HOC MIHI CONTINGAT di Nazario Pardini
Nota di lettura di Adriana
Pedicini
ELEGIE
Il
confine tra la percezione del reale e l’oggettività è talmente personale che
accade a ciascuno di confondere spesso i dati o, al contrario, di amalgamarli
in un impasto oscillante tra sensazione e memoria. tra desiderio e nostalgia,
tra dolore e speranza.
È come
vivere un sogno assolutamente irreale o trasognare la realtà perché diventi più
accettabile, più cara. Sicché le foglie morte di tanti viali d’autunno
diventano il tappeto verde carezzato da”
i suoi piedi nudi/per dare luce e rendermi felice”. (Melanconico autunno).
Tale
urgenza richiede talvolta il dispiegamento del ritmo prosastico per poetare una
sorta di favola sull’intreccio fornito da contesto paesaggistico, personaggi
attinti dal mondo fiabesco, memoria e sforzo onirico di vedere volti cari e
ascoltare voci amate. Il tutto in una dimensione fantastica, con una leggiadria
e una cura del dettaglio che incantano. Tra le righe la morale implicita della
bellezza, della fiducia, delle fede in chi non c’è più e, in conclusione, la
costante presenza del suono montano, simbolo di un dialogo d’amore destinato a
durare all’infinito. (Laura e il bosco degli ulivi).
Il
ruolo fondamentale è comunque quello della memoria, del ricordo che si avvale
di un lessico capace di evocare suoni, odori, aspetti precisi della vita a
contatto con la natura come “filari,
pampini vecchi, arie di monte, di mare, tabacchi dei vitigni, chicchi
biondeggianti”.
Ed è
in tale contesto che, mentre tutto sembra illanguidirsi prima di scomparire ai
sensi, che avviene la suggestione più grande: il pensiero. “Ti penso”,
collocato sapientemente all’inizio di questa deliziosa ode dall’omonimo titolo,
sembra l’unica residuale possibilità in una realtà ormai evanescente.
“Disperdo all’aria ferma/il fumo della
pipa/e guardo il campo aperto/.
Chi di
noi non ha vissuto questa specie di piacevole neghittosità in cui tutto si
decanta e si disperde tranne il pensiero d’amore? Il quale ricorre più volte
nel nostro Poeta; soprattutto per la sua Delia.
“t’accompagna un canto/su per un manto
verde/dove si perde ancora il tuo sorriso/… (A Delia)
per
giungere allo struggimento degli incantevoli versi finali della poesia Alla mia
donna.
Se odi una voce la sera……………/sono io che
affido ai miei flutti/un animo stanco e deserto./ alla donna che amo da sempre/…
Continuando
a leggere le liriche del Pardini raccolte nella prima parte del volume che
stiamo trattando, non posso non cogliere echi montaliani e mi sovviene “Meriggiare
pallido e assorto”, e il verso fondamentale sentire
con triste meraviglia/com’è tutta la vita e il suo travaglio/.
Basterebbe
scorrere i versi di tante liriche da Aria di luce a Silenzi, da Tramonto a Le
barche, da Anima a Freddo di sera, per capire come sia corale la pena di
vivere, come tutto il Creato soffra di fatica, di desiderio, di agognata pace e
riposo. E ancora, nelle poesie che chiudono questa prima parte s’impone il
gusto proprio dell’elegia: l’attenzione per la natura o l’ambiente circostante
i cui aspetti vengono interpretati dallo stato d’animo del Poeta. Di tanto in
tanto cenni autobiografici, come quando parla dei suoi Famigliari: Mio
Fratello, che rimanda ad altre due bellissime elegie molto personali: Mamma,
Babbo. In tutte il ricordo si mescola all’affetto, alla sofferenza di non poter
recuperare il tempo, alle esperienze di vita che, come sempre, sembrano
sfuggenti e lievi nel momento in cui si vivono, ma pesano terribilmente quando
il filo della memoria tenta di ripararne le crepe.
Lo
stesso afflato troviamo nelle prose poetiche che seguono come, Inverni
solitari, O mie compagnie ed altre.
L’input
poetico, l’ispirazione non vengono minimamente inficiati dalla prosa, anzi essa
offre la possibilità di spiegare le vele dell’estro in modo totale e appagante,
non dovendo per forza ricorrere al ritmo sincopato della poesia. Ne derivano
davvero degli idilli stupendi venati di melanconia, ma anche di attenzione per
la realtà, di descrizioni potentissime che ne fanno dei quadri impressionistici
per poi sfociare nel tratteggio dell’esperienza emozionale che la realtà
suggerisce.
Che
delizia la raccolta che va sotto il nome Dalla vita dei campi. Poesie che, in
ritmi vari e diversi, evocano la vita semplice e allo stesso tempo poliedrica e
multi valoriale dei campi e di coloro che i campi li hanno amati, vissuti e
lavorati. Impossibile riassumerle tanto sono dense. Bisogna assolutamente
gustarle portando il segno con l’indice, come usava da piccoli a scuola, a cui
mi auguro che esse arrivino perché la povertà culturale di tanti nostri ragazzi
deriva anche dalla perdita dell’enorme bagaglio culturale ed esperienziale che
forniva la vita contadina, allorché di generazione in generazione si
tramandavano saperi e valori. C’è tutto in queste liriche. Si ha l’impressione
di trovarsi talvolta dinanzi a vere scenette dell’antico teatro popolare. Naturalmente non manca il richiamo personale
alla vita giovanile, alle giornate in campagna, all’antico ed eterno amore: Delia,
ultimo e sublime desiderio, oltre quelli della serenità favorita dal saper
essere contento del poco e del ricordo imperituro della figura paterna.
L’immagine mi resti di una donna/Delia,
del color dei campi, del grano/la sua mano e il soave volto, /l’immagine mi
resti anche sfuocata/di una giornata con lei tra i fil di fieno/quando vien
meno il giorno/e calano le vele del ritorno.
Si
continua con ALLA RICERCA DI VOCI. Proverbi e detti raccolti nelle campagne
pisane. Un ghiotto e simpaticissimo elenco di proverbi attinti dal mondo
contadino che non fanno altro che continuare a sventagliare l’amore per la vita
agreste del Nostro, che, in linea con il monito tibulliano, asserisce,
attraverso il proverbio, la tranquillità che solo la vita semplice a contatto
con la natura può regalare. Magari non sempre è così, perché la vita in
campagna è fatta anche di duri sacrifici e di privazioni, ma stare lontano
dalle guerre, dalle dispute egoistiche e dall’orrenda fame di ricchezza è un
bene impagabile.
Vino in cantina, pane in granaio, /al
contadino non cal salario
Ma la
saggezza di vita suggerisce anche
Ricco non ti fare/ma nemmeno mendico
Infine
Racconti brevi ATTORNO AL FOCOLARE
I
quali si aprono con Lettera a mio figlio, una struggente summa di precetti di
ordine materiale e spirituale, che ha per insegna e simbolo supremo il valore
della libertà, bene che mai deve essere perso di vista.
Si
susseguono altri racconti il cui senso può ben essere espresso dalla massima,
la prima della serie che chiude il tomo Hoc mihi contingat.
L’arte è l’immagine di un tratto di
esistenza colta nella sua essenza irripetibile.
Sicché
i vari racconti di quest’ultima sezione contengono perle disseminate nei
fondali della vita, pietre miliari dell’esistenza, il cui motivo di esistere è
tutto nella trasmissibilità che da una parte informa, dall’altra forma, e
infine costituisce il nocciolo dell’Arte che neppure il tempo riesce a
logorare.
Ricordiamo
Orazio (Odi,
III, 30, 6)
Ho
costruito un monumento più eterno del bronzo, / più alto della mole regale
delle Piramidi, / che non potranno abbattere piogge mordenti, / o venti
sfrenati, o l’innumerevole serie/ 5 degli anni, la fuga del tempo. / Non morrò
interamente, e molta parte/ di me sfuggirà a Libitina, e in futuro/ crescerò
sempre, rinnovandosi la mia gloria, finché il pontefice/ salirà il Campidoglio
con la vergine tacita. / 10 Si dirà, dove strepita/ l’Ofanto violento, / dove
sui popoli rustici/ regnò Dauno, povero d’acqua, / che, nato umile e diventato
potente, per primo ho portato/ 15 in Italia la lirica greca. Tu assumi, Melpomene,
/ la superbia dovuta al merito, e incoronami/ benignamente con l’alloro di
Delfi
Nei
racconti di “Intorno al focolare”, quindi, scorgiamo ancora una volta la rete
di valori che costituiscono il sostrato formativo del Nostro, l’amore per tutto
ciò che nobilmente si eleva dalla materia bruta, l’attenzione per il dettaglio,
per le storie così diverse e così uguali, il lirismo congenito che trova nella
Poesia il suo habitat naturale e la sua espressione di elevatissima fattura e
competenza, una profonda pietas che lo porta ad amare i suoi simili, le case e
le cose abitate e vissute, a concepire amore eterno e speranza ostinata, non
senza un velo di tristezza, ora legato a vicende concrete, ora frutto di
meditazione e di riflessione sul destino umano e sulla possibilità che ciò che
è creato dall’Uomo possa sopravvivergli. Sempre con garbo, con elegante perizia
stilistica e vivacità creativa molto personale del lessico.
Illuminante,
a tal proposito, il dialogo tra Oblio e Vita che si contendono il potere, l’uno
di distruggere, l’altra del perenne valore della memoria collettiva attraverso
l’Arte. La quale entra nella discussione per affermare la sua supremazia e il
potere di trasmettere la Vita, non quella colta nell’attimo in cui viene
vissuta, ma quella sedimentata, ripensata, ricreata con l’ausilio della
memoria, riprodotta attraverso l’immagine, la parola, la materia, quella che,
privata dalle scorie delle contingenze, sola si erge come monumento più
duraturo del bronzo, a cui attingeranno le generazioni future.
L’alloro
delfico possa meritatamente cingere per sempre le tempie
Del caro Nazario Pardini.
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