NAZARIO PARDINI, Nel frattempo viviamo, Guido Miano Editore, 2020, Collana Alcyone 2000.
Angela Ambrosini,
collaboratrice di Lèucade
Il
quotidiano s’intrappola nella poesia, le toglie il guscio della deferenza e con
negligente casualità le inocula la pungente ma profonda visione dell’epigramma.
Poi, in una modalità antitetica, la tessitura stilistica si appiana nel canto
lirico di ampio respiro. Questo ci sembra il gesto insito in gran parte della raccolta
Nel frattempo viviamo di Nazario Pardini, e cioè quel carattere “duale”
giustamente menzionato dal Concardi nella prefazione e dallo stesso autore riconosciuto
quale stilema ricorrente nell’intera silloge a livello sia tematico che
linguistico. Le poesie di Pardini seguono un andamento pendolare in bilico tra
facezia epigrammatica (breve vividumque carmen, direbbe Marziale) e un
verseggiare disteso e intimistico, tra un tessuto fonico sovente spinto fino a
creazioni fonosimboliche e un linguaggio classicheggiante e armonioso. I
seguenti esempi testimoniano chiaramente questo ritmo altalenante nel quale la
ricerca di un lessico spesso legato ad aspri valori timbrici non disdegna toscanismi
e capriole ritmiche e allitterative: “La gioia è come un ago in un pagliaio, /
ti dài da fare, sfraschi per trovarla /…/ ma la paglia finisce e c’è lo stollo,
/ a questo punto scopri l’imbroglio” (p.74) E ancora: “…o in qualche buca piena
di motriglia, / ti scatta la tristezza e il parapiglia” (p. 75). Altrove, per
contrasto, la componente acustica del linguaggio s’incardina proprio nella
semantica stessa di versi enunciati in una temperie classica: “Batte l’ora il
campanile / e il suono di campane per il piano / si porta dietro / spazi di
sagrato /../ i tocchi del metallo, l’incensiere, / scontri verbali per funi
campanare / di fanciulli assiepati a litigare” (p. 35).
In
tutti i casi, l’io reale non si dissocia mai dall’io poetico, in una viscerale
aderenza a un concetto di poesia esente da epidermici paludamenti letterari e che
fin dal titolo del libro, Nel frattempo viviamo, lascia intendere
l’aleatorietà di tante circostanze esistenziali, prive di rassicuranti schemi
di causa-effetto. Di qui il caos che serpeggia non solo nelle nostre vite, ma
nella stessa storia che viviamo oggi come in quella che ci ha preceduti ieri,
in egual misura avvolta da un’inquietante indifferenza di montaliana memoria.
Un “male di vivere” inestirpabile ma non insondabile, data la sua irrevocabile
evidenza. “L’ombra del fico / lontana dal mondo, / le guerre / Pol Pot
intrappolato / gli Albanesi che si affogano / in mare come falene / bruciate da
una luce virtuale / alla ricerca di una terra panamericana. / È il
primo giorno d’estate / il cui raggio esplode nel fiume/ a rifugiare il colore
dell’acqua. / Nel frattempo viviamo.” (p. 20) Vale la pena citare per intero questa intensa
poesia il cui ultimo verso dà il titolo alla raccolta, proprio a testimonianza dell’incurabile
malattia che tutto pervade. In altre occasioni, in una sorta di “catena di
eventi” simile a quella additataci da Eliot per introdurci nel suo “correlativo
oggettivo”, appaiono dati visivi, quasi fotogrammi di icastica dirompenza proiettati
verso una scansione narrativa presente-futuro sotto le spoglie di quella che
sembra un semplice enunciato descrittivo. Al riguardo, riteniamo opportuno
trascrivere per intero un’altra tra le più belle ed emblematiche liriche di
questo libro che, come la precedente, e come la stragrande maggioranza (tranne
rarissime eccezioni) risulta priva di titolo, quasi a voler assecondare un
flusso ininterrotto di sensazioni e considerazioni. “Saltava contento, gioioso,
/ non aveva bisogno di riposo, / era decenne / indenne da ricordi. // Là
davanti / nascosto tra il fogliame / trangugiava insaziabile un serpente / un
rospo / tra il gracidare indifferente / delle rane”. (p. 24) La prima parte
(non a caso separata dalla seconda da un doppio spazio tipografico) è il
fotogramma poetico, privo di soggetto nominale, di un bambino che salta felice,
dato descrittivo rinchiuso nel primo verso, poiché gli altri tre coincidono con
un dato dichiarativo: il poeta, in un incalzante gioco di rime, riflette
sull’età del bambino che lo rende “indenne da ricordi”, laddove il termine “ricordi”
sembra inconsciamente evocare un’infermità. Il deittico spaziale di lontananza
“là” ci introduce nella seconda parte e, con la fotografia inclemente della
serpe che trangugia il rospo in un’indifferenza cosmica, pare assumere
immediatamente anche il valore deittico del futuro in un presumibile scenario allegorico
riferito allo stesso bambino, assimilato, in un’ellissi temporale in avanti, al
destino dell’animale straziato. Ancora una volta il frammento di un aneddoto in
apparenza irrilevante è, per il poeta, nesso di unità di contenuti.
Di
particolare interesse è nella raccolta la tendenza a tematizzare la riflessione
sulla poesia e sul linguaggio in generale, una metapoesia che s’infittisce in
una messe di annotazioni in apparenza casuali che celano, al contrario, il
cruccio di Pardini (non solo rinomato poeta ma anche stimatissimo docente
universitario e critico letterario) riguardo all’essenza della “parola”, pane
quotidiano e strumento irrinunciabile di comunicazione. Spesso l’attenzione
dell’autore, qui poeta e filosofo insieme, si appunta sull’universo che ci
circonda, nel rimpianto di un’unità perduta, recuperabile solo attraverso
l’intuizione artistica. “La geometria che attorno / si distende / e visivo ti
rende / ogni reale / è l’insieme diviso e frammentato / di quello che compatto
/ era ai primordi. / L’unica voce / che unisce ogni elemento / è il momento
dell’arte, / è il sesto senso / che l’anima / possiede”. Il traguardo agognato approda
a “segmenti, anche pur brevi tratti / dell’universo intero, / libero ormai da scrimoli”.
(pp. 16-17)
Supponiamo che questi “segmenti”, altrove
evocati, siano proprio i vocaboli che a volte “non calzano” e che pertanto
“vanno spaesati, / come gli alati / confusi nell’aria / allo spirare dei venti”
(p. 32), a dimostrazione dell’inadeguatezza insita nel linguaggio umano,
incapace di assumere in sé e di rappresentare la complessità dell’universo,
facendo eco alla celebre definizione di Wittgenstein “I limiti del mio
linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Paradossalmente, secondo il
grande filosofo viennese, “ciò che si esprime nel linguaggio, noi
non possiamo esprimerlo per mezzo del linguaggio” e questa è la paralisi che
attanaglia da sempre poeti e pensatori
inducendoli a una sorta di nostalgia, più o meno inespressa, dei
primordi del linguaggio stesso, come anche il nostro poeta in modo struggente e
stringente confessa “Io non so le parole del giorno, / ma vorrei tra la luce
che varia / sapere i tinniti di lingue lontane, / i primitivi sintagmi sapere /
di vetusti fonemi di foglie” (p. 43). “La parola non è forse sostanza?” si
chiede in una delle poche liriche introdotte da un titolo (nella fattispecie
emblematico, Masturbazioni mentali) per poi pervenire, in versi
dall’incedere vagamente ungarettiano, a una rinuncia totale della scrittura:
“Non ho più voglia / di gridare. / Riposeranno i pensieri. / Il crepitare dei
miei sogni / s’impiglia / nell’aria. / Non è più il tempo / degli inchiostri e
dei pennini” (p. 57).
Ma il
rovello, o piuttosto la burla per cui la realtà fenomenica sia nient’altro che il
risultato di un’invenzione effimera del poeta, di ogni poeta, si affaccia a
tratti fra i versi di questa singolare, argutamente spiazzante raccolta e, così
come Pessoa nella sua celebre Autopsicografia asserisce che “il poeta è
un fingitore / finge così intensamente / che arriva a fingere che è dolore / il
dolore che sente veramente”, parimenti Pardini afferma nella poesia Su “la
bugia” che “La bugia ripetuta / è la voglia incalzante di squarciare/ la
cappa opprimente della verità. /…/ Non esiste poeta / che della bugia / non ne
faccia un’arte /…/ Io sono un bugiardo incallito / fino al punto che quando
dico la verità / mi sembra di dire una bugia” (p. 99). Così la piroetta, la
capriola, la finzione si rivelano essenza della poesia e dello stesso destino:
“Nemmeno i Titani / sono riusciti a sconfiggere / il destino, / il solo verso /
è quello di ingannarlo / con l’immaginazione. // Le chiamano bugie, utopie,
fantasie / ma sono l’anima delle poesie. // Il disastro fatale / quando
arriverà / se ne avrà pure a male”. (p. 53).
Ma la contrapposizione fra i due poli tematici ed espressivi, di cui dicevamo, è sempre in agguato e spinge l’autore a una dirompente confessione di trascendenza: “Non ho più parole da consumare / e mi abbrucia / l’immensità imprigionata” (p. 105). Stessa connotazione imprimono nel nostro poeta, appassionato estimatore di Puccini, le note del grande compositore toscano le cui opere sono “uno dei pochi messaggi” in grado di trasmettergli “attimi di certezza / sull’esistenza del soprannaturale” (p. 61). Il valore alogico della musica trabocca nella rivelazione fulminea dell’enigma e del suo codice segreto. Nuovamente si affaccia nell’intimo del poeta il dubbio sull’inadeguatezza della parola: “Non è più il tempo / di spendere parole / sui candori / dei fogli troppo lievi alle intemperie”. (p. 92)
Angela Ambrosini
Nessun commento:
Posta un commento