Nazario Pardini
HOC MIHI CONTINGAT
Recensione di Enzo Concardi
Ecco
l’ultima fatica letteraria di Nazario Pardini: poesie e prose, recita il
sottotitolo, ma qui non è questione di strutture scritturali, ma di pathos nel
significato greco del termine, ovvero ‘soffrire’ o ‘emozionarsi’ e creare con
sentimento la partecipazione affettiva nell’altro; e di eros e thanatos in
senso freudiano, ovvero ‘pulsione di vita’ e ‘pulsione di morte’. A mio parere
queste sono le energie potenti che sprigionano dalla mente, dal cuore, dalla
memoria dell’autore un flusso dinamico che tutto abbraccia, tutto comprende,
tutto ama, tutto giudica e tutto reclama nel manifestarsi di un essere unico e
irripetibile, proteso alla ricerca del senso della vita e della morte. È una sete profonda e infinita,
eterna. Soprattutto nelle parti del libro che portano come titoli: Elegie,
Dalla vita
dei campi, Attorno al focolare, troviamo un abbraccio
intenso, incessante, vitale, bisognoso con le proprie radici geografiche ed
affettive, con i propri sentimenti ed affetti, con la natura tout court
ovvero vissuta in prima persona e non dall’esterno, con la realtà e i simboli e
finanche i miti della civiltà agreste e contadina oserei dire sine glossa, quasi
come se quel mondo sia stato e sia per lui il vangelo della sua vita.
Ergo, qui si tratta di una perfetta fusione tra letteratura e vita, tra poesia ed esistenza, senza alcuna discrasia tra le due dimensioni: non c’è il docente, il professore universitario, l’accademico da una parte e la sua vita privata, relazionale e sociale, dall’altra; c’è piuttosto un uomo dallo spessore autentico che guarda la vita talora con passione, talora con disincanto; talvolta con sofferenza, talvolta con serenità; spesso in ricerca dei tanti perché, spesso solo meravigliato e incantato; alcune volte ancora speranzoso di primavere, altre volte malinconicamente cantore dell’autunno o del crepuscolo. Ma sempre alla ricerca del vero in se stesso, negli altri, nella società, nel mondo. Con tali presupposti, voglio dire che Pardini sarebbe comunque poeta e lirico ‘primigenio’, anche senza il suo curriculum vitae culturale, che non sempre facilita la libertà interiore del creativo, ma che rischia invece di ostacolarla se si trasforma in impalcature e sovrastrutture artificiose.
Si
può recensire questo libro seguendo il tradizionale canone delle tematiche, ma
in questo caso mi pare un criterio restrittivo, in quanto egli non ha certo
vissuto la sua vita a scompartimenti, ma tutta insieme, unita, globale,
integrale: preferisco perciò seguire l’ordine di pubblicazione, scegliendo i
testi per me più significativi, emblematici e paradigmatici, nei quali emerge
la scintilla della luce poetica. Si va per sintesi e non per analisi, dato lo
spazio a disposizione. Melanconico autunno: simbolo del
tramonto della vita, e infatti troviamo ‘foglie morte’, e ‘colori moribondi’,
ma subentra il ricordo di lei che a piedi nudi accarezzava le foglie e rendeva
felice il poeta; natura e amore – vissuto o sognato o sua memoria – in un
connubio simbiotico dell’essere e dell’esserci. Laura e il bosco degli ulivi:
tra favola e realtà questa lirica è uno struggente e commovente inno alla
vita, alla vita che continua con ritrovate motivazioni dopo la morte del padre,
da parte della figlia Laura, innamorata della natura con una ipersensibilità
verso tutte le creature (“Le dispiaceva persino strappare / il filo dell’erba,
/ cosciente di toglierli la vita”); lei vince la solitudine dopo la visione e l’incontro
con l’anima del padre, che da allora osservò la figlia al lavoro nei campi,
tornata felice; una poesia-racconto avvincente, grazie alle immagini suggestive
create dal poeta. Babbo e Mamma, poesie
della memoria scritte con il nodo in gola e frutto di un pianto che non si
vede, ma che sta tutto dentro: i ricordi del ‘babbo’ si affievoliscono e, nei
colloqui sulla sua tomba (foscoliana funzione affettiva dei sepolcri), il poeta
sente che sta per giungere l’ora anche per lui e spera in un ricongiungimento
spirituale; e per la mamma scrive una poesia di sapore ungarettiano, cioè
umana, profonda, intensa: “Ma tu sei stata giovane?” dice il figlio,
preoccupato di sapere se ha vissuto solo una vita di fatiche e dolore, oppure
anche di gioia e divertimento e conclude: “Quanto fanno male le memorie!”,
ovvero nascono il rimpianto e il senso dello smarrimento.
Inizia
ad intravedersi l’autenticità dei sentimenti di un certo mondo contadino – tra
campi, lavoro, fatiche – ma vita, vita, tanta vita – perché c’erano l’amore, il
rispetto per tutti e la sintonia con i ritmi della natura. Un lampo, una
visione, tanti desideri per L’unica spiaggia, dove tutti
approderemo nel cielo verso la luna, mentre dietro di noi la natura si scatena
per cancellare le orme terrestri e noi saremo un’unica cosa con l’universo:
potenti immagini (“sotto una bufera di cavalli”…) per i giorni dell’apocalisse
e della parusia. A Delia: la donna reale-ideale del
poeta in tante poesie; lei: tutto. I profumi del mare: è la presenza
misteriosa del mare che lo stupisce ed inquieta, intento com’è a decifrarne il
linguaggio arcano. Ed è quel Freddo di sera che ci fa capire la
nostra fralezza e finitudine: “e si muore un pochino ogni sera”. Poi, Ulivi.
Lirica che oso definire ‘religiosa’, poiché qui tutto è sacro per il poeta:
le mie terrazze, il mio mare, i miei colli, i miei campi, i miei templi, il mio
altare, i miei ulivi; dove gli aggettivi possessivi non indicano per nulla
possesso, ma amore. In Stecchi al cielo (breve prosa) e in
Pinete
ritorna la presenza di Delia: nella prima si respira l’atmosfera
leopardiana dell’idillio A Silvia, mentre la seconda è un
modello di come egli canta liricamente la natura (“Pinete / sempreverdi alcove
/ di contorno al mare / ...”) e di come il ricordo indelebile di Delia ancora
punga sulla sua ispirazione. C’è anche la breve prosa Delia, che ci
ricorda il suo sentimento: “... Io fra la miseria degli uomini ho bisogno di
te, stasera.”
Ecco che è ormai evidente come un aspetto
importante del suo canto in questo libro possa definirsi “poetica della
contemplazione”, che nasce da uno sguardo d’amore e di meraviglia (il ‘fanciullino’
pascoliano) verso la realtà esterna e il mondo interiore. Inoltre si nota la
compresenza, nella pittura dei paesaggi, di una aderenza al reale e di una
trasfigurazione degli stessi, per cui essi diventano spesso ‘paesaggi dell’anima’.
Si continua il viaggio: “La vita pallida come una foglia d’autunno si regge
esile sulla pietà della morte. La morte pietosa risparmia il dolore e coglie la
vita nel suo prolungarsi inutile di una terrena esistenza”. È la tacitiana prosa di Pallida vita
che dà luogo a una delle diverse riflessioni sulla morte, presenza
incombente silenziosa o pungente, insieme alla solitudine, compagne inevitabili
della condizione umana. E infatti il nostro viandante nel crepuscolo, dall’alto
della sua condizione di poeta osserva il brulichio del formicaio umano e si
amareggia per le tristi maschere dei carnevali, che servono solo per uccidere
il tempo “che ci divide dalla sera” (È festa), mentre poi affronta con piglio
il destino di noi mortali e si apre ad un colloquio con La morte: bisognerebbe
leggerla tutta questa lirica per capire, anche quando l’argomento sembra così
lugubre, quanto egli ami la vita, e quanto tutta la sua poesia sia una continua
dichiarazione d’amore per la vita, un inno alla ricerca del bello, del vero,
della felicità, dell’eternità. Qui concede la parola alla morte: chiede ed
ottiene di lasciarlo terminare il suo lavoro di scrittore prima del viaggio
ultimo, in modo che il suo spirito e la memoria delle sue opere restino in chi
verrà dopo (“Venne la morte / e prese il mio corpo / … / ma lo spirito lasciò
in mezzo ai mortali”).
Dalla vita dei
campi abbiamo conferma del suo
radicamento nei luoghi natali, nella famiglia e tra la gente contadina: ci
regala immagini di vita agreste, ricorda i lavori, la vendemmia, la semplicità
della vita, la fiducia di tutti verso tutti, la sveglia del sole, le fiabe
intorno al focolare domestico, i sonni di gente serena, l’odor della zuppa …
nella sua terra sempre cantata (Civiltà
contadina, La mia gente, Settembre ...).
Lontana è la città, lontano il mondo moderno: Nazario Pardini qui è l’aedo di
quel mondo che si va perdendo, compresi i suoi valori. Anche la sezione Alla ricerca
di voci. Proverbi e detti raccolti nelle campagne pisane, rientra
in tale contesto e sono antiche, ma affascinanti, perle di saggezza in rima,
frutto di quella civiltà e delle sue dimensioni di vita e di lavoro. I racconti
brevi di Attorno
al focolare sono di argomento vario (filosofia, arte,
storia, biografie, fantasie, …) e arricchiscono la nostra conoscenza dello
scrittore che esprime anche le sue idee politiche (Lettera a mio figlio sulla libertà,
Per
sconfiggere la morte, La vita l’oblio e l’arte …). Alcune Massime
argute, acute e profonde concludono il libro: altre occasioni per
riflettere. Ed anch’io concludo, con una azzardata similitudine: come il De Sanctis
definì Dante
un uomo con i piedi nel Medio Evo, ma la testa nell’Evo Moderno, così io mi
sento di dire di Nazario Pardini: un uomo con i piedi sulla Terra, ma la
testa nel Cielo.
Enzo Concardi
Nazario Pardini, Hoc mihi contingat, pref. Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano
2022, pp. 184, isbn 978-88-31497-79-4, mianoposta@gmail.com.
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