ANGELA AMBROSINI
Recensione
di:
Salvatore Quasimodo e Maria Cumani, Il
fuoco tra le dita. Il poeta e la
danzatrice, a cura di Mariacristina Pianta e Alessandro Quasimodo, Abramo
Editore, 2011.
Angela Ambrosini, collaboratrice di Lèucade |
Il libro, come puntualizza nella premessa Mariacristina Pianta, attenta
curatrice, insieme a Alessandro Quasimodo, dei testi autografi, è il risultato
della strutturazione di materiale di varia natura, un coacervo di emozioni, dati,
osservazioni, testimonianze di Maria Cumani, intenzionalmente assemblati senza
tener conto dell’ordine cronologico “per
avere una maggiore libertà nello stabilire nessi analogici tra argomenti comuni
e creare un’autentica conversazione tra il lettore e l’autrice” (p. 7). È
il felice esito di una tecnica di montaggio che, tra l’altro, vede convergere
stralci di diario e lettere di Maria con testimonianze di personaggi di spicco
dell’intellighenzia del tempo, estrapolati dall’Archivio Salvatore Quasimodo curato da Antonio D’Amico. Sono lettere che
occupano la sezione finale del volume a ricostruire la fitta rete di contatti
che la posizione e la professione della Cumani le imponevano e le procuravano. Compaiono
i nomi di Giorgio Morandi, Francesco Messina, Aligi Sassu, Gianfilippo
Usellini, Alberto Savinio (fratello di Giorgio de Chirico) a dimostrazione
dell’interessamento della stessa Maria anche per il mondo dell’arte e della
pittura, come ribadito dal disegno di Renato Guttuso che la ritrae in movimento
di danza.
E su tutti ovviamente campeggia e vibra la figura di Salvatore, suo marito,
ed è, giustamente, proprio dalle lettere del grande poeta indirizzate a Maria
che prende le mosse “Il fuoco tra le dita”.
Una dozzina di missive nelle quali il Premio Nobel si firma ora con il proprio
cognome, ora con gli appellativi di Virgilio e di Apollion, rivolgendosi
altresì all’amata con il nomignolo di Pucci datole dal padre, o con “Delfica” o
“Erato” ed è proprio in questa sezione del libro che si propongono le tre
splendide liriche espressamente dedicate a lei: “Delfica”, “Elegos per la danzatrice Maria Cumani” e “L’alto veliero”.
Interessante è il valore emblematico di questi appellativi. Su “Virgilio”
inutile spendere parole, è chiara l’intenzione di Quasimodo di identificarsi
con il poeta latino invocandolo, come fece Dante, a illustre guida della sua
ispirazione. Anche “Delfica” in qualche modo riecheggia il sommo poeta che
nella “lieta Delfica deità” ci indica Apollo venerato a Delfi, laddove la
stessa Maria, a sorpresa, in una lettera del 1995, ribadisce la funzione sacerdotale insita nel suo
cognome Cumani che si può ricollegare
alla figura della Sibilla cumana.[1] Ma anche su “Apollion”
vale la pena fare una breve riflessione. Così come lo stesso Salvatore ebbe a
precisare in una lettera all’amata (p. 23), Apollion è l’angelo distruttore, la
divinità degli abissi, opposto a Erato, musa della poesia amorosa, quindi
dell’armonia e questa opposizione (se è vero il detto latino nomen omen) pare prefigurare il
difficile, tormentato rapporto che si sarebbe poi creato tra i due e nel quale
Maria sarebbe stata proprio l’elemento di equilibrio, di armonia, in
contrapposizione all’inquietudine del marito, poi sfociata nella separazione. Questa
contrapposizione tra i due si evince chiaramente anche dal tono delle lettere
che delinea temperamenti diversi. Salvatore scrive missive di altissima valenza
poetica, pervase da un’aggettivazione e una costruzione squisitamente
letterarie, impreziosite da frequenti richiami mitologici, a volte dal sapore
quasi dannunziano. Se, è stato detto, la lettera è in un certo senso “la metà
di un dialogo”, le lettere di Salvatore sono splendidi monologhi; più che
lettere private echeggiano come epistole destinate coscientemente alla
divulgazione e alla pubblicazione. Il suo incedere nei confronti della
destinataria è seduttivo, scrive per compiacere e per piacere sia a Maria che a
sé stesso. Di contro, Maria scrive senza mascheramenti né narcisismi e a questa
diversa scala di valori si ispira la diversa cifra dei documenti raccolti in Il fuoco tra le dita: pagine di diario,
lettere, brevi racconti, resoconti di sogni, spunti di monologhi da recitare,
strofe di versi. Il tutto a comporre un diario della mente, una specie di journal intime sempre in bilico tra
poesia e autobiografia, non pensato per la pubblicazione (come di solito
avviene nella stesura di un diario che sia un’autobiografia inconsapevole) e nel
quale i pensieri, le riflessioni, i ricordi, fluttuano liberamente in un
resoconto non narrativo di eventi e circostanze e, soprattutto, di affetti e
moti d’animo. Il diario, diceva un grande diarista, David Thoreau, “è un
registro di esperienze e crescita, non una cassaforte di cose ben fatte e ben
dette”. E un diario spesso somiglia per sua natura a un Cuore segreto dell’orologio, per usare il suggestivo titolo
dell’opera di Elias Canetti, anche se “il cuore segreto dell’orologio” di Maria
non pulsa al ritmo della sentenziosità aforistica di quello del Premio Nobel
bulgaro. Senza indulgere a facili tentazioni invocando un’ illustre parentela di
genere nello sterminato Zibaldone
leopardiano (applicabile per lo meno come ideale “sottotitolo” al volume della
Cumani per l’eterogeneità degli argomenti e del materiale proposti), non può
essere sottaciuta la dichiarata ammirazione di Maria per Katherine Mansfield: Come si respira nelle sue pagine. Tutto vi è
trasfigurato, esclama (p. 67), più volte menzionandola come ispiratrice. Ma
il Diario della scrittrice
neozelandese è comunque lontano da
quello di Maria sia per il mondo che Katherine ritrae, giustamente definito
dalla curatrice M. Pianta a volte “angusto”, sia per il tono stilistico, nella
Mansfield notoriamente innervato del realismo del suo maestro, Chekov, laddove M.
Pianta ravvisa (forse in modo azzardato) un’impronta di “realismo magico” (p. 30)
nella Cumani, opinione sicuramente dovuta a quella commistione di lirismo-autobiografismo
di cui dicevamo prima. A parte, dunque, l’egida tutelare della Mansfield,
consapevolmente scelta da Maria, si potrebbe individuare una certa assonanza con
Il mestiere di vivere di Cesare
Pavese, assonanza beninteso casuale, se consideriamo la pressoché perfetta coincidenza
cronologica d’inizio di stesura dei due diari (1935 quello di Pavese, 1936
quello di Maria) e la pubblicazione postuma di entrambi, protraendosi quello
della Cumani fino al 1992, ben oltre cioè il 1950, data del suicidio di Pavese.
Anche il diario del grande scrittore delle Langhe, di perfetta tenuta stilistica
(e non possiamo sottacere neanche la forte coesione formale del testo di Maria,
che di quello non condivide la visione cupa e a volte cinica della vita), è
organizzato in un impianto anti-narrativo che procede per sussulti, spunti,
allusioni fugaci di eventi, con frasi brevi e spesso impersonalmente costruite
all’infinito quasi per non perdere il contatto con l’idea. Vorrei, a proposito
di “idea”, ipotizzare un’ardita analogia con le arti visive. Nell’annosa querelle
rinascimentale sul primato delle arti, è noto come il Vasari attribuisca al
disegno il ruolo principe, essendo più vicino all’idea di quanto non lo siano
pittura e scultura. Potrei parimenti affermare che anche il diario (senza per
questo volergli assegnare il primato di genere della scrittura) è sicuramente
più vicino all’idea di quanto non lo siano poesia e prosa letteraria, troppo
spesso soggiogate alla dittatura dello stile, laddove la diaristica proprio per
la sua immediatezza, esattamente come nel disegno, coincide con
l’incompiutezza. La scoperta del sé, il
dialogo con il nostro io sotterraneo cui indulge Maria (p. 50), è alla base
della creazione e della scrittura e si noti come la pratica stessa della
scrittura riservi questa scoperta del sé a chi la compie solo mentre scrive. Sto
facendo mia la riflessione della filosofa e poetessa spagnola Maria Zambrano
riguardo alla pratica dello scrivere: il
segreto si rivela allo scrittore mentre lo scrive, mai quando lo pronuncia,
[2] cioè non è “prima” di
mettere nero su bianco che ci si svela il segreto dell’io, ma proprio nel corso
della scrittura stessa, come se la parola orale difettasse di aderenza piena
all’idea. E questo è ancor più vero nel caso di un diario o journal intime.
Ma addentriamoci negli scritti di Maria. Si snodano due livelli di
lettura. Il livello superiore, strettamente diaristico o diacronico, è in
sintonia continua con un secondo livello più profondo, sincronico, che unifica
tutte le pagine, dalle più lontane della giovinezza fino alle ultime dell’età
matura, attraverso quelle che sono le grandi categorie dell’esistenza (amore, libertà,
dolore) e che spaziano longitudinalmente in tutto il libro legandolo come un
collante in un’architettura a poliedro. Di qui, sicuramente, la volontà dei
curatori di non tener conto, come dicavamo, dell’ordine cronologico perché il
testo, nonostante il fitto reticolo di date in cui è incastonato nella sua struttura
esterna, viene in parte meno alla sua funzione strettamente diaristica di
archiviare fatti ed eventi, dando priorità e vasto respiro, come dicevamo, alla
meditazione introspettiva sulla vita, alla ricerca di una solidità dell’essere (il
livello “sincronico” di cui parlavamo prima), che si spingono oltre le
apparenze, oltre i fatti. Per meglio dire, lo sguardo interno prevale su quello
esterno, come testimonia anche l’amore di Maria per il genere poetico. Contemporaneamente
la Cumani infatti scriveva poesie di cui abbiamo (sempre a cura del figlio e di
M. Pianta) una bellissima raccolta, O
forse tutto non è stato, in una sobria, raffinata veste editoriale per i
tipi di Nicolodi Editore. Dei suoi versi hanno scritto Afonso Gatto, Giovanni
Raboni, Vittorio Sereni. Questa produzione lirica, alla quale Maria fu
inizialmente incoraggiata dal marito Salvatore, dà fede del suo incoercibile
bisogno di esprimersi non solo con il fisico attraverso la danza, ma anche
attraverso la parola: Vorrei creare non
solo col movimento, ma anche con la parola
(p.77). Più volte nel corso del diario (e dei suoi versi) manifesta
questo desiderio: Devo vincermi, devo
imparare il duro lavoro dello scrivere (p. 89). E ancora: Io devo danzare e
anche scrivere di me per trovare una mia voce. Io so di non avere ancora una
mia voce, ma sento che devo trovarla. (p. 55)
Qual è il rapporto che lega dunque Maria
Cumani alla parola? Non esitiamo a
rispondere: lo stesso che la unisce alla danza. Dicevamo della struttura
sostanzialmente antinarrativa di questo “zibaldone”, struttura che gli imprime la
leggerezza della danza: Maria sembra danzare con le parole e con i pensieri con
la stessa levità con cui danzava le sue esibizioni ben lontane dall’accademicità
a volte un po’ asfittica del balletto classico, imbrigliato spesso in coreografie
prone ai dettami di ingombranti scenografie. Maria, al contrario, ispirata
allieva della Ruskaja, è anche ammiratrice incondizionata di Isadora Duncan che
declamava “Io danzo la mia anima” (in sintonia con la famosa definizione che
Carlos Gardel dette del tango, “un sentimento triste che si danza”). Maria
danzava a piedi nudi, danzava anche senza musica e senza complicati apparati
scenografici, postulando una danza dove
la danzatrice non rappresentasse qualcosa, ma fosse qualcosa (p. 145) e
in una bella lettera a Rossana Rossanda, quando questa era responsabile della
Casa della Cultura di Milano, delinea la basilare differenza tra balletto classico (dal movimento periferico)
e la danza moderna, dal movimento
centrale (p.134). Torna l’opposizione sguardo interno-sguardo esterno. Una
lettera dei genitori di una sua giovane allieva (Maria si dedicò con passione
anche all’insegnamento della danza) è illuminante in tal senso, dichiarando
costoro che con nessun’altra insegnante avrebbe acquistato la loro bambina non una grazia superficiale, meccanica e
sovrapposta, ma una capienza delle possibilità espressive del suo corpo e dei
suoi dinamismi (p.143). Anche
negli scritti, sia in prosa che in versi, la Cumani si tiene ugualmente lontana
da questa “grazia meccanica superficiale e sovrapposta” che purtroppo
contraddistingue sovente molta scrittura femminile. Altrove, nella risposta ai
quesiti da lei stessa formulati per i docenti di danza su incarico dell’Accademia
Nazionale, instaura un significativo paragone tra danza e poesia, affermando
che come la poesia…pur essendo legata al
suo metro e al suo ritmo è autonoma, così è autonoma la danza, anche se legata
alla musica…alla quale chiede… la sua
misura (p.137).
Spesso nelle sue parole troviamo l’attitudine alla danza, non solo come
musicalità, ma persino come disposizione dello spazio tipografico. Voglio
riferirmi, a mo’ di esempio, a Nenja,
presente nel suo volume di poesie[3] e che merita una breve
digressione. Il titolo è indicativo, “nenia” allude a ripetitività, litania,
stato ipnotico e invito al sogno, additandoci pertanto non solo la struttura,
ma anche il contenuto stesso della composizione, che non a caso si chiude con
il motivo del sogno. La lirica si snoda attraverso un climax crescente degno
del Bolero di Ravel, incalzato dal
polisindeto e dall’anadiplosi, cioè dalla ripresa insistita, quasi in ogni
capoverso, dell’ultima parola del verso precedente, fino a convergere nel
bellissimo chiasmo finale che imprime alla poesia un tratto fortemente visivo.
Se si potessero tradurre visivamente infatti le parole in uno schema, in un diagramma,
vedremmo come si dispongono in una spazialità ondeggiante come una danza, è una
poesia da “vedere” oltre che da ascoltare, permeata da una marcata evidenza
tipografica. Si potrebbe persino coreografare, dato che la disposizione
spaziale dei termini pare evocare il vorticoso fluttuare dei fiocchi di neve,
soggetto della poesia stessa. Qui potremmo senza dubbio affermare che Maria
danza con le parole creando una specie di calligramma coreografico.
Veniamo ora ai temi focali della sua scrittura, a quelle che abbiamo
definito le eterne categorie dell’esistere: libertà, amore, dolore.
Cominciamo proprio dalla libertà, libertà che, in ambito civile,
coincide con la volontà di pace, si pensi alle pagine scritte in tempo di
guerra, alla splendida, breve sezione intitolata Un giorno rubato agli dei in cui rievoca la gioia mansueta con cui, qualche giorno dopo i bombardamenti di
Genova e Milano del 13 agosto 1943, visse una giornata di sole nel Golfo del
Tigullio, dove, ospite di una sua allieva di danza, venne raggiunta da
Salvatore. La gioia di sapere illesa la sua famiglia, pur nella distruzione
della casa, le fece assaporare tutta la semplice bellezza di un giorno di sole,
il grande sole della costellazione del
Leone, segno zodiacale di Salvatore, in piena pace interiore al di là della preoccupazione del nostro “giorno dopo giorno”
in tempi oscuri di lacrime e di lutti, alludendo al titolo della raccolta
poetica di Quasimodo, Giorno dopo giorno,
come sappiamo inserita, dal 1947, nel secondo periodo della sua poetica con
l’impegno precipuo di “rifare l’uomo”. Così si sofferma Maria sul disappunto
manifestato dalla cosiddetta “società bene”:
Ebbene quel nostro giorno fece scandalo
nella piccola baia mondana, ove le gentili signore non accettarono il nostro
modo di essere: parole di critica aspra ci raggiunsero: in perfetto accordo e
senza parole non avevamo voluto perdere l’ultima giornata magica che la sorte
avversa non aveva ancora invaso. Superando la contrarietà per la perdita di
beni provvisori (non così certo avremmo reagito se i nostri cari fossero stati
colpiti) abbiamo saputo allontanare nel tempo l’accaduto respingendolo
dall’oggi, nel passato di mesi o anche di anni. (p. 37)
E pensare che avevano voluto solo
strappare agli dei un giorno felice
(…) di viva forza. Stesso tono dai
convinti accenti di impegno umano e civile, sia che alluda alla guerra in corso in Corea o che si riferisca
alla condizione della donna moderna, si evince nel “saluto del Comitato
Provinciale dei Partigiani per la Pace” da lei portato al “Congresso delle
Donne Italiane” (p.183). Queste pagine costituiscono uno dei pochi passaggi
narrativi, discorsivi. Altro esempio in cui la sua scrittura si fa più
concreta, attenta ai particolari e incline alla discorsività è da ravvisare in
una bella, breve lettera del 1984 indirizzata al marito e alla madre morti
ormai da anni, lettera nella quale si rivolge ai due come se fossero vivi,
chiedendo inoltre la loro protezione perché riesca
a scrivere ancora e ancora (p. 53), ribadendo così la funzione vitale che
per lei ha la scrittura, alter ego della danza. Ma dove, curiosamente, il
diario si fa esposizione circostanziata di particolari è la trattazione
tematica dei sogni. La realtà onirica appare più volte, e in modo insolito, nel
diario, dando spazio a una narratività che per il resto affiora solo attraverso
frammenti di racconti. Il motivo del sogno torna spesso anche nei Monologhi (spunti per la recitazione che
in realtà paiono stralci di diario più controllati sotto il profilo formale),
come pure nelle poesie, nel tentativo forse di recuperare, dominandolo,
quell’irrazionale che si annida in ognuno di noi. C’è poi una sezione specifica intitolata Alcuni sogni nella quale la
descrittività si fa meticolosa e incisiva àncora impigliata nella concretezza
del reale, illustrando con chiarezza razionale situazioni irrazionali. Dal
sogno al pregevole esempio di ecfrasi, evocata come una visione, il passo è
breve: nella minuziosa descrizione del Ciclo degli affreschi dedicati “ai
giochi e alle facezie” di Palazzo Borromei a Milano (pp. 125-128), prendono
vita figure e atmosfere in una circolarità di impianto che riproduce persino la
circolarità in cui si articola la visita, dalla chiarità solare del cortile all’ombra
della saletta terrena, per poi tornare
al sole, riproponendosi la concezione
del movimento, del ritmo, anche nella descrizione delle pitture.
Un motivo ricorrente nella meditazione di Maria è indicato dalle parole
“esilio-solitudine- assenza”. Si percepisce in
desolata assenza di vita (p. 64), in eclissi
della vita. Fuori della vita (p. 44), affermando di sentirsi morta a tutto, a tutti (p. 94) fino a dubitare della sua
identità: non più mia io sono (p.
77), o ancora: Le mie ore sembrano
provvisorie come se non mi appartenessero. Partecipo ai miei giorni non con
tutto il mio essere (p. 41), meditazioni
che trovano riscontro puntuale anche nella produzione poetica.
Un termine, credo, in un certo senso “binario” a quello della solitudine
è cenere, la cenere come
nientificazione, risultato di distruzione, di devastante incendio della gioia e
della giovinezza. Il termine “cenere” è insito persino nel suggestivo titolo di
Il fuoco tra le dita, titolo che coincide
con il primo verso di una lirica della raccolta O forse tutto non è stato:
Tenevo
il fuoco tra le dita/ora ho cenere nei pugni chiusi. [4] Espressione questa che sembra
avere una sua anticipazione in una lettera del 1954 indirizzata a Salvatore: Cenere è ormai tutto di me, un tempo così
accesa io ero, in ogni attimo aperta ad accogliere vita e dare vita in risposta
(p. 83).
Questo senso d’inadeguatezza, di perdita della solarità d’un tempo le è
instillato a poco a poco dalla perdita dell’amore di Salvatore, verso le cui debolezze
d’uomo Maria mantenne un atteggiamento di grande compostezza, esprimendo un
giudizio costantemente pacato, mai mosso da rancore o da sentimenti di
vendetta. Solo amarezza, senso di privazione, di rimpianto, sempre fedele
all’amore perduto, senza ossessione né possessione, ma semplicemente attenta e
devota nella sua condizione di donna sola sia pur confortata dall’amore del
figlio e dalla sua intensa attività di danzatrice, coreografa, attrice. Il suo
sguardo disincantato ben le rivela le debolezze dell’uomo Quasimodo, quando gli
rimprovera nelle traduzioni del Vangelo di Giovanni di non capirne se non la lettera dato che mai lo spirito lo toccò (p. 100), quando con amarezza osserva che egli si illude di poter vivere meglio seppellendo il passato senza
averlo capito (p.98), quando
rivolgendosi idealmente a lui riflette: le
tue ribellioni erano per ribellarti alle tue angosce (p. 39), o quando
senza false indulgenze scrive a mo’ di epitaffio: E’ morto uno scrittore, era
vecchio e in più era egoista, prendeva in giro tutti e non amava nessuno
(p. 41), per poi sommessamente
scrivere quasi in punta di penna: So che non ci siamo mai lasciati (p. 39).
Quella che Maria opera nei confronti dell’ex marito è una nobile impresa di
restituzione di dignità attraverso l’amore. Si fa carico di capire l’uomo nelle
sue debolezze e tormenti, nella sua asprezza di carattere più volte causa di
sofferenze, e in modo capillare, tenace, inarrestabile, Maria porta a
compimento con questo diario, attraverso le sue riflessioni, non solo la
propria vita, ma anche quella di lui, quasi in un impossibile intento (per citare
di nuovo il celebre precetto del Premio Nobel dopo la furia della guerra) di rifare l’uomo. Portare a compimento la vita
dell’uomo amato, oltre che la propria, questo è il fine ultimo del diario di
Maria Cumani, spesso ricorrendo anche a una deliberata intertestualità. Sono
decine i versi del marito che, puntualmente citati tra virgolette, possiamo
infatti intercettare sia nelle pagine del diario che tra le strofe delle
proprie liriche, quasi a voler intavolare con lui un dialogo a volte tenero, a
volte aspro, ma mai velenoso, come ci si potrebbe aspettare da una donna tradita senza avere tradito (p.51).
E su tutto, sul senso di solitudine, di estraneità, di dissoluzione del
rapporto con Salvatore, trionfa l’amore per il figlio che si traduce in amore
stesso per la vita, inducendola a una presenza più assidua - Riparerò il tempo perduto. Ogni mia ora
dovrà diventare presenza- (p.52), nella consapevolezza che sia lei che il marito non sono neppure di loro stessi, ma del loro
tormento, della loro arte, del loro male di vivere (p.74).
Alla stessa stregua il tema dell’infanzia, contemplata attraverso gli
occhi del figlio bambino, o rievocata nei luminosi ricordi della casa di Caldè,
sul Lago Maggiore, costituisce un sottile, indistruttibile legame tra passato e
presente tanto da farle affermare nel 1992, pochi anni prima della morte: Tutto si fa vivo in me quello che fu (p.114). Nella persistenza della memoria
ricorda lo sforzo continuo per penetrare
più dentro alle cose, nella volontà di vivere
la vita vegetale del giardino (p.81) dell’amata casa sul lago. Ma le allusioni di Maria all’infanzia
nulla hanno di lezioso o manierato e si estendono sotto mentite spoglie,
crediamo, anche in alcune pagine dei brevi racconti pubblicati nel “Giornale di
Lecco” nel 1962 (ad es. Sogni, danza,
bambine e Volti fanciulli).
Su tutto e su tutti prevale un radicato senso etico che a volte si fa
religiosa constatazione dell’ineluttabilità del dolore e del doloroso concetto
di colpa indissolubilmente legato al destino dell’uomo: …e quanto bisogna soffrire per arrivare a capire che “La colpa è di tutti
e di nessuno”. Tutti, tutti siamo colpevoli. Il dare dolore e ricevere dolore è
inevitabile, la vita è crudele, lo è stata e lo è e lo sarà in ogni tempo e in
ogni luogo. Fortunati quelli la cui fede importante è vivere e saper soffrire
con dignità di uomini e donne (p.51). La sua meditazione religiosa si
spinge fino alla dogmatica, possente affermazione che si può credere solo in ciò che non si può nemmeno confutare (p.73),
altrove riecheggiando consapevolmente Sant’Agostino nella constatazione che non c’è salvezza se non nel sacro
(p.116), sebbene nella realistica, sconfortante presa di coscienza che, pur
sapendo che l’unica via di salvezza è la
via del Cristo, lei non è capace di percorrerla, potendola solo guardare (p.46). La chiave per
districarsi dal groviglio caotico delle apparenze è l’amore: le cose che si offrono come favola o come
verità non sono che una torre di Babele se l’amore non le lega”. (p. 105),
e quasi torna alla mente il Pascoli della prefazione ai Canti di Castelvecchio (Ma la
vita senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione … è un delirio, o
intermittente o continuo, o stolido o tragico).
Chi scrive, afferma Duccio Demetrio [5] “sa di non riuscire a
saziare la nostra domanda di senso, eppure, non smette di cercare
l’inimmaginabile. Non più fuori di sé, ma in quel lavoro interiore, in discesa
verso l’invisibile”. E questo fa in modo inesausto Maria, istintivamente
spostando gli interrogativi della propria scrittura, intuendo che questo
“spostamento” è “l’unico centro plausibile” [6] della scrittura stessa,
come quando si chiede, in versi di toccante pregnanza, quale sia per l’umanità
la rotta da seguire dopo tante sofferenze:
Ci
furono campi di sterminio
e
non abbiamo capito
ci
furono e ci sono i poveri, i malati
i
disperati e non abbiamo capito.
Sono
indegna, indegna.
Che
posso fare per non perdermi per sempre,
per
illuminarmi ancora,
per
capire, per capire.
Dio,
apri la solitudine
(p. 104)
E con questa splendida invocazione, con la quale riesce a riscattarsi
dalla sterilità della solitudine esistenziale, ci accomiatiamo da Maria, non
senza aver prima indugiato con lo sguardo sulla bella foto di copertina de Il fuoco tra le dita che la ritrae
danzando sulla spiaggia di Bocca di Magra in atteggiamento idealmente sovrapposto
alla limpida stilizzazione del disegno di Guttuso. Il nome della collana “Le
onde” in cui è pubblicato il diario, evoca, come a chiare lettere spiega nella
bandella il curatore della collana stessa, il flusso e riflusso delle idee da
sempre alternantesi come un moto ondoso nella storia della letteratura, moto
ondoso stilizzato sulla copertina, quasi tautologicamente, nella fascia
verticale di ghirigori lungo il lato sinistro, e che trova pieno, palese
riscontro nell’immagine delle onde del mare raffigurate nella foto. Osserviamo
di nuovo Maria che corre danzando incontro all’acqua e, a mo’ di ecfrasi
adattata a posteriori, leggiamo questo bellissimo stralcio del suo diario:
I
passi del mare sulla riva. Al mattino cadendo dai sogni, i miei capelli
fasciati di silenzio, le vele prive di soffio. Il mare celebra le sue nozze con
l’aria nel guscio di silenzio della conchiglia. (p. 40)
Poche parole, una goccia nelle acque profonde di una vita.
Angela Ambrosini
[1] Maria Cumani, O forse tutto non è stato, Nicolodi Editore, 2003, p. 27
[2] Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, 1996, p. 26.
[3] Op. cit. p. 61
[4] Op. cit. p. 80
[5] Duccio Demetrio, Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, Raffaello Cortina Editore, 2011, p. 108.
[6] Ibid. p. 129
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