mercoledì 16 settembre 2020

ORAZIO ANTONIO BOLOGNA: "IL FUOCO E IL VENTO" DI MILICA JEFTIMIJEVIC LILIC


BREVI CENNI SU ALCUNI TEMI

RICAVATI DA

IL FUOCO E IL VERBO

di

Milica Jeftimijević Lilić


                                                            Orazio Antonio Bologna,
                                                                collaboratore di Lèucade

 

Affrontare la vasta, variegata e politematica poesia di Milica Jeftimijević Lilić si prova imbarazzo, difficoltà, sconcerto, nonché un sacro timore, perché si ha davanti un autentico monstrum della Poesia nella sua più ampia e completa espressione e comprensione. La poetessa serba entra di diritto nell’ampio panorama dalla poesia mondiale e vi accampa un posto di considerevole rilievo, come ha, e giustamente, notato la critica, anche la più esigente, che a più riprese si è interessata della sua vasta produzione. Tra le tante voci, che formano il grande coro, il vasto panorama della Poesia mondiale, quella di Milica è, senza ombra di dubbio, notevole e di grande impatto sul lettore, anche a prima vista.

La grandezza del vero Poeta e della grande Poesia si avverte subito, a fior di pelle: basta leggere pochi versi di una lirica, anche scelta a caso. Il poeta, infatti, quando scrive e l’ispirazione gli sorride, non verga sul foglio parole vuote, alla rinfusa, senza avere chiaro nella mente il messaggio da veicolare al lettore, le emozioni, che intende suscitare, le riflessioni, verso le quali convogliare la complessa psiche del fruitore. La scrittura di Milica, lontana da fronzoli e da ogni preconcetto, che, di solito, si ha della Poesia, è piana, semplice, comprensibile, anche quando tratta temi impegnati e impegnativi sotto il profilo culturale sociale morale teologico. Nella lunga e paziente riflessione, che precede ogni lirica, Milica rifugge dal linguaggio aulico, altisonante, roboante, tipico di quanti si credono poeti. Il vero Poeta non è un povero e illuso imbrattacarte, perché è cosciente della sua missione paideutica all’interno della società, nella quale opera. Alla doctrina, la cultura sottesa a ogni singolo componimento, la Poetessa cela abilmente il lungo e faticoso labor limae, il paziente lavoro di revisione, di correzione, di rielaborazione. A queste due peculiarità segue la brevitas, l’esigua lunghezza delle singole liriche. Queste abilità, già sottolineate e richieste da poeti come Callimaco Catullo e, in modo particolare, da Orazio, sottendono una cultura ampia e articolata nei diversi settori dell’attività umana. Se viene a mancare una di queste peculiarità, non c’è vera e grande Poesia, ma solo una serie di lessemi più o meno articolati, che si affannano ad esprimere e trasmettere un messaggio vuoto, morto mentre le parole scorrono sul foglio.

In seguito alla lettura della vasta e interessante produzione poetica, bisogna innanzi tutto considerare che Milica, prima di iniziare la sua attività poetica, si è formata una cultura di tutto rispetto, degna di essere alla pari di quanti, nel passato, hanno coltivato il meraviglioso e dolce dono delle Muse. La preparazione è stata lunga, faticosa, difficile e tutt’altro che conclusa: il vero Poeta, infatti, è sempre consapevole di essere continuamente nella condizione di apprendere, di trovarsi impreparato davanti ad argomenti, che esigono studio e approfondimento particolari. Per il Poeta è sempre valido l’immortale e intramontabile apoftegma di Solone (fr. 22, 7 D): γεράσκω διδασκόμενος, invecchio e intanto apprendo ancora. Col trascorrere degli anni e, soprattutto, con lo studio matto e disperatissimo, come, a proposito di Orazio, scrive Leopardi nello Zibaldone, il Poeta, con gli occhi spalancati sul mondo, rinasce ogni giorno, ogni momento, nel quale impara ciò, che in precedenza ignorava. Dopo ogni carme, come se ne segnasse la fine, Poeta, con la composizione di una nuova lirica rinasce, diventa un altro, pur continuando ad essere la stessa persona. A tal proposito si può adattare al Poeta quanto dice Orazio là dove nel Carmen Saeculare, vv. 10s., parla del Sole e, non senza ragione, osserva: aliusque et idem / nasceris: sei uguale a quello di ieri, ma diverso, un altro.       

Per leggere e comprendere nel senso più completo la poesia d’una Poetessa di siffatto calibro, bisogna avere una formazione più che adeguata. Per tal motivo, senza esagerazione, credo che si attagli molto bene a Milica quanto nel libro IX dell’AP, nel XVI epigramma, attribuito a Platone, si legge: 

«ννέα τς Μούσας», φασίν τινες· «ς λιγώρως.

   ν δέ· κα Σαπφ Λεσβόθεν, δεκάτη».

Il testo greco, reso in italiano, reca: «Alcuni affermano che le Muse siano nove; che distratti! Ecco, c’è Saffo di Lesbo, la decima».

Per ispirazione, accuratezza, cultura e raffinatezza, Milica non differisce dall’antica Poetessa di Lesbo, che ancora oggi getta profondi e inconfondibili riverberi e squarci di luce su quanti si accingono a scalare le scoscese balze del Parnaso, dove le Muse, guidate da Apollo, hanno la loro sede. Il colloquio con le Muse non è facile, né è agevole percepire i tenui sussurri emessi dallo stormire delle fronde, dagli scrosci dei ruscelli, dai sussulti e singulti, che silenziosi sgorgano dal cuore affranto dalle miserie della vita terrena. È, questa, la forgia che tempra l’animo del Poeta e lo rende idoneo a parlare all’Uomo di ogni età, di ogni tempo, di ogni luogo.

A Milica la Natura, insieme con le drammatiche traversie, che hanno forgiato la sua vita e inciso profondamente il suo animo, ha concesso a piene mani l’amabile canto delle Muse. E proprio in forza di questo dono, un unicum, un monstrum per il comune mortale e per la banale concezione dell’esistenza umana, fondata, per lo più, su un vuoto edonismo, Milica oggi si può bene ascrivere tra le voci più alte e sublimi della lirica europea e mondiale.

In queste brevi osservazioni si richiama l’attenzione del lettore, innamorato della Poesia, su alcune liriche tratte dal recente volume, Il fuoco e il verbo, edito in italiano nel 2015 da Giuseppe Piacente, a Corato, in provincia di Bari. Quanti leggono la poesia di Milica avvertono immediatamente un’intensa emozione, anticipata ed evocata già nel titolo, che allude e include un vasto e intimo programma di rinnovamento mediante la riflessione sulle vicende umane, che l’Autrice ha sperimentato, introiettato, assimilato, proposto con parole semplici, ma pregne di vita e di sussulti. Nel caloroso lavorio dell’atto creativo, che ribolle nel suo animo come il magma all’interno del cratere vulcanico, Milica idealmente e fattivamente si allaccia, come credente, al Verbum, al Verbo di Dio, del quale avverte tuttala potenza creatrice, evidenziata e cantata, con ben altri toni e altri intenti, nel prologo giovanneo, cui idealmente si collega e dal quale trae la forza ispiratrice per la sua Poesia in generale e, in particolare, per questa silloge.

La prima volta il Verbum sul Sinai apparve a Mosè (Es 3,1,4-17) sotto forma di fuoco, nel roveto ardente. Solo quando il Profeta si avvicin per osservare da vicino lo strano fenomeno, dal fuoco proviene chiara e netta la voce del Verbum,che affida al suo servo una missione di non poco conto: liberare glie Ebrei dalla schiavitù. Non a caso, quindi, Milica, profondamente imbevuta di dottrina cristiana, nel dare il titolo alla raccolta ha premesso il fuoco al Verbum, perché, come il grande Patriarca, anche lei ha la missione di liberare il lettore dalla schiavitù dell’ignoranza. Il titolo, ancora, permette di dare adito a un’altra illazione, umana, logica, attuale ogni qualvolta il Poeta si accinge a dar vita a una nuova creatura: dapprima avverte il fuoco, il calore della creazione, che gli ribolle dentro e lo sconvolge, e successivamente parla, mette per iscritto quanto gli urge nell’animo.

Il lettore, ignaro del processo, che precede ogni composizione lirica, vede e ferma la sua attenzione solo, e unicamente, sul verbum, sulla parola, sull’elemento sensibile, che trasmette il fuoco interiore. Il titolo, però, letto solo su quanto accennato, sarebbe riduttivo, se al fuoco e al verbo non subentrasse un altro elemento, che, sotteso nel roveto ardente, diviene manifesto solo dopo aver udito il Verbum: l’Amore. Dio parlò a Mosè, perché mosso da amore per il popolo ebreo, che, schiavo in Egitto, in seguito alle leggi emanate dal Faraone, rischiava di sparire dalla faccia della terra. Nel titolo Milica, scientemente, riversa la sua esperienza umana di profuga liberata, richiamata alla vita dal Verbum.

Come donna, come creatura razionale composta di carne e di ossa, la Poetessa avverte prepotente, e in tutta la sua grandezza, l’Amore. Il quale nella sua dimensione più alta, più pura, più armoniosa, conferisce all’espressione poetica il tocco particolare dell’unicità. La Poetessa, infatti, è consapevole che se dalla vita dell’uomo si togliesse l’Amore, nell’animo si spegnerebbe il sole della vita. Milica avverte questa forza dirompente e, dopo averla privata delle scorie terrene e delle ruvide croste della sensualità, la presenta in tutta la sua bellezza, in tutta la sua grandezza, perché nella vita non c’è nulla di più grande, di più bello, di più potente dell’Amore. È questo elemento primordiale, primigenio, impalpabile e pur presente come componente essenziale della psiche umana, che alimenta la passione per la poesia e per la vita. L’amore esplode in ogni verso, permea ogni lirica in modo così impercettibile, che solo un animo vocato alla Poesia riesce a comprendere e a percepirne la profonda essenza.

La Poetessa, però, mentre col suo canto, con i suoi sospiri innalza il lettore verso le sublimi vette dell’amore, gli spalanca, a un tratto, anche l’immancabile abisso del dolore, provato e sperimentato in tutta la sua portata. Ma l’animo, forte della sua appartenenza a un genere, che non si lascia abbattere o vincere, lotta e, con la forza della volontà supera tutte le avversità della vita, anche se al loro passaggio lasciano tracce indelebili, ferite sanguinanti, strascichi dolorosi. La Poetessa non annienta il dolore; ci convive, lo domina, lo piega alla sua volontà, sì che diventa componente essenziale della Poesia. Sono, tutti questi elementi, le colonne portanti di un’architettura poetica unica nel suo genere e paragonabile solo alle opere dei i grandi Poeti vissuti nel passato.

Nella produzione lirica la Poetessa sparge a piene mani anche l’ironia, che, adoperata con squisita sensibilità e accortezza, conferisce alla composizione quel tocco umano reale, vivo, palpitante. L’ironia non si presenta da sé: va colta nella sua sottile e strisciante silenziosità. È, questa, una componente fondamentale nel tessuto narrativo e poetico, a tutti i livelli, sotto ogni aspetto; e sovente si trova inaspettata.

Il volume è strutturato in tre sezioni: la prima, Il fuoco e il Verbo, che dà il titolo alla raccolta, consta di dieci componimenti; a seconda, Necessità cosmica, contiene undici liriche; la terza, Mentre la madre respira, è formata da otto poesie. È un libellum, un libricino, di poche pagine, frutto di non poca fatica e di impegno culturale non indifferente. Come in altri lavori, anche in questo segue i dettami di Callimaco, di Catullo e di quanti, sia tra gli antichi che tra i moderni, hanno tenuto davanti agli occhi esempi così grandi.

Mentre invito il lettore ad avere una visione completa della silloge, in queste brevi note, fermo l’attenzione sull’intensa e significativa lirica, Un attimo di verità, tratta dalla prima sezione:

Finché sfiorato da una luna spenta

sogni una riva lontana che non esiste

raggiunta durante la mia assenza,

io molto poco ti posseggo,

ma più di quanto lui possiede me

lui che trema di desiderio,

per la gelosia che lo trasforma in belva,

lui che avverte il senso della minaccia

e per questo da belva annusa il pericolo e sa:

tu sei diventato il centro –

mi hai messa al riparo,

mi hai aspirato in te. 

Le sensazioni, il lamento, la constatazione, la certezza, che intridono questa strofa della loro drammatica realtà, straziano l’anima della donna, consapevole del tradimento perpetrato dal suo uomo insensibile alla sua profonda, intima sensibilità di donna. Il tradimento da parte sia dell’uomo che della donna è un fenomeno normale, che, per precise scelte soprattutto di ordine morale e di rispetto personale, non si dovrebbe verificare, perché coloro che contraggono il matrimonio, un atto d’amore e un istituto di vita fondamentale per l’umana convivenza, si impegnano reciprocamene alla fedeltà, al rispetto, all’esclusiva donazione di sé all’altro.

L’uomo, sotto certi aspetti, è meno sensibile; ha sentimenti più rudi e materiali sì, che non si accorge se, e quando, la moglie lo tradisce. La donna, invece, naturalmente dotata di sensibilità diversa e molto più capace nella finzione, si accorge subito che il compagno la tradisce, l’ha sostituita con un’altra e vive il cambiamento in tutta la sua ampiezza e con profondo disagio, che scatena un insanabile dramma nel suo animo. I due mondi, prima fusi dalla fedeltà e dalla sincerità, dopo il tradimento divergono, diventano giustapposti, estranei, anche nei momenti più belli e intensi della donazione e della passione. Si percepisce in questo atto, pur nella meccanicità della sua naturalezza e nell’abitualità del gesto, il profondo cambiamento, avvertito soprattutto dalla donna, che con la sua recettività riesce a donarsi senza donare il fremito insito nella sua femminilità. Esemplare è il distico, nel quale pone in risalto l’accoglienza, pur fredda, del compagno, che si illude di possedere pienamente l’amata: 

io molto poco ti posseggo,

  ma più di quanto lui possiede me.

In questa amara consapevolezza la donna vive con disagio un rapporto ormai unilaterale ed egoista. La Poetessa, e giustamente, si schiera dalla parte della donna, perché come donna può immaginare, ma non vivere il dramma interiore che suscita il suo tradimento, che desta nell’uomo sentimenti, che, non di rado, sfociano nella violenza più efferata. Milica nella sua lirica si guarda bene dall’esaminare la psiche del compagno e prende dalla tavolozza dei pensieri e dei sentimenti tutti i colori, che si addicono alla sua indiscutibile sensibilità femminile. Ma, come donna matura ed esperta, sa anche bene che, se c’è un uomo che tradisce, dall’altra parte c’è sempre pronta la donna a concedersi senza freni o remore.

La Poetessa sul binomio dato dalla fedeltà e dal tradimento intesse una strofa intensa, di rara efficacia soprattutto sotto l’aspetto psicologico dei protagonisti, i quali, pur avvinti nella fusione del loro corpo, si sentono estranei, lontani, insensibili.

La bella, densa, e inattesa metafora dell’actus coeundi, abilmente incastonata quasi a metà strofa, getta una luce nuova e inattesa e sui versi precedenti e sui seguenti. L’immagine, insieme con l’intimo e ascoso significato di ciò che l’actus significa e, soprattutto, sottende per la donna, diviene il punto focale verso il quale converge sia quanto precede sia, in modo esplicito, quanto segue. I versi successivi, come raggi di luce tagliente, costituiscono il logico, e naturale, sviluppo di ciò che, di norma, accade nel rapporto di coppia lacerato dal tradimento.

I versi, che seguono, taglienti come la lama affilata di una spada, sono di grande suggestione psicologica; sono pregni di drammatico verismo e velati di strisciante e sottile ironia, denotano il carattere fermo, fiero e vendicativo della donna ferita nel suo intimo, nel suo orgoglio di essere un unicum. In questi versi tutto ruota intorno alla donna, che diviene il perno centrale della vita coniugale, domestica e familiare:

lui che avverte il senso della minaccia

e per questo da belva annusa il pericolo e sa:

tu sei diventato il centro –

mi hai messa al riparo,

 mi hai aspirato in te.

In questi versi Milica diviene, si presenta come oracolo: sa che la donna, per non sfasciare la famiglia, per non dissolvere quanto si è costruito insieme in tanti anni e con sacrificio, per non privare i figli della presenza paterna, pur con immensa sofferenza, sopporta il tradimento, pronta ad accogliere il compagno, almeno in apparenza, compunto.

Quanto si consuma, che dovrebbe costituire un sublime atto di donazione reciproca soprattutto spirituale, se può, entro certi limiti, costituire fonte e appagamento di piacere fisico per l’uomo, per la donna, con l’accettazione passiva del fedifrago, diviene tormento interiore, fatica fisica, abbandono del piacere, causa di atti inconsulti. La donna tradita, proprio mentre apre tutta se stessa al piacere di entrambi, da belva annusa il pericolo e sa come comportarsi.

Questi versi richiamano alla mente la figura di Medea, la quale, quando viene a sapere che Giasone sta per sposare la principessa di Corinto, medita e consuma la più atroce delle vendette: uccide i figli, il frutto più prezioso del loro amore.

Più intenso lirismo, non senza un velo di ironia, si avverte nella strofa successiva, nella quale i richiami ai miti greci costituiscono la chiave di lettura, per cercare nella psiche travagliata e, in certo senso, insoddisfatta della donna un amore puro, lungo, duraturo:

Come Zeus sull’Olimpo Tu

sei diventato potente e mi hai nascosta.

Lui vuol farmi rinascere invano come Afrodite,

ma io non sto lì dove mi aveva lasciata

ad attendere il promesso risveglio.

E tu sei piombato così all’improvviso

come pallottola dispersa ti sei infilato in me,

ancorato all’anima deflagri distruggendomi

ma pure estrarre la pallottola sarebbe mortale.

Le forti e poderose immagini, con tutto ciò che verso dopo verso evocano, costituiscono il baricentro per comprendere la produzione poetica di Milica e capire il dramma interiore, che la macera e le procura non poche sofferenze: lei, come si evince dalla lettura dei suoi versi in generale e di questi in particolare, è donna d’amore, che va nella spasmodica ricerca di un amore grande e appagante; è, nella sua sensibilità, l’Amore, il Verbum, diventato carne; è Afrodite, che spunta dal mare spumeggiante. Nella sua persona si trovano in felice connubio l’Amore e la Poesia, come in Catullo; e, come il grande poeta veronese, Milica non ha trovato il vero e grande amore della sua vita; non ha avuto la gioia di avere accanto un uomo, col quale condividere la gioia dell’Amore e l’incanto della Poesia, che avrebbero costituito l’essenza, la substantia, della loro esistenza e il sesso, in questo caso, sarebbe stato solo un semplice accidens, pur nel necessario e naturale completamento fisico epsichico.

In questa strofa, pregna di amarezza per non aver avuto un Amore romantico a lungo sognato e accarezzato, estrinseca tutti i sentimenti, che le lacerano l’animo inquieto, angustiato, ferito, inappagato. Rievoca le sue esperienze amorose; ma, a ogni delusione, reagisce, risorge, riprende vigore e, come un’aquila, vola in alto, oltre le nubi, nell’azzurro limpido del cielo, dove vive la sua gioia, la sua libertà. E da quelle altezze, con un po' d’ironia, contempla libera e rinnovata le ceneri delle sue delusioni amorose.

Anche quando, in seguito agli improvvisi rovesci della fortuna, si trova negli abissi più profondi della disperazione, con un potente colpo d’ala la donna esce fuori e libera e vittoriosa vola sulle miserie che l’avevano avvinta e attanagliata. Ogni giorno, dopo ogni esperienza negativa, con orgoglio e fierezza, può dire: deleta resurgo: eccomi qui, risorta dopo la sconfitta. Milica può realizzare ciò, perché avverte potente in sé lo stimolo della Poesia, che la eleva al di sopra delle miserie, nelle quali, casualmente, si era trovata invischiata. È, questo, il messaggio, che la Poetessa invia a ogni animo sensibile, aperto alla Poesia, consapevole del proprio ego, del proprio ruolo.

La Poetessa, nonostante le continue esperienze negative, nonostante non abbia trovato il suo Amore perfetto, nonostante le amarezze delle delusioni, nutre una profonda fede e fiducia nell’Uomo; e considera ogni incontro un vero, autentico, grande e puro gesto d’Amore, anche se, alla prova dei fatti, si rivela caduco, fugace, effimero: lui vuol farmi rinascere invano come Afrodite.

Il tema, e l’assillo, della resurrezione costituisce nella poetica di Milica il punto focale, nel quale converge tutta la sua tensione psicologica di donna, che accanto all’appagamento fisico vuole, come dovrebbe essere, anche quello psichico, quello spirituale, perché la sua sensibilità trascende gli angusti limiti della limitatezza e limitazione fisica. L’uomo, che l’ha sfiorata solo nella limitata contingenza fisica, somiglia a Giove, il quale, non pago di Giunone e a insaputa della moglie, passa da un amore a un altro. Non a caso, infatti, la strofa inizia con un’amara e costernata riflessione: come Zeus sull’Olimpo tu / sei diventato potente e mi hai nascosta.

L’amore fugace, occasionale, momentaneo e nascosto, come quello di Giove nelle sue fughe dall’Olimpo, lascia nell’animo della donna il vuoto incolmabile, perché solo il vero Amore può appagare e realizzare il sogno del calore dato e recepito da un cuore in fiamme. Un amore siffatto non appaga l’animo della Poetessa, non realizza quanto vibra profondamente nel suo intimo, ma con amara ironia annota: vuol farmi rinascere invano come Afrodite.

Anche in questo verso Milica dopo ogni incontro amoroso, come dopo la composizione d’una lirica, desidera rinascere, ripetendo il già citato lessema oraziano, alia et eadem, un’altra donna, pur continuando ad essere la stessa, quale era prima dell’amplesso. Questa rinascita è simboleggiata da Venere, che nella sua accattivante bellezza, esce dalla spuma dl mare. Il sotteso riferimento a Foscolo è evidente nella sua allusività, anche se trasferito su un piano psicologico ed emotivo diverso. L’immagine della dea, che sorge dalla spuma del mare, l’anadiomene, nella Poetessa desta e rievoca il continuo desiderio di rinascita nella psiche, nella cosciente consapevolezza del suo sé, nella spasmodica ricerca del suo sé, che trova completamento e appagamento nella dimensione e nella rinascita dell’altro, l’alter ego del suo viaggio terreno. Nel necessario complemento della sua essenza psico-fisica, elevata e nobilitata dalla Poesia, si percepiscono le diverse e più intense sfaccettature della Poesia e della complessa e paradigmatica esemplarità di Milica come donna, che proietta nel verso non il suo sé reale, ma con il suo sé, traferito sul piano metasensibile, proietta nella via reale tutto il mondo ideale, che, non senza fatica, si è costruito nel suo intimo e nel quale vive le sue esperienze più intense.

Queste, però, se appagano lo spirito e permettono di raggiungere i più lontani e luminosi orizzonti, non soddisfano pienamente il suo essere nella carne, nella vita di tutti i giorni e nella ritmica e monotona scansione temporale. Zeus, nella sua realtà e contingenza, è tuti i giorni al suo fianco, ma con la sua fugacità, la sua lontananza culturale ed emotiva, non le permette, come Afrodite, di rinascere dalle onde del mare spumeggiante, incalzato dai venti della più tenera e travolgente passione. Nell’animo sensibile della Poetessa anche l’attimo di un incontro destinato a finire subito rischiara di luce limpidissima il buio fitto della solitudine; col suo istantaneo fulgore rimane, pur confinato sul piano metafisico, per sempre nell’animo; e, pur presente, rinnova i momenti di scorata solitudine e di abbandono.

Ma la donna, dotata di coraggio e forza di volontà, a ogni caduta si rialza, si asciuga le ferite e prosegue a testa alta, fiera, il cammino impostole dalla Providenza, perché, nonostante adoperi registri culturali e linguistici di varia estrazione e provenienza, e profondamente imbevuta della dottrina cristiana, è aperta alla speranza, alla vita. Anche quando canta argomenti apparentemente estranei alla religione, la Poetessa non riesce a celare quanto viene insegnato dalla sua religione, quanto trasmesso dalla Chiesa ortodossa, nella quale è cresciuta, si è nformata ed è stata accuratamente educata.

Nella Poesia di Milica niente nell’autentico rapporto d’amore, se pur breve e occasionale, può offuscare il fulgore, che sprigiona: proietta, infatti, un potente raggio di luce, che dirada e dissipa anche le tenebre più fitte; con la sua luce innalza l’anima della Poetessa nell’insondabile mondo delle stelle, dove respira a pieni polmoni un etere puro, ristoratore, incontaminato. E, quando torna sulla terra, tende ancora le mani, per inebriarsi ancora di quegli attimi di sublime e indescrivibile bellezza. Perciò Milica con intenso, appassionato e passionale lirismo può dire: e tu sei piombato così all’improvviso / come pallottola dispersa ti sei infilato in me, / ancorato all’anima deflagri distruggendomi / ma pure estrarre la pallottola sarebbe mortale.

Costituiscono, queste, le alterne vicende dell’Amore, che, nell’estasi della più sensuale carnalità, avverte quel quid divino, che la trasforma, la intride di nuovi slanci, le porge nuove sensazioni, anche nel lancinante dolore d’una relazione tenuta in bilico da uno strano gioco di parti. Nonostante ciò, la Poetessa permette al lettore, anche se con un sottile e impercettibile velo d’ironia, di penetrare nella profondità della sua psiche coinvolta in un atto di estrema donazione. Si ha in questi versi che chiudono la strofa l’apoteosi del desiderio, dell’incontro, della conoscenza e della donazione.

La conoscenza, come si evince dalla lettura della lirica, non è fine a se stessa: costituisce il presupposto necessario, fondamentale per l’amore. E l’amore, in questo caso, è il presupposto dell’amore stesso, dell’intima e profonda donazione di sé. Sembra che qui si trovino echi di Dante (Inf., V, 103) Amor, ch'a nullo amato amar perdona. Amore genera amore, come odio genera odio. 

 La forza dell’amore trascende i limiti della contingenza umana e sfocia in orizzonti inesplorati, nel cosmo incontaminato della pura essenza divina, nel quale il Verbum Dei, il Figlio di Dio, vive la sua eterna immutabilità nell’Amore e nell’oblazione continua di sé. Alla contingenza degli accadimenti umani subentra il Verbum, la Parola salvifica e consolatrice, rivelata e trasmessa all’Uomo dalla Bibbia.

La fede in questa realtà trascendente viene portata a maturità e continuamente rafforzata dalla riflessione e dalla pratica costante; la Poetessa trova se stessa, la sua vera dimensione e diviene sempre più consapevole di sé e, di conseguenza, più forte.

La certezza, e la fierezza, della sua forza risuona più forte in un’altra lirica della prima parte, intitolata Ritorno a me stessa. In questa composizione Milica fonde in modo magistrale i due piani: quello umano, più immediato, tangibile, e quello divino, avvertito solo nella concentrazione della meditazione e nell’estasi della preghiera. Anche in questa prima strofa la Poetessa gioca abilmente su due registri fondamentali, che, tra alternanza e opposizione, costituiscono la chiave per aprire il senso recondito, nascosto nel susseguirsi delle parole e dei versi. L’attenta lettura dei quali desta sensazioni e fremiti, certezze e speranze, che solo un animo avvezza alla meditazione e alla preghiera può percepire e vivere nella sua sovrumana essenza e bellezza:

Sono uscita finalmente

dalla zona pericolosa

dal tuo campo gravitazionale

che mi aspirava

dove avevo annullato me stessa

e mi ero trasformata in Te,

piena di Te

ho respirato con il Tuo respiro,

e sia la mattina che la notte erano colorate di Te.

Il tema dell’Amore in questa sincera e travagliata pericope emerge con tutta la sua inimmaginabile e inattesa potenza, con tutta la sua bellezza. I lessemi si susseguono vibranti, i sintagmi titanici, le immagini coinvolgenti e travolgenti. Milica è donna e credente, spirituale e carnale, che ancorata al divino torna sulla terra per il necessario completamento psicofisico. In questa densa e pregnante esternazione, l’amore divino e quello umano, separati nell’apparenza, nella realtà sono uniti, costituiscono un unico ente, perché l’amore umano altro non è che emanazione di quello divino, celato nel fremito e nell’appagamento spirituale prima e, solo in un secondo tempo, dei sensi. La sensualità, necessaria ma non fine a se stessa, viene plasmata, nobilitata, elevata dall’Amore divino, nel quale l’uomo è chiamato a vivere e plasmare l’umano. In questa strofa i due aspetti si fondono e costituiscono per la Poetessa il porto sicuro, nel quale, finalmente, trova il suo sé, la vera dimensione come donna, come credente, come amante.

Con straordinaria abilità e consumata esperienza in questa strofa Milica incastona il dogma fondamentale del cristianesimo e lo trasmette al lettore, al fruitore della Poesia in modo del tutto naturale. Il felice, e fecondo, connubio della Poesia con il credo religioso non è nuovo, ma affonda le radici molto lontano nella storia dell’umanità. È sufficiente dare una rapida occhiata ai Salmi e agli inni religiosi, molto diffusi presso i popoli dell’antichità fino ai tempi più recenti. Questa tradizione continua ancora oggi, perché l’uomo, come stato autorevolmente asserito da Julien Ries, il quale fonda i suoi studi su Nathan Söderblom e Mircea Eliade, è naturaliter religiosus, religioso per natura. E Milica con questa lirica non esita ad affermare le origini cristiane della cultura europea, che oggi non pochi si arrabattano a disconoscere o, se non possono negare la realtà storica dei fatti, a sminuirne il fecondo apporto nella formazione della società e del cittadino.    

Durante la lettura, per cogliere l’intima essenza della lirica, bisogna sapersi districare nella potente e inattesa anfibologia, abilmente nascosta nel Te, non senza ragione scritto con l’iniziale maiuscola. Nella lirica la polisemia di alcuni lessemi, in linea con la poetica di Milica, acquista un ruolo dominante, importante, necessario per dipanare la complessità delle passioni e avvertire le tensioni spirituali, spesso obliterate da un apparente e fuorviante antropocentrismo. In questo caso la Poetessa si infutura nell’Archetipo dell’Amore, che, sotto l’aspetto prettamente umano, può scoprire e trovare nell’uomo, che le dona con sincerità il vero e grande Amore. In questo caso, non raro, per un atto fondamentale nell’esistenza dell’umanità, Dio si serve dell’uomo, anzi mediante il Verbum diventa uomo, e appaga l’animo della donna.

Nell’espletamento di questo dovere e di così importante necessità l’uomo per la donna diventa Dio, il Verbum sceso sulla terra per amare e consolare col suo amore, mediante la sofferenza. Il vero amore, come si evince dalla mistica e dalla letteratura, è anche, e soprattutto, sofferenza, sacrificio, oblazione di sé. Proprio questo lato oscuro, additato all’uomo dal Verbo incarnato, rende l’Amore unico, degno di appartenere a una dimensione, che non è di questa terra e che non tutti riescono a percepirne la portata. Perché l’uomo possa entrare nella vita della donna ed essere parte operante, deve staccarsi dalle scorie terrene e proiettarsi istante dopo istante nell’immenso e impalpabile mare del divino, e trovare la sognata serenità, il desiderato appagamento dello spirito, divenuto fonte di piacere, dono incommensurabile, unione ipostatica nella fusione del corpo e dell’anima.

L’espressione linguistica, affinata con un lungo e sagace magistero sotto la vigile sovrintendenza della coscienza del sé, che si incentra con la meditazione e gli slanci lirici nella trascendenza del Verbum, sotteso e inglobato nella fusione corporale e spirituale. La Poesia, infatti, se non suscita emozioni, se non invita il lettore a riflettere sul suo sé, se non lo costringe a introiettare il divino che lo circonda, come dice San Paolo, (I Cor 13) deve considerarsi aes sonans aut cymbalum tinniens: è, ovviamente, un pezzo di bronzo che suona oppure un cembalo fragoroso.    

In questi versi, e ancor di più nelle liriche successive, emerge una donna forte, costante e, dato il carattere fiero, non di rado arrogante. Pienamente consapevole del grande dono ricevuto da Dio, diventa ogni giorno strumento e messaggera di quell’arte, che domina con piacere passione equilibrio.

In questa lirica, come nelle altre, Milica dà il meglio di sé e riesce a veicolare il messaggio con equilibrio e talento, consapevole si sé e dei mezzi espressivi a disposizione. Anche un incidente, apparentemente banale, è motivo di poesia, costituisce un momento di amara riflessione e un’occasione per esaltare la gloria e l’onnipotenza di Dio e il potere, che nella vita del fedele hanno i santi, proposti dalla Chiesa come modelli da seguire, esempi da imitare.

Credo, però, che Milica abbia raggiunto il culmine della sua espressione poetica e della fede nella breve e intensa lirica, La guarigione, dedicata a San Basilio, uno dei più grandi santi della Chiesa tanto ortodossa quanto romana. La sua immediatezza riesce a suscitare intense emozioni, illuminanti riflessioni:

Con questa spina di pesce nella gola

mi sono indebolita

non posso andare avanti

e immenso è il deserto.

Non una parola di consolazione.

Intorno solo belve affamate.

Affrontando la forza dell’amore nei miei occhi

santificate dal Tuo volto

si avvicinano domate.

Aspetto tenacemente

che a guarigione mi porti

la Tua mano potente.

E mi salvi

con la Tua forza santa

              che glorifichi col Tuo nome!       

Dopo il pericoloso incidente, che avrebbe potuto mettere a repentaglio la vita della Poetessa, l’anima è sola, come in un deserto, nonostante si trovi in una grande città. Il fisico, debilitato, avverte che le forze vengono irrimediabilmente meno e sente ormai prossima l’ora del trapasso. La Poetessa è sola con se stessa, non sente vicino il suo simile, il prossimo; e avverte paura e smarrimento. Il luogo, qualche giorno pima affollato e pieno di voci, diviene un immenso deserto, nel quale regna il vuoto, la solitudine, la morte. Indebolita dal suo stato, divenuto sempre più precario, non riesce a proseguire nel cammino della vita, che comincia a sfaldarsi: è pronta a crollare e sprofondare nel gelido potere della morte. Consapevole delle difficoltà, nelle quali versa il suo fisico debilitato, l’animo rimane vigile, e, anche se corroborato solo dall’aiuto celeste, è desolato, deluso, amareggiato, perché, nel momento del bisogno, è solo, abbandonato da tutti, persino dagli amici, dalle persone più care e da quelle, che prima aveva vicino. Anzi queste, come belve fameliche, approfittano del suo stato, della sua debolezza fisica, aspettano il momento fatale per depredarla di quanto possiede, di abbandonarla in balia all’avverso destino.

Il quadro presentato nella prima parte della lirica è drammatico, con tinte fosche. Sembra che la Poetessa sia caduta nel più cupo e disperato pessimismo, che, ormai l’avvolge con le sue spirali mortali e non le permette di vedere la Luce, che, non del  tutto spenta, rimane annidata in un angolino della sua anima.

Sul suo volto, però, nonostante le difficoltà e il dolore, persistono ancora vivi i segni dell’Amore: dai suoi occhi sprizzano vivaci scintille dell’Amore, che, con la loro dolcezza, ammansiscono le belve. Queste, domate dalla Luce di Dio, si ravvedono e scoprono i tratti dell’amore reciproco e della fratellanza.

Gli ultimi versi costituiscono il canto della resurrezione, un inno alla vita, l’esaltazione della grazia di Dio, che, mediante l’intercessione di San Basilio, le dona la guarigione.

Anche in questa breve lirica Milica adopera in modo impareggiabile diversi e variegati registri linguistici, che le permettono di ottenere gli effetti voluti, mediante un tessuto narrativo semplice e lineare, almeno nell’apparenza. Al lettore piuttosto frettoloso, infatti, sfugge l’intenso e incessante lavoro di limatura, di ripensamento, di revisione.

A un’attenta analisi ermeneutica nella lirica si notano due momenti, due stati d’animo contrapposti: la disperazione e la fede nell’onnipotenza di Dio, che costituiscono i due poli, verso i quali è attratta l’attenzione del lettore. L’esegesi, però, non trascura i momenti concomitanti, che nella plastica evidenza rendono drammatico, e più umano, il componimento.

A questo punto non si può trascurare nella produzione lirica di Milica un aspetto, che, probabilmente, la critica non ha ancora messo in evidenza in tutta la sua portata: il concetto di Chiesa, con tutte le necessarie implicazioni, che comporta.

La Chiesa è l’insieme dei battezzati, uniti dall’amore per Dio e per il prossimo. E questa, nella sua realtà, è divisa in Chiesa trionfante, costituita da Dio e dai Santi, e in Chiesa militante, formata da tutti i battezzati, che vivono sulla terra e sperano, dopo la morte, di conseguire il Paradiso e unirsi col loro Padre celeste. Questo aspetto particolare, che Milica trasmette soprattutto con l’ultima lirica presa in considerazione, costituisce un elemento importante sotto molteplici aspetti: la Poetessa trasmette un concetto e una realtà, che non tutti conoscono e riescono a desumere dalla lettura della sua produzione poetica. Lungi dall’essere bigotta, Milica ha una chiara ed esatta concezione teologica della Chiesa e della sua missione. I battezzati, morti e risorti nel battesimo, sono uniti dalla carità, dall’amore fraterno, dal mutuo soccorso. Queste peculiarità dell’essere Cristiano, però, non sempre sono messe in pratica dai singoli membri della Chiesa militante, come la Poetessa mostra nella prima parte della lirica.

Con i suoi occhi pieni di amore conquista e rimprovera il prossimo, che l’ha abbandonata, e lo richiama alle promesse battesimali. Nel momento, nel quale la Chiesa militante prende coscienza del suo ruolo e della sua appartenenza, riprende il cammino additatole dal Verbum e ritrova se stessa nella carità. Non sfugge, ancora, l’intima unione tra la Chiesa, che vive nella sofferenza e nell’indifferenza, e la Chiesa trionfante, quella celeste, che prega e, con l’aiuto e l’intercessione dei santi, viene in soccorso di quella Chiesa, che si prepara ad essere accolta nel cielo, al termine della vita terrena.

Milica, però, con la sua salda formazione filosofica e teologica, avverte che il battezzato è parte della Chiesa, ma non è la Chiesa. L’indifferenza nei riguardi della sua sofferenza le viene dai fratelli battezzati, che non ottemperano ai mandati del Maestro, non dalla Chiesa, anche se ne sono parte necessaria.

Dall’attenta lettura e, in modo particolare, dalla meditazione sulla Poesia si ricavano spunti di riflessione e un insegnamento, che, se attuato, conduce necessariamente al miglioramento dell’individuo e della società, sia essa cristiana o no. Milica, in ogni caso, applica alla Poesia la funzione paideutica, ricavata dalla più alta e nobile tradizione.


Orazio Antonio Bologna

 

 

1 commento:

  1. Sono davvero garissima! E un grande onore per me.
    Saluto a tutti vostri lettori.

    Milica Jeftimijević Lilić

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