Gabriele
Bellucci: SHIRIM. Edizioni Polistampa. Firenze. 2014. Pagg. 56
“Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore
homine habitat veritas”. Non uscire fuori, rientra in te stesso:
nell'interiorità dell'uomo abita la verità. (Sant'Agostino)
Una
travagliata ascensione verso la luce. Un nostos umano, etico, filosofico,
poetico; una scalata di grande potenza
vicisitudinale: è l’uomo che con tutte le sue magagne esistenziali si avvicina
al potere di Dio in un excursus dove la fede fa da terriccio fertile per la
crescita dinamica del canto, dal peccato al perdono. Una plaquette di
suggestiva intrusione emotiva dove il verbo, con tutta la sua valenza
etimo-fonica, con tutto il suo messaggio icastico, ci prende per mano e ci
accompagna dolcemente in questo percorso fortemente inclusivo. La copertina
riporta un’immagine emblematica che fa da prodromico annunzio al resto del
testo: le due mani che nel giudizio universale di Michelangelo quasi si
sfiorano: "Est Deus in
nobis", diceva Ovidio; i poeti abitano in un loro mondo, in una repubblica
delle lettere in cui come diceva il romantico Berchet tutti sono concittadini
indistintamente. L’umano che può toccare la coda dell’infinito
ma che non può certamente raggiungerlo del tutto date le sue miopi possibilità
terrene. L’autore è cosciente della sua precarietà, di quella dell’umano
esistere, e cerca con il suo volo di vincerne l’esilità, affidando la sua anima
alla grandezza di Dio. Un viaggio, quindi, non sempre liscio, fatto di scogli,
di inceppi, e di trabucchi, verso il faro di un porto che illumini l’approdo. Ed
eccoci arrivati all’isola felice, dove tutto è quiete, dove ogni sottrazione si
dissolve in un alcova di edenica spiritualità; di nirvana quietudine che
presuppone, però, interrogativi di valenza escatologica: contrapposizioni che
nella loro simbiotica fusione danno vita al diacronico fluire del pensiero
umano; spirituale: l’ordine e il caos, l’alfa e l’omega, il bene e il male, il
giorno e la notte, il buono e il cattivo… Una dualità che si fa splendore
accecante nella fusione del Verbo. Il testo è arricchito da immagini ispirate
alle fasi del percorso biblico. Si apre con la Genesi, 1. E Dio disse:
“facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza…”. Tanti gli
interrogativi che si fanno avanti nel prosieguo: il libero arbitrio, il male e
il bene, perché Dio ha creato il male, ha voluto l’uomo peccatore, perché credere e non credere. D’altronde, credente o
no, l’uomo è preso per natura dalla voglia incontrollata di proiettarsi oltre
ala siepe, oltre le colonne che demarcano il suo essere ed esistere. È umano,
fortemente umano azzardare sguardi al di là della nostra vicenda. Il fatto sta
che spesso i nostri voli sono frenati dall’impossibilità, data la nostra
imperfezione, data la nostra esilità, di raggiungere la meta. Da qui l’inquietudine
del vivere, la saudade, lo spleen, la coscienza della nostra precarietà. Beati
coloro, quindi, che riescono ad incontrare la luminosità dei cieli, e che
riescono ad immergere il loro essere in tale luminosità. Un processo di
assoluta fermentazione lirica dove la parola gentile e dolce riesce a concretizzare gli input meditativi
per farsi corpo di stati d’animo fortemente ispirati:
da
Adamo
(…)
Prima che il cielo
chino sopra di me vidi il tuo
volto
nella luce del giorno,
più splendente del giorno;
ero gioioso di camminarti a
fianco
nel giardino. (pgg.
13)
ad
Eva
…
Vicino al solco tracciato
dalla spada
rannicchiai la vergogna,
il mio dolore
e attesi trepidante la tua
voce.
-
Signore
– urlavo,
ma questo non placava la tua
ira.
(…)
non conoscevo niente
del mio essere donna.
la vita che mi desti
scorreva senza tempo
nelle mie vene. (pgg.
17)
da
Il serpente
(…)
Perché loro perdoni e me
condanni
e dal creato mi spingi
perpetuamente
nell’abisso dell’infinito
nulla? (pgg. 23-24)
ad
Adamo
La colpa non ha parole,
il silenzio imbruna,
in cupi antri ci spiano occhi
di brace,
nere ali,
sabbie di deserto. (pgg.
25)
ad
Eva
(…)
Io ti amo ancora oggi
Signore, Dio,
ma amo il mio peccato.
da
Il serpente
(…)
Così folle di rabbia e di
dolore
trascino la zavorra umana
dentro al peccato che mi fa
peccare. (pgg. 30)
ad
Adamo
Vieni, Signore, Dio,
nella voce profonda del vento
che bruisce cespugli d’erba.
Non celarti al tuo servo!
(…)
(pgg. 33)
Fino
a
“L’anima
mia magnifica il Signore
e
il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore…” (Luca, 1)
… La risposta fu solo una
parola.
Nel silenzio fremente del
mattino
l’ombra calò,
ti avvolse di pienezza
senza ferire il candore del
giglio.
(…)
(pgg. 39)
Le
parole si succedono con musicalità ed eleganza. Si incalzano le une le altre in
iuncturae di energica significanza. È la semplicità eufonica, la euritmica
andatura che le fa apparire come componenti di un’orchestrazione di resa
melodrammatica; ed eccovi a romanze di vera ascensione pucciniana, alimentate,
per lo più, da settenari e endecasillabi
che si incatenano con rattenute ed espansioni per corrispondere alle esigenze
dei contenuti; e per concludersi, alfine, in:
Abbà, Padre,
per quante volte
diradando la tenebra che
inghiotte,
del Nulla l’offuscata caligine
che
assale,
di inceneriti desideri
la sabbia rovente che frana
e le deboli orme cancella,
per quante volte, Tu, ancora…
(…)(pgg.
49)
Ultima
sponda sorretta dalla voce di Matteo:
“Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”.
(Matteo, 28)
Nazario
Pardini
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