ogni aspetto; e sovente si trova inaspettata.
Il volume è strutturato in tre sezioni: la prima, Il
fuoco e il Verbo, che dà il titolo alla raccolta, consta di dieci componimenti;
a seconda, Necessità cosmica, contiene undici liriche; la terza, Mentre
la madre respira, è formata da otto poesie. È un libellum, un libricino,
di poche pagine, frutto di non poca fatica e di impegno culturale non
indifferente. Come in altri lavori, anche in questo segue i dettami di
Callimaco, di Catullo e di quanti, sia tra gli antichi che tra i moderni, hanno
tenuto davanti agli occhi esempi così grandi.
Mentre
invito il lettore ad avere una visione completa della silloge, in queste brevi
note, fermo l’attenzione sull’intensa e significativa lirica, Un attimo di verità,
tratta dalla prima sezione:
Finché
sfiorato da una luna spenta
sogni
una riva lontana che non esiste
raggiunta
durante la mia assenza,
io molto
poco ti posseggo,
ma più
di quanto lui possiede me
lui che
trema di desiderio,
per la
gelosia che lo trasforma in belva,
lui che
avverte il senso della minaccia
e per
questo da belva annusa il pericolo e sa:
tu sei
diventato il centro –
mi hai
messa al riparo,
mi hai aspirato in te.
Le
sensazioni, il lamento, la constatazione, la certezza, che intridono questa
strofa della loro drammatica realtà, straziano l’anima della donna, consapevole
del tradimento perpetrato dal suo uomo insensibile alla sua profonda, intima
sensibilità di donna. Il tradimento da parte sia dell’uomo che della donna è un
fenomeno normale, che, per precise scelte soprattutto di ordine morale e di rispetto
personale, non si dovrebbe verificare, perché coloro che contraggono il
matrimonio, un atto d’amore e un istituto di vita fondamentale per l’umana convivenza,
si impegnano reciprocamene alla fedeltà, al rispetto, all’esclusiva donazione
di sé all’altro.
L’uomo,
sotto certi aspetti, è meno sensibile; ha sentimenti più rudi e materiali sì,
che non si accorge se, e quando, la moglie lo tradisce. La donna, invece,
naturalmente dotata di sensibilità diversa e molto più capace nella finzione,
si accorge subito che il compagno la tradisce, l’ha sostituita con un’altra e
vive il cambiamento in tutta la sua ampiezza e con profondo disagio, che
scatena un insanabile dramma nel suo animo. I due mondi, prima fusi dalla
fedeltà e dalla sincerità, dopo il tradimento divergono, diventano giustapposti,
estranei, anche nei momenti più belli e intensi della donazione e della
passione. Si percepisce in questo atto, pur nella meccanicità della sua
naturalezza e nell’abitualità del gesto, il profondo cambiamento, avvertito soprattutto
dalla donna, che con la sua recettività riesce a donarsi senza donare il
fremito insito nella sua femminilità. Esemplare è il distico, nel quale pone in
risalto l’accoglienza, pur fredda, del compagno, che si illude di possedere pienamente
l’amata:
io molto
poco ti posseggo,
ma più di quanto lui
possiede me.
In questa amara consapevolezza la donna vive con
disagio un rapporto ormai unilaterale ed egoista. La Poetessa, e giustamente,
si schiera dalla parte della donna, perché come donna può immaginare, ma non vivere
il dramma interiore che suscita il suo tradimento, che desta nell’uomo
sentimenti, che, non di rado, sfociano nella violenza più efferata. Milica
nella sua lirica si guarda bene dall’esaminare la psiche del compagno e prende
dalla tavolozza dei pensieri e dei sentimenti tutti i colori, che si addicono
alla sua indiscutibile sensibilità femminile. Ma, come donna matura ed esperta,
sa anche bene che, se c’è un uomo che tradisce, dall’altra parte c’è sempre
pronta la donna a concedersi senza freni o remore.
La Poetessa sul binomio dato dalla fedeltà e dal
tradimento intesse una strofa intensa, di rara efficacia soprattutto sotto
l’aspetto psicologico dei protagonisti, i quali, pur avvinti nella fusione del
loro corpo, si sentono estranei, lontani, insensibili.
La bella, densa, e inattesa metafora dell’actus
coeundi, abilmente incastonata quasi a metà strofa, getta una luce nuova e
inattesa e sui versi precedenti e sui seguenti. L’immagine, insieme con
l’intimo e ascoso significato di ciò che l’actus significa e, soprattutto,
sottende per la donna, diviene il punto focale verso il quale converge sia quanto
precede sia, in modo esplicito, quanto segue. I versi successivi, come raggi di
luce tagliente, costituiscono il logico, e naturale, sviluppo di ciò che, di
norma, accade nel rapporto di coppia lacerato dal tradimento.
I versi, che
seguono, taglienti come la lama affilata di una spada, sono di grande suggestione
psicologica; sono pregni di drammatico verismo e velati di strisciante e sottile
ironia, denotano il carattere fermo, fiero e vendicativo della donna ferita nel
suo intimo, nel suo orgoglio di essere un unicum. In questi versi tutto
ruota intorno alla donna, che diviene il perno centrale della vita coniugale,
domestica e familiare:
lui che
avverte il senso della minaccia
e per
questo da belva annusa il pericolo e sa:
tu sei
diventato il centro –
mi hai
messa al riparo,
mi hai aspirato in te.
In
questi versi Milica diviene, si presenta come oracolo: sa che la donna, per non
sfasciare la famiglia, per non dissolvere quanto si è costruito insieme in
tanti anni e con sacrificio, per non privare i figli della presenza paterna,
pur con immensa sofferenza, sopporta il tradimento, pronta ad accogliere il
compagno, almeno in apparenza, compunto.
Quanto
si consuma, che dovrebbe costituire un sublime atto di donazione reciproca soprattutto
spirituale, se può, entro certi limiti, costituire fonte e appagamento di
piacere fisico per l’uomo, per la donna, con l’accettazione passiva del
fedifrago, diviene tormento interiore, fatica fisica, abbandono del piacere,
causa di atti inconsulti. La donna tradita, proprio mentre apre tutta se stessa
al piacere di entrambi, da belva annusa il pericolo e sa come
comportarsi.
Questi
versi richiamano alla mente la figura di Medea, la quale, quando viene a sapere
che Giasone sta per sposare la principessa di Corinto, medita e consuma la più
atroce delle vendette: uccide i figli, il frutto più prezioso del loro amore.
Più intenso lirismo, non senza un velo
di ironia, si avverte nella strofa successiva, nella quale i richiami ai miti
greci costituiscono la chiave di lettura, per cercare nella psiche travagliata
e, in certo senso, insoddisfatta della donna un amore puro, lungo, duraturo:
Come
Zeus sull’Olimpo Tu
sei
diventato potente e mi hai nascosta.
Lui vuol
farmi rinascere invano come Afrodite,
ma io
non sto lì dove mi aveva lasciata
ad
attendere il promesso risveglio.
E tu sei
piombato così all’improvviso
come
pallottola dispersa ti sei infilato in me,
ancorato
all’anima deflagri distruggendomi
ma pure estrarre la pallottola sarebbe
mortale.
Le
forti e poderose immagini, con tutto ciò che verso dopo verso evocano,
costituiscono il baricentro per comprendere la produzione poetica di Milica e
capire il dramma interiore, che la macera e le procura non poche sofferenze:
lei, come si evince dalla lettura dei suoi versi in generale e di questi in
particolare, è donna d’amore, che va nella spasmodica ricerca di un amore
grande e appagante; è, nella sua sensibilità, l’Amore, il Verbum, diventato
carne; è Afrodite, che spunta dal mare spumeggiante. Nella sua persona si trovano
in felice connubio l’Amore e la Poesia, come in Catullo; e, come il grande
poeta veronese, Milica non ha trovato il vero e grande amore della sua vita;
non ha avuto la gioia di avere accanto un uomo, col quale condividere la gioia
dell’Amore e l’incanto della Poesia, che avrebbero costituito l’essenza, la substantia,
della loro esistenza e il sesso, in questo caso, sarebbe stato solo un semplice
accidens, pur nel necessario e naturale completamento fisico epsichico.
In
questa strofa, pregna di amarezza per non aver avuto un Amore romantico a lungo
sognato e accarezzato, estrinseca tutti i sentimenti, che le lacerano l’animo
inquieto, angustiato, ferito, inappagato. Rievoca le sue esperienze amorose;
ma, a ogni delusione, reagisce, risorge, riprende vigore e, come un’aquila,
vola in alto, oltre le nubi, nell’azzurro limpido del cielo, dove vive la sua
gioia, la sua libertà. E da quelle altezze, con un po' d’ironia, contempla
libera e rinnovata le ceneri delle sue delusioni amorose.
Anche
quando, in seguito agli improvvisi rovesci della fortuna, si trova negli abissi
più profondi della disperazione, con un potente colpo d’ala la donna esce fuori
e libera e vittoriosa vola sulle miserie che l’avevano avvinta e attanagliata.
Ogni giorno, dopo ogni esperienza negativa, con orgoglio e fierezza, può dire: deleta
resurgo: eccomi qui, risorta dopo la sconfitta. Milica può realizzare ciò,
perché avverte potente in sé lo stimolo della Poesia, che la eleva al di sopra
delle miserie, nelle quali, casualmente, si era trovata invischiata. È, questo,
il messaggio, che la Poetessa invia a ogni animo sensibile, aperto alla Poesia,
consapevole del proprio ego, del proprio ruolo.
La
Poetessa, nonostante le continue esperienze negative, nonostante non abbia
trovato il suo Amore perfetto, nonostante le amarezze delle delusioni, nutre
una profonda fede e fiducia nell’Uomo; e considera ogni incontro un vero,
autentico, grande e puro gesto d’Amore, anche se, alla prova dei fatti, si rivela
caduco, fugace, effimero: lui vuol farmi rinascere invano come Afrodite.
Il
tema, e l’assillo, della resurrezione costituisce nella poetica di Milica il
punto focale, nel quale converge tutta la sua tensione psicologica di donna,
che accanto all’appagamento fisico vuole, come dovrebbe essere, anche quello psichico,
quello spirituale, perché la sua sensibilità trascende gli angusti limiti della
limitatezza e limitazione fisica. L’uomo, che l’ha sfiorata solo nella limitata
contingenza fisica, somiglia a Giove, il quale, non pago di Giunone e a insaputa
della moglie, passa da un amore a un altro. Non a caso, infatti, la strofa
inizia con un’amara e costernata riflessione: come Zeus sull’Olimpo tu / sei
diventato potente e mi hai nascosta.
L’amore
fugace, occasionale, momentaneo e nascosto, come quello di Giove nelle sue fughe
dall’Olimpo, lascia nell’animo della donna il vuoto incolmabile, perché solo il
vero Amore può appagare e realizzare il sogno del calore dato e recepito da un
cuore in fiamme. Un amore siffatto non appaga l’animo della Poetessa, non
realizza quanto vibra profondamente nel suo intimo, ma con amara ironia annota:
vuol farmi rinascere invano come Afrodite.
Anche
in questo verso Milica dopo ogni incontro amoroso, come dopo la composizione
d’una lirica, desidera rinascere, ripetendo il già citato lessema oraziano, alia
et eadem, un’altra donna, pur continuando ad essere la stessa, quale era
prima dell’amplesso. Questa rinascita è simboleggiata da Venere, che nella sua
accattivante bellezza, esce dalla spuma dl mare. Il sotteso riferimento a
Foscolo è evidente nella sua allusività, anche se trasferito su un piano
psicologico ed emotivo diverso. L’immagine della dea, che sorge dalla spuma del
mare, l’anadiomene, nella Poetessa desta e rievoca il continuo desiderio di
rinascita nella psiche, nella cosciente consapevolezza del suo sé, nella
spasmodica ricerca del suo sé, che trova completamento e appagamento nella dimensione
e nella rinascita dell’altro, l’alter ego del suo viaggio terreno. Nel necessario
complemento della sua essenza psico-fisica, elevata e nobilitata dalla Poesia,
si percepiscono le diverse e più intense sfaccettature della Poesia e della
complessa e paradigmatica esemplarità di Milica come donna, che proietta nel
verso non il suo sé reale, ma con il suo sé, traferito sul piano metasensibile,
proietta nella via reale tutto il mondo ideale, che, non senza fatica, si è
costruito nel suo intimo e nel quale vive le sue esperienze più intense.
Queste,
però, se appagano lo spirito e permettono di raggiungere i più lontani e luminosi
orizzonti, non soddisfano pienamente il suo essere nella carne, nella vita di
tutti i giorni e nella ritmica e monotona scansione temporale. Zeus, nella sua
realtà e contingenza, è tuti i giorni al suo fianco, ma con la sua fugacità, la
sua lontananza culturale ed emotiva, non le permette, come Afrodite, di rinascere
dalle onde del mare spumeggiante, incalzato dai venti della più tenera e
travolgente passione. Nell’animo sensibile della Poetessa anche l’attimo di un
incontro destinato a finire subito rischiara di luce limpidissima il buio fitto
della solitudine; col suo istantaneo fulgore rimane, pur confinato sul piano
metafisico, per sempre nell’animo; e, pur presente, rinnova i momenti di
scorata solitudine e di abbandono.
Ma
la donna, dotata di coraggio e forza di volontà, a ogni caduta si rialza, si
asciuga le ferite e prosegue a testa alta, fiera, il cammino impostole dalla
Providenza, perché, nonostante adoperi registri culturali e linguistici di
varia estrazione e provenienza, e profondamente imbevuta della dottrina cristiana,
è aperta alla speranza, alla vita. Anche quando canta argomenti apparentemente
estranei alla religione, la Poetessa non riesce a celare quanto viene insegnato
dalla sua religione, quanto trasmesso dalla Chiesa ortodossa, nella quale è
cresciuta, si è nformata ed è stata accuratamente educata.
Nella
Poesia di Milica niente nell’autentico rapporto d’amore, se pur breve e
occasionale, può offuscare il fulgore, che sprigiona: proietta, infatti, un potente
raggio di luce, che dirada e dissipa anche le tenebre più fitte; con la sua luce
innalza l’anima della Poetessa nell’insondabile mondo delle stelle, dove respira
a pieni polmoni un etere puro, ristoratore, incontaminato. E, quando torna
sulla terra, tende ancora le mani, per inebriarsi ancora di quegli attimi di
sublime e indescrivibile bellezza. Perciò Milica con intenso, appassionato e passionale
lirismo può dire: e tu sei piombato così all’improvviso / come pallottola
dispersa ti sei infilato in me, / ancorato all’anima deflagri distruggendomi /
ma pure estrarre la pallottola sarebbe mortale.
Costituiscono,
queste, le alterne vicende dell’Amore, che, nell’estasi della più sensuale
carnalità, avverte quel quid divino, che la trasforma, la intride di
nuovi slanci, le porge nuove sensazioni, anche nel lancinante dolore d’una
relazione tenuta in bilico da uno strano gioco di parti. Nonostante ciò, la
Poetessa permette al lettore, anche se con un sottile e impercettibile velo
d’ironia, di penetrare nella profondità della sua psiche coinvolta in un atto
di estrema donazione. Si ha in questi versi che chiudono la strofa l’apoteosi
del desiderio, dell’incontro, della conoscenza e della donazione.
La
conoscenza, come si evince dalla lettura della lirica, non è fine a se stessa:
costituisce il presupposto necessario, fondamentale per l’amore. E l’amore, in
questo caso, è il presupposto dell’amore stesso, dell’intima e profonda
donazione di sé. Sembra che qui si trovino echi di Dante (Inf., V, 103) Amor, ch'a nullo amato amar perdona. Amore genera amore, come odio genera
odio.
La forza dell’amore trascende i limiti della
contingenza umana e sfocia in orizzonti inesplorati, nel cosmo incontaminato
della pura essenza divina, nel quale il Verbum Dei, il Figlio di Dio,
vive la sua eterna immutabilità nell’Amore e nell’oblazione continua di sé.
Alla contingenza degli accadimenti umani subentra il Verbum, la Parola
salvifica e consolatrice, rivelata e trasmessa all’Uomo dalla Bibbia.
La
fede in questa realtà trascendente viene portata a maturità e continuamente
rafforzata dalla riflessione e dalla pratica costante; la Poetessa trova se
stessa, la sua vera dimensione e diviene sempre più consapevole di sé e, di conseguenza,
più forte.
La certezza, e la fierezza, della sua
forza risuona più forte in un’altra lirica della prima parte, intitolata Ritorno
a me stessa. In questa composizione Milica fonde in modo magistrale i due
piani: quello umano, più immediato, tangibile, e quello divino, avvertito solo
nella concentrazione della meditazione e nell’estasi della preghiera. Anche in
questa prima strofa la Poetessa gioca abilmente su due registri fondamentali,
che, tra alternanza e opposizione, costituiscono la chiave per aprire il senso
recondito, nascosto nel susseguirsi delle parole e dei versi. L’attenta lettura
dei quali desta sensazioni e fremiti, certezze e speranze, che solo un animo avvezza
alla meditazione e alla preghiera può percepire e vivere nella sua sovrumana
essenza e bellezza:
Sono
uscita finalmente
dalla
zona pericolosa
dal tuo
campo gravitazionale
che mi
aspirava
dove
avevo annullato me stessa
e mi ero
trasformata in Te,
piena di
Te
ho
respirato con il Tuo respiro,
e sia la mattina che la notte erano colorate
di Te.
Il
tema dell’Amore in questa sincera e travagliata pericope emerge con tutta la
sua inimmaginabile e inattesa potenza, con tutta la sua bellezza. I lessemi si
susseguono vibranti, i sintagmi titanici, le immagini coinvolgenti e travolgenti.
Milica è donna e credente, spirituale e carnale, che ancorata al divino torna
sulla terra per il necessario completamento psicofisico. In questa densa e
pregnante esternazione, l’amore divino e quello umano, separati nell’apparenza,
nella realtà sono uniti, costituiscono un unico ente, perché l’amore umano
altro non è che emanazione di quello divino, celato nel fremito e
nell’appagamento spirituale prima e, solo in un secondo tempo, dei sensi. La
sensualità, necessaria ma non fine a se stessa, viene plasmata, nobilitata,
elevata dall’Amore divino, nel quale l’uomo è chiamato a vivere e plasmare
l’umano. In questa strofa i due aspetti si fondono e costituiscono per la
Poetessa il porto sicuro, nel quale, finalmente, trova il suo sé, la vera dimensione
come donna, come credente, come amante.
Con
straordinaria abilità e consumata esperienza in questa strofa Milica incastona
il dogma fondamentale del cristianesimo e lo trasmette al lettore, al fruitore
della Poesia in modo del tutto naturale. Il felice, e fecondo, connubio della
Poesia con il credo religioso non è nuovo, ma affonda le radici molto lontano
nella storia dell’umanità. È sufficiente dare una rapida occhiata ai Salmi e
agli inni religiosi, molto diffusi presso i popoli dell’antichità fino ai tempi
più recenti. Questa tradizione continua ancora oggi, perché l’uomo, come stato
autorevolmente asserito da Julien Ries, il quale fonda i suoi studi su Nathan Söderblom e Mircea Eliade, è naturaliter
religiosus,
religioso per natura. E Milica con questa lirica non esita ad affermare le origini
cristiane della cultura europea, che oggi non pochi si arrabattano a disconoscere
o, se non possono negare la realtà storica dei fatti, a sminuirne il fecondo
apporto nella formazione della società e del cittadino.
Durante la lettura, per cogliere
l’intima essenza della lirica, bisogna sapersi districare nella potente e
inattesa anfibologia, abilmente nascosta nel Te, non senza ragione
scritto con l’iniziale maiuscola. Nella lirica la polisemia di alcuni lessemi,
in linea con la poetica di Milica, acquista un ruolo dominante, importante, necessario
per dipanare la complessità delle passioni e avvertire le tensioni spirituali,
spesso obliterate da un apparente e fuorviante antropocentrismo. In questo caso
la Poetessa si infutura nell’Archetipo dell’Amore, che, sotto l’aspetto
prettamente umano, può scoprire e trovare nell’uomo, che le dona con sincerità
il vero e grande Amore. In questo caso, non raro, per un atto fondamentale
nell’esistenza dell’umanità, Dio si serve dell’uomo, anzi mediante il Verbum
diventa uomo, e appaga l’animo della donna.
Nell’espletamento di questo dovere e di
così importante necessità l’uomo per la donna diventa Dio, il Verbum
sceso sulla terra per amare e consolare col suo amore, mediante la sofferenza.
Il vero amore, come si evince dalla mistica e dalla letteratura, è anche, e soprattutto,
sofferenza, sacrificio, oblazione di sé. Proprio questo lato oscuro, additato
all’uomo dal Verbo incarnato, rende l’Amore unico, degno di appartenere a una dimensione,
che non è di questa terra e che non tutti riescono a percepirne la portata.
Perché l’uomo possa entrare nella vita della donna ed essere parte operante,
deve staccarsi dalle scorie terrene e proiettarsi istante dopo istante
nell’immenso e impalpabile mare del divino, e trovare la sognata serenità, il
desiderato appagamento dello spirito, divenuto fonte di piacere, dono incommensurabile,
unione ipostatica nella fusione del corpo e dell’anima.
L’espressione linguistica, affinata con
un lungo e sagace magistero sotto la vigile sovrintendenza della coscienza del
sé, che si incentra con la meditazione e gli slanci lirici nella trascendenza
del Verbum, sotteso e inglobato nella fusione corporale e spirituale. La
Poesia, infatti, se non suscita emozioni, se non invita il lettore a riflettere
sul suo sé, se non lo costringe a introiettare il divino che lo circonda, come
dice San Paolo, (I Cor 13) deve considerarsi aes sonans aut cymbalum tinniens: è, ovviamente, un pezzo di bronzo che suona
oppure un cembalo fragoroso.
In questi versi, e ancor di più nelle
liriche successive, emerge una donna forte, costante e, dato il carattere
fiero, non di rado arrogante. Pienamente consapevole del grande dono ricevuto
da Dio, diventa ogni giorno strumento e messaggera di quell’arte, che domina
con piacere passione equilibrio.
In questa lirica, come nelle altre,
Milica dà il meglio di sé e riesce a veicolare il messaggio con equilibrio e
talento, consapevole si sé e dei mezzi espressivi a disposizione. Anche un incidente,
apparentemente banale, è motivo di poesia, costituisce un momento di amara riflessione
e un’occasione per esaltare la gloria e l’onnipotenza di Dio e il potere, che
nella vita del fedele hanno i santi, proposti dalla Chiesa come modelli da
seguire, esempi da imitare.
Credo,
però, che Milica abbia raggiunto il culmine della sua espressione poetica e
della fede nella breve e intensa lirica, La guarigione, dedicata a San
Basilio, uno dei più grandi santi della Chiesa tanto ortodossa quanto romana.
La sua immediatezza riesce a suscitare intense emozioni, illuminanti
riflessioni:
Con
questa spina di pesce nella gola
mi sono
indebolita
non
posso andare avanti
e
immenso è il deserto.
Non una
parola di consolazione.
Intorno
solo belve affamate.
Affrontando
la forza dell’amore nei miei occhi
santificate
dal Tuo volto
si
avvicinano domate.
Aspetto
tenacemente
che a
guarigione mi porti
la Tua
mano potente.
E mi
salvi
con la
Tua forza santa
che glorifichi col Tuo nome!
Dopo
il pericoloso incidente, che avrebbe potuto mettere a repentaglio la vita della
Poetessa, l’anima è sola, come in un deserto, nonostante si trovi in una grande
città. Il fisico, debilitato, avverte che le forze vengono irrimediabilmente
meno e sente ormai prossima l’ora del trapasso. La Poetessa è sola con se
stessa, non sente vicino il suo simile, il prossimo; e avverte paura e
smarrimento. Il luogo, qualche giorno pima affollato e pieno di voci, diviene
un immenso deserto, nel quale regna il vuoto, la solitudine, la morte. Indebolita
dal suo stato, divenuto sempre più precario, non riesce a proseguire nel
cammino della vita, che comincia a sfaldarsi: è pronta a crollare e sprofondare
nel gelido potere della morte. Consapevole delle difficoltà, nelle quali versa
il suo fisico debilitato, l’animo rimane vigile, e, anche se corroborato solo
dall’aiuto celeste, è desolato, deluso, amareggiato, perché, nel momento del
bisogno, è solo, abbandonato da tutti, persino dagli amici, dalle persone più
care e da quelle, che prima aveva vicino. Anzi queste, come belve fameliche, approfittano
del suo stato, della sua debolezza fisica, aspettano il momento fatale per
depredarla di quanto possiede, di abbandonarla in balia all’avverso destino.
Il
quadro presentato nella prima parte della lirica è drammatico, con tinte
fosche. Sembra che la Poetessa sia caduta nel più cupo e disperato pessimismo,
che, ormai l’avvolge con le sue spirali mortali e non le permette di vedere la
Luce, che, non del tutto spenta, rimane
annidata in un angolino della sua anima.
Sul
suo volto, però, nonostante le difficoltà e il dolore, persistono ancora vivi i
segni dell’Amore: dai suoi occhi sprizzano vivaci scintille dell’Amore, che,
con la loro dolcezza, ammansiscono le belve. Queste, domate dalla Luce di Dio,
si ravvedono e scoprono i tratti dell’amore reciproco e della fratellanza.
Gli
ultimi versi costituiscono il canto della resurrezione, un inno alla vita,
l’esaltazione della grazia di Dio, che, mediante l’intercessione di San Basilio,
le dona la guarigione.
Anche
in questa breve lirica Milica adopera in modo impareggiabile diversi e
variegati registri linguistici, che le permettono di ottenere gli effetti voluti,
mediante un tessuto narrativo semplice e lineare, almeno nell’apparenza. Al
lettore piuttosto frettoloso, infatti, sfugge l’intenso e incessante lavoro di
limatura, di ripensamento, di revisione.
A
un’attenta analisi ermeneutica nella lirica si notano due momenti, due stati
d’animo contrapposti: la disperazione e la fede nell’onnipotenza di Dio, che
costituiscono i due poli, verso i quali è attratta l’attenzione del lettore.
L’esegesi, però, non trascura i momenti concomitanti, che nella plastica evidenza
rendono drammatico, e più umano, il componimento.
A
questo punto non si può trascurare nella produzione lirica di Milica un
aspetto, che, probabilmente, la critica non ha ancora messo in evidenza in
tutta la sua portata: il concetto di Chiesa, con tutte le necessarie implicazioni,
che comporta.
La
Chiesa è l’insieme dei battezzati, uniti dall’amore per Dio e per il prossimo.
E questa, nella sua realtà, è divisa in Chiesa trionfante, costituita da Dio e
dai Santi, e in Chiesa militante, formata da tutti i battezzati, che vivono
sulla terra e sperano, dopo la morte, di conseguire il Paradiso e unirsi col
loro Padre celeste. Questo aspetto particolare, che Milica trasmette soprattutto
con l’ultima lirica presa in considerazione, costituisce un elemento importante
sotto molteplici aspetti: la Poetessa trasmette un concetto e una realtà, che
non tutti conoscono e riescono a desumere dalla lettura della sua produzione
poetica. Lungi dall’essere bigotta, Milica ha una chiara ed esatta concezione
teologica della Chiesa e della sua missione. I battezzati, morti e risorti nel
battesimo, sono uniti dalla carità, dall’amore fraterno, dal mutuo soccorso.
Queste peculiarità dell’essere Cristiano, però, non sempre sono messe in
pratica dai singoli membri della Chiesa militante, come la Poetessa mostra
nella prima parte della lirica.
Con
i suoi occhi pieni di amore conquista e rimprovera il prossimo, che l’ha
abbandonata, e lo richiama alle promesse battesimali. Nel momento, nel quale la
Chiesa militante prende coscienza del suo ruolo e della sua appartenenza,
riprende il cammino additatole dal Verbum e ritrova se stessa nella carità.
Non sfugge, ancora, l’intima unione tra la Chiesa, che vive nella sofferenza e
nell’indifferenza, e la Chiesa trionfante, quella celeste, che prega e, con
l’aiuto e l’intercessione dei santi, viene in soccorso di quella Chiesa, che si
prepara ad essere accolta nel cielo, al termine della vita terrena.
Milica,
però, con la sua salda formazione filosofica e teologica, avverte che il
battezzato è parte della Chiesa, ma non è la Chiesa. L’indifferenza nei
riguardi della sua sofferenza le viene dai fratelli battezzati, che non ottemperano
ai mandati del Maestro, non dalla Chiesa, anche se ne sono parte necessaria.
Dall’attenta lettura e, in modo particolare, dalla meditazione sulla Poesia si ricavano spunti di riflessione e un insegnamento, che, se attuato, conduce necessariamente al miglioramento dell’individuo e della società, sia essa cristiana o no. Milica, in ogni caso, applica alla Poesia la funzione paideutica, ricavata dalla più alta e nobile tradizione.
Orazio Antonio Bologna
Sono davvero garissima! E un grande onore per me.
RispondiEliminaSaluto a tutti vostri lettori.
Milica Jeftimijević Lilić