Anna Maria Curci |
Sonia Giovannetti legge "Opera incerta” di Anna Maria Curci (L’arcolaio 2020)
Ha visto la
luce, nel mese di novembre, l’ultima raccolta di poesie di Anna Maria Curci con
la casa editrice L’arcolaio, non nuova alle pubblicazioni della poetessa.
Avevo già avuto il piacere di leggere gli inediti di questo libro e mi avevano avvolto
in un clima poetico alto, autentico e onesto. Non avevo, allora, avuto la
piacevolezza di leggere l’acuta postfazione di Francesca Del Moro che lo accompagna
e che diventa congiunzione di pensiero e dignità della parola.
Voglio riproporre, in questa sede, la mia riflessione per l’allora inedita
raccolta e che sento condensata in me ancora oggi.
L’“opera
incerta” di Anna Maria Curci lascia trasparire già dal titolo un’ispirazione
intensamente poetica, poiché proprio in quell’aggettivo – “incerta” – si palesa
un tratto decisivo della poesia medesima come attività creativa: “L’incertezza di significato è poesia
incipiente”, scrive infatti George Steiner. E se poi l’autrice concepisce
l’incertezza generatrice e connotativa dei suoi versi come un “mettere
insieme elementi diseguali”, non possiamo, come lettori, non essere indotti
a chiederci – e a chiederle – quale sia il collante con cui la poesia procede
ad assemblare materiali ideativi affatto eterogenei. Ma forse lo chiederemmo
invano – e, va detto, inevitabilmente invano – se è vero che “la poesia è qualcosa di oscuro che fa
luminosa la vita (Pasolini)”, è “un
viaggio nell’ignoto (Majakovskij)” e “non
è poesia se non racchiude un segreto (Ungaretti)”.
Se, inoltre,
coniugare tra loro le diversità appare all’autrice una sfida ai tempi che
corrono e, insieme e perciò stesso, la prefigurazione di un destino “inattuale”
per siffatta poesia, quale altro e più decisivo indizio potrebbe
definitivamente convincerci della fibra veracemente poetica di questa silloge,
atteso che la poesia è, al tempo stesso, “cosa del tempo” e fuori dal tempo,
figlia e madre di Crono, presenza immanente e vitale, ancorché discreta ed
eterea, della vicenda umana.
Colpisce,
nella silloge, un elemento ricorrente che fa da trama unificante alla pur
manifesta diversità dei suoi temi: la presenza ammaliante del mistero, come in
“Avvistamenti” (“Della sciarada resta l’anelito, l’attesa”), in “Iris
Indaco” (Tu rannicchiati dentro l’anagramma, cerca lo schermo, cerca il
nascondiglio”) e, accanto e frammista ad esso, una fascinazione utopica per
il futuro, per il tempo invisibile – dunque mistero anch’esso
– variamente declinata come attesa, anelito, speranza (v.
“Barcaiola” e, ancora, “Avvistamenti”).
Ma non solo:
se la realtà appare, secondo certa tradizione filosofica, come l’opera di uno
scultore vagabondo che raccoglie, “un
filo qui, una latta là, un pezzo di legno più in là” (Leibniz), unendoli
tra loro come in una deriva naturale che si dipana tra caso e necessità, ma in
realtà assecondando inconsapevolmente un’imperscrutabile finalità divina, nella
poesia di Anna Maria Curci c’è l’intuizione di un “che” oltre il visibile il
cui disvelamento, ancorché problematico e incerto nell’esito, è tuttavia una
sfida a cui la poesia non può sottrarsi.
Sembra
infatti che l’autrice si affidi al proprio poetare come ad una sonda, deputata
a scandagliare la realtà visibile per ricercarne il senso – “il prodigio”
– nelle sue “fenditure”, oltre “i sipari i tuoni le tribune”. Ma
non è forse, giustappunto, compito dell’arte incaricarsi di portare alla luce
“ciò che non si vede”? Senonché, questa poetessa pare davvero proporsi ai
lettori come un moderno Odisseo, intenzionata anch’essa a varcare le Colonne
d’Ercole, a sfidare l’ignoto (come nella migliore poesia) e tuttavia ella si
dispone all’avventura del viaggio – e alle sue…“incertezze” – indotta non solo
dalla curiosità, metafora dell’essenza umana e chiave di ogni progresso, ma
anche da una segreta fiducia in quell’”oltre” in cui si racchiude il destino
dell’uomo e verso cui la sua “Barcaiola” traghetta se
stessa con l’animo aperto alla speranza.
Infine: l’“attesa”,
la stessa “speranza”, insieme ai ricordi (“8 settembre 1943”) sono non
solo soggetti potentemente operanti nei versi della silloge: sono anche modi di
coniugare il tempo al futuro e al passato. Il tempo, dunque, come “motore”
della macchina poetica in questa come in ogni poesia degna di tal nome. Dove,
infatti, se non nel tempo, trovano il loro posto – e la loro plausibilità – il
sogno, la speranza, l’utopia? E dove altrimenti acquista senso l’impegno
civile, il ricordo fecondo e vitale, la fiducia in un “noi” possibile, ancorché
oggi inattuale?
Il tempo appare
così il sottofondo implicito e necessario di questo verseggiare assai
suggestivo, un’intuizione felice. Fu proprio Benedetto Croce, del resto, a
definire la poesia “un’intuizione cosmica”; e si parva licet…
Si deve esser grati, dunque, ad Anna Maria Curci per averci messo di nuovo in contatto, grazie alla sua silloge meravigliosamente “incerta”, con il senso più genuino e profondo della poesia.
Sonia Giovannetti
Anna Maria
Curci poetessa, giornalista e critico letterario. Docente di tedesco.
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