Carmen Moscariello,
collaboratrice di Lèucade
DALLA RIVISTA EUTERPE DI LORENZO SPURIO
I
dintorni dell’amore ricordando Catullo
di Nazario Pardini
Recensione
di CARMEN MOSCARIELLO
Chi
quel gong percuoterà
apparire
la vedrà bianca
al
pari della giada fredda
come quella spada è la bella Turandot! (Dalla Turandot, primo atto).
Nazario
Pardini nelle sue poche note biografiche ci dice che vive tra Arena Metato e
Torre del Lago Puccini, due località amene tra le più belle d’Italia.
Certamente se Puccini e Mascagni fossero ancora in vita l’avrebbero invitato a
far parte del loro club de La Bohéme e lì, presso La Torre, nelle sere estive,
avrebbero ascoltato i suoi versi e goduto insieme dei concerti e delle Opere
del grande Maestro, lasciandosi avvolgere nelle note di Tosca, di Madame
Butterfly, de La fanciulla del West e altre meravigliose composizioni che
Puccini musicò proprio soggiornando nella Torre, fatta da lui ristrutturare e
che oggi accoglie le sue spoglie. Una Casa della musica dove tuttora si
eseguono grandi concerti, costituisce un luogo fantastico, in parte simile ai
Giardini de La Mortella a Ischia dove il compositore inglese William Walton
eseguiva i suoi concerti per un pubblico proveniente da tutto il mondo e oggi
sede di appuntamenti musicali che placano la furia del monte Epomeo, mentre le
chimere scivolano al mare tra paradisi di fiori e piante. Mi sono così a lungo
soffermata sui luoghi, poiché quest’opera mistica si avvolge dolcemente nella
bellezza dei boschi, del mare e della terra, per entrare nella verginità
dell’amore. Segue il poeta le malinconie del cuore, e intreccia inserti di
viole con la poesia di Catullo. È un comporre senza catene, un pentagramma sul
quale il poeta ama scandire le note di Lesbia, Delia e Catullo. La tipologia
poetica dei due autori è alquanto diversa. La passione istintiva, irrefrenabile
di Catullo, il piangere e maledire Lesbia non appartengono al nostro Autore, il
suo amore è quello delle ninfe dei boschi ed egli Apollo (apollineo) accarezza
col sogno e l’immaginazione la sua donna, sempre inseguita, sempre amata. (CARMEN
MOSCARIELLO (Avellino, 1950) è stata Ordinaria di Italiano e Latino. Poetessa,
drammaturga, regista, giornalista pubblicista. Corrispondente per Il Tempo
(1987-1996), ha pubblicato su questo quotidiano circa 1500 articoli; è stata
corrispondente per il TG3 Lazio per circa sei anni. Ha scritto articoli per
Oggi e domani, Avvenire, Nord Sud, reporter e per innumerevoli altri giornali: è
direttore e fondatore del mensile di politica e cultura Il Levriero, presidente
e fondatrice del Premio internazionale “Tulliola Renato Filippelli” e del
Premio della “Legalità contro le mafie”. Per la poesia ha pubblicato Gli occhi
frugano il vento (1992), Figlia della Luna (1998), non è tempo per il Messia
(2013), L’orologio smarrito (2015), Tunnel dei sogni (2016), All’ombra di
un’eresia (2016), Rapsodia d’amore per stelle e desideri (2017). Per la
saggistica: Friedrich Hölderlin, tra Lirica e Filosofia (1988), Testimonianze
Su Franco Ferrara, Imizad e lettere a Natascha (1989), Il Presente della
memoria (1994), Oboe per flauto traverso (2013), Terra nella sera Visioni
(2014), L’anima dipinta (2020). Per il teatro: Proserpina, tre atti preceduti
da un preludio (2003), Eleonora dalle belle mani (2005), Giordano Bruno
Sorgente di fuoco (2011).). I dintorni dell’amore, ricordando Catullo, Guido
Miano Editore, Milano, 2019. Ancora una volta i luoghi dove il poeta si è
formato ci aiutano a capire: lì vicino alla sua casa c’è il parco naturale di
Migliarino, altro luogo incantato. Nella sua poesia i boschi, il mare sono
protagonisti tanto quanto la donna, non c’è dicotomia tra le due amanti (la
natura e Delia), tutto il poeta sa ugualmente sposare e contenere nei suoi
versi eleganti, formatisi anch’essi sulla metrica latina quantitativa,
proporzionati nella sua prosodia di piedi, arsi (il tempo forte) e tesi (tempo
debole), ictus. La struttura dell’opera è ben pensata, secondo i canoni dei
Canti Gregoriani e i Corali Benedettini, ed egli amanuense accorto ce la dona
in tutta la sua armonia e nei colori più belli della poesia. Ci restituisce un
mondo costruito sulla nostalgia, sull’incanto dell’amato per la donna, sui
movimenti d’acqua e di terra, sullo scintillio del mare, sulla nera terra
contadina, amata, sapida di nostalgie e ricerca anche d’amore filiale. Lo
strazio del ricordo in una parte del libro, prevale nettamente sugli inquieti
desideri catulliani per trasformarsi in un dolore acuto. Quest’opera di poesia
così bella, così densa di colore e di amore non è facile da raccontare, tale è
la sua immensità, in primis, avvicinarsi ad essa genera grandi e diverse
emozioni che Nazario Pardini, da noi tutti considerato grande poeta, grande
maestro di eleganza e perfezione letteraria, ci irradia, sorprendendoci, ammaliandoci.
Il sacerdote del paradiso di Lèucade, più che mai ci fa sentire parte di questo
spazio divino, il suo scoglio d’amore dove coltiva le rose della poesia: qui
approdano le opere di infiniti poeti. Quest’opera così luminosa, che insegue
Bellezza, che vuole Bellezza, ha anche delle note in requiem, (il dolore
acuto!), poiché se la freccia d’amore mai non toglie il suo accamparsi, arriva
un momento in cui anche il poeta non può andare oltre, rimane alfine la sua
arte, quella sì è eterna. Queste due sponde apparentemente opposte, in verità
s’inseguono, il Poeta, l’ho già scritto in altre occasioni, non invecchia mai,
è vero che il suo corpo e la sua mente e il suo cuore non trovano lo stesso
ritmo e l’amore, per quanto grande possa essere, finisce (qui il dramma), la
nuova prospettiva d’eternità si apre sul panorama della Grazia, della Poesia,
sull’arte che eterna. Così i versi di Catullo per Lesbia che hanno reso
immortale la sua donna, forse tra mille anni, se l’uomo avrà conservato ancora
un briciolo della sua umanità, manderà a mente i versi d’amore per Lesbia, e li
ripeterà alla donna amata. Nel Requiem intendo la meditazione del Poeta sulla
fine della vita terrena, quando finiscono anche i sussurri, i giochi d’amore.
Meditazione che si amplia, come per chiedere conto a se stesso del modo con cui
ha speso i suoi giorni. Proprio quest’ultimo punto lo congiunge al divino,
anzi, la perfetta direzione delle sue scelte, sono naturale conseguenza, non
solo di accettare e amare la vita, ma essere certi che l’alito dello Spirito
Santo scende non solo su tutti gli apostoli, ma anche sul poeta che grazie al
suo sentire è il più vicino a Dio. Grande è l’amore per la natura e le altre
creature che popolano il mondo (gli uccelli) in essa c’è la forza del Creatore.
L’incontro in eterno, senza fine, è solo nella Bellezza e magnificenza di Dio,
nel candore della luna, nella ricerca del canto, quello più alto perché si
possa dire che i sentimenti che ci legano alle persone che amiamo non conoscono
tempo, scivolano nel più piccolo rigagnolo della nostra anima e lì rimangono
per sempre. Se ci avviciniamo ai suoi versi, in essi vibra una musicalità
romantica, una preghiera che attinge, come già dicevo, dall’introito del
Requiem (dies irae) per planare come un airone (l’airone è protagonista dei
suoi versi) in cerca d’amore sulle inafferrabili note di Franz Schubert o
ancora di più in quelle di Domenico Cimarosa, la cui musica possiede le
sfumature luminose del mare di Napoli, come nel libro di Pardini ci sono i
mille riflessi e il dolce parlare del mare della Versilia, già a noi noto,
affascinate, a suo tempo, dai versi di Attilio Bertolucci. La Poesia nei suoi
grandi figli è molte cose: è passione, amore, disperazione, lotta, musica,
filosofia, divinità, profezia. Nei versi del mio amico Nazario Pardini ci sono
tutte queste diverse tonalità che come un fiume che tutto raccoglie, sfociano
nel mare che può essere luce di bene o terrore del male. «È proprio vero, il
fiume scorre portandosi dietro ciottoli, acque chiare, torbide, detriti, piene
e bonacce. E tutto va a finire in un mare immenso, infinito. Avrà funzione
catartica quel mare… che all’apparenza pare chiaro e brillante, poeticamente
tanto vicino all’eterno? Potrà purificare tutto? La portata del fiume è
pesante. Pesante quanto la nostra memoria E a chi l’affideremo, dunque? A chi
affideremo quel grande patrimonio che tutti ci portiamo dietro, e a cui ci
aggrappiamo col passare degli anni. Ad un credo religioso, ad un politico, o a
un’isola come quella di Léucade, ad esempio. L’isola del bello, della poesia,
dell’amore, della pace. L’isola in cui tutto è buono forse perché tutto è in
mano dei grandi poeti. Se noi sfociamo in un mare così immenso, avrà il potere
catartico di assorbire bene e male e trasforma la materia purificata in
Spirito? L’avrà (Pneuma) lo Spirito Santo questo potere di infondere tutta la
sua forza sulla materia per evolverla in bene? Io ci credo». Il credo del Poeta
è nella poesia che è il soffio nell’uomo dello Spirito Santo, dell’uomo che
rinnega la materia per essere pura bellezza. E ancora l’amara riflessione di
Pardini: «da qui il male dell’uomo contemporaneo: il suo annullamento nella
realizzazione di fini materiali». La prosa incisiva e di denunzia è nella prima
parte del Trittico. La brava prefatrice Rossella Cerniglia divide l’opera in
tre parti, una loggia, a sé stante, posta all’inizio delle pagine, è “La
lettera” che l’autore scrive in confidenza e amore all’amica sconosciuta: può
apparire strano il termine “sconosciuta”, ma in verità, anche lei appartiene a
quel divino a cui tutta l’opera s’ispira. La lettera molto vicina ad alcuni
scritti oraziani invoca per i giovani comprensione, essi più che mai hanno
bisogno d’amore, il professore-poeta Nazario Pardini chiede amore, rigore e
onestà a chi dovrebbe guidarli. Saluta l’amica con i versi bellissimi d’amore
di Catullo per Lesbia: “Passer delicae meae puellae, quicum ludere, quem in
sinu, tenere cui primum digitumdare adpetenti et acris solet incitare morsus”.
Versi di Catullo che s’intrecciano alle parole che Nazario Pardini scrive di
suo pugno per l’amica sconosciuta: «E tu mi sei apparsa proprio come un passero
spaventato, da prendere nelle mani, e riscaldare, per ridarti all’aria, al
cielo, al volo, ai brividi del vento, mia fanciulla». Il sentire dei due poeti
si congiunge e crea un concerto per l’universo, per chi sa amare, per chi
ignora le distanze dei luoghi, il poeta sa percepire, sa intuire, cogliere le
verità del dolore. È il divino che nidifica nel suo cuore e si allarga sul
mondo abbracciandolo ridandogli la verginità della Croce. E, ancora,
riprendendo il dialogo che il Poeta ha con l’amica mai conosciuta, le dice:
«Cara mia,… torniamo al grande fiume, il fiume sta per fluire nel grande mare.
Spero solo che si tratti di un’acqua non troppo salata né troppo sporca. E
spero soprattutto mantenga un po’ di quell’aria sapida di terra e di pineta che
ho sempre respirata». Qui la prosa è brina lucente, è stella di fiori, è
l’incanto del mare, è paura per l’ignoto, che cosa ci aspetta domani. Le
lacrime grigie trovano approdo nel verso, in ciò in cui il poeta per tutta la
vita ha creduto. Nazario Pardini mi fa pensare a un cavaliere errante, ai poeti
del Dolce Stilnovo che hanno votato la loro vita per una grande Donna (la
filosofia, l’Amore, La Poesia, la Religione). Cavalcare gli orizzonti è proprio
dei grandi che su una feluca del Nilo hanno attraversato gli oceani, tutto il
passato (per Pardini è soprattutto il mondo classico) e tutto il presente della
Poesia e della Bellezza con solide radici nella casa dei grandi maestri, ma con
chiome attuali fluttuanti di luna, riflettentesi nei cerulei marmi delle ville
medicee di Arena Metato. «La pietra è una fronte dove i sogni gemono», portarsi
addosso il sudario è cantare l’amore, ossimori, orchestrati così bene dal
Maestro, nel suo andare pensoso alla casa contadina di chi l’ha generato, a una
vita colma che ha bisogno del mare, ha bisogno di capire, comprendere ancora,
mai paga. Risalire alle origini, senza occhi si guarda di più, si guarda l’assenza
che in metamorfosi si pone come compagnia da accettare, da levigare, renderla
come un apparentamento, un essere amici. Un veleno mortale il requiem che solo
il poeta può raccontare, traducendolo in versi immortali. Un canto che è anche
sensualità, profumo femmineo, passione, così come fu per Catullo, fratello al
poeta per le pene d’amore. Un filo ininterrotto, luminoso come il filo
d’Arianna porterà il poeta fuori dal labirinto, approderà alfine ancora una
volta a Lèucade per guidare il suo angelo d’amore, una sinfonia di abbracci, un
appartenersi per sempre.
Rinnovo tutta la mia ammirazione a Carmen Moscariello per l'attitudine a critiche letterarie di altissimo spessore, ricche di empatia e di calda umanità. Ho letto l'Opera immensa di Nazario e in questa esegesi ho ritrovato gli elementi salienti del suo Poetare e del suo Essere. Cogliere tutti gli aspetti di un Artista è dono di pochi. Abbraccio entrambi i talentuosi protagonisti di tanto cammeo.
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