Camillo Coccione,
Lu silenzie di la sere. S.i.p., Poggio Fiorito (Te), 2020
Gian Piero Stefanoni collaboratore di Lèucade |
Resto sempre più convinto che in un'epoca
desacralizzata come la nostra, e di separazione della parola fra racconto del
mondo e mondo nell'opera di cancellazione- da sé e dal suo interrogarsi- cui va
intrappolandosi, abbia sempre più da noi in poesia nella sua espressione in
dialetto la forma più autentica del suo smarrimento. Ne è esempio quest'ultimo
lavoro, splendido, di Camillo Coccione nel parlare d'area teatina di
Poggiofiorito, Lanciano. Autore robusto per vigore e scorza di lingua,
addestrato alla scuola del padre Tommaso fisarmonicista tra i più validi
d'Abruzzo, e così dunque insieme musicalissimo (e musicista anch'esso) si
restituisce in questo suo quinto volume alla prova di un tempo finale; non solo
evidentemente per una realtà anagrafica accorciata dagli anni ma per una
discrepanza- soprattutto- sempre più evidente tra farsi della coscienza e
spazio della resa nell'interpretazione reciproca delle identità, l'uomo da una
parte e la sua aspirazione alla vita e terra dalla cui vita l'uomo prende
valore e dà movimento che se al disfacimento antropologico culturale e sociale
di questo rapporto non può che seguire
un misconoscimento e dunque il rischio concreto di una rottura con la
terra stessa- da cui nasce e a cui anche la terra con noi rinasce- pure ovviamente
ne consegue la stessa incapacità simbolica di perseguirla, celebrarla, nominarla.
Di qui come accennavamo l'impossibilità di riconoscersi e di cantare cui
perviene tanto dolorosamente e coraggiosamente Coccione ha in realtà il segno
di una universale disaderenza, di inospitalità se vogliamo se la capacità del
ricordo ha mutato linguaggio rotto lo specchio coi propri luoghi del credere. Un
poema della memoria allora , certo, come con la consueta sapienza Nicola Fiorentino
l'ha definita nella prefazione ma della memoria fondante diremmo, o rifondante,
negli stessi riferimenti cui Fiorentino rinvia nella sua proposta di futuro da
un passato forse "più umano e più giusto", senz'altro fattivo nella
costruzione comunitaria della vita e del lavoro. Ed è allora anche sì il
resoconto di una crisi evidentemente (ancora Fiorentino) del mondo che abbiamo
conosciuto- e del mondo in sé- ma anche del nostro modo di viverlo nelle parole
di un addestramento reciproco. Bene ripeterlo perché il dissidio raccontato da
Coccione ha nello sforzo di ritrovarne l'immagine a partire dalle sue infinite
pronunce la chiave di una risonanza a cui rifondarsi nel ritrovamento di un
senso ora confuso ma soprattutto, forse non più investigato, come non
necessario. La ricostruzione della terra allora dalla sua desolata solitudine,
dal buio di un mistero che non dà più suggestioni, senza più volti se non
quelle di una fatica sovente senza fatica, le braccia ferme, il lavoro fermo
nella piaga di una socialità chiusa, spenta nelle corde delle proprie disattese
mancanze, la ricostruzione, dicevamo, parte dalla tensione salda di un ascolto
cercato e condiviso delle aree di luce che pure risalgono nell'aderenza di
presente e memoria. Qui nella risposta lirica Coccione affondando dallo spazio
di luoghi, interni, anime care (l'amatissima madre su tutte, la bellezza di una
natura espansa dal sudore, la scansione partecipata dei tempi tra liturgie
feriali e della festa dove si viveva di
ulivi e tavole apparecchiate d'amore) tenta nel ritaglio di luce di una
infanzia ancora piena nella deriva adulta dell'uomo motivi e sacralità di un
quotidiano avverarsi che non si spegne richiamato al suo divino splendore ( e
per cui "ugne vvache è la storie di lu munne"- "ogni bocca è la
storia del mondo" nella sorte che nessuno può cambiare) . Questa è infatti
la voce della cui fonte non si stanca, che gli danza negli occhi "a ffa'
capì lu bbene che ci-à rimaste" ("a far capire il bene che è rimasto") nella nudità del silenzio e
delle ombre dove appunto pure resistono "ancore arpuste, forse
annascunnate/dentr'a li sunne antiche di zappunne/ch'aspette,
arruzzinite,/tarlite e stajndite,/arrete a nu spurtelle di pajare"
("ancora custodie, forze nascoste/dentro i sogni antichi di zappe/che
attendono arrugginite,/tarlate e senza più il taglio delle lame/dietro un
portello di pagliaio"). Ed allora ciò a cui volge e si rivolge nel suo
esser strenuamente poeta sempre è a quest'alleanza, a questa creaturalità di
luce su cui la stessa parola si fonda e fonda da lui a trar fuori e a
rammentarci uno stato di bisogno che ha la sua misura nella compassione e nella
compassione condivisa prima di tutto come meravigliosamente cantato in
quell'abecedario della vita e del canto celebrato nella lode di un tutto che si
chiama amore in cui (come da omonima poesia) nel nome di ogni cosa- come in noi
stessi- è il frutto di quel processo di
riconoscimento prima e di aderenza poi necessario alla nascita. Questo spiega
la sacralità dello sforzo di un versificare che dall'oscurità di un sentire che
pare più non rispondere pure là nella fede in ciò che eternamente torna e resta
al corrispondere chiama alla veglia, non si smarrisce indicando proprio nella
cruna di un buio che tutto pare inghiottire (come la montagna il cielo nella
bellissima similitudine) la sola via per continuare ad esserci dal cui interno
proprio come un bambino ricavando le orme di un ritorno fatto di piccoli e
significativi richiami, esatte ed antiche corrispondenze. In questo senso è
esemplificativo tra gli altri testi "Arriva da lu funne"
("Arriva dal fondo") in cui l'aria di canto in risposta tra due
figure dal fondo della vallata assume all'orecchio e al cuore del terzo che
l'ascolta la conferma di un mondo che ancora, nel tremore e nella gioia, nel
gusto dell'incontro si rilancia. Così il libro nella lotta tra scoramento e
perseveranza, spogliato del peso di illusioni che più non reggono, assume anche
il valore di una riflessione sulla poesia stessa, facendosi autore modernissimo
nel restituire alla parola il senso classico del suo intuire, il verso legato
allo spazio di rivelazione che dell'uomo ha bisogno per poter ancora dar vita e
prender vita. Incarnazione restituita al dire della terra dallo spazio di una
ferita non arida ma nella "ffede di n'arcute bone" ("credenza di
buon raccolto) e della gioia, allora, la storia come la campagna accudita e
ripulita dalla pietra, rivestita dei suoi tralci.
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