Tornando alle immagini, forse la cosa migliore sarebbe inserire direttamente il link al Bollettino n. 178 della Lunigiana Dantesca quando sarà caricato nel sito, ancora aggiornato al numero di 177 di ottobre. http://www.lunigianadantesca.it/bollettino-dantesco/
Così chi lo aprirà, potrà vedere chiaramente la distribuzione delle immagini inserite rispetto ai testi e magari si potrà segnalare che alla pagina 37 è presente un contributo su Sauro Pardini.
Ringraziandola per l'interessamento nei miei confronti, le mando i più cari saluti.
Angela
LUNIGIANA
DANTESCA
ANNO XIX n. 178 – NOV
2021
CENTRO
LUNIGIANESE
DI
STUDI DANTESCHI
Bollettino on-line
Comitato di Redazione
Direttore
MIRCO MANUGUERRA
Comitato
Scientifico
GIUSEPPE BENELLI
JOSÉ BLANCO JIMÉNEZ
FRANCESCO CORSI
FRANCESCO DI MARINO
SILVIA MAGNAVACCA
MIRCO MANUGUERRA
SERENA PAGANI
DAVIDE PUGNANA
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Ó 2003-2021 CLSD
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Bollettino è diffuso gratuitamente presso i Soci del CLSD e tutti coloro che ne hanno fatto esplicita richiesta o
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Che il Veltro
sia sempre con Noi
INDICE
ATTIVITÀ DEL CLSD pp. 2-9
Dedicato un luogo ai Dantisti spezzini
“Hope” la nuova monografia di Andrea Benedetto
COMPAGNIA DEL VELTRO
La via dove non si può errare, la poetica
dell’Uomo Nuovo e gli 800 anni degli stemmi malaspi-niani p. 10
COMPAGNIA DEL SACRO CALICE Chi si ricorda di Padre Maria-no? p.
11
SEVERINIANA Ancora su Ein-stein e Heisemberg p. 12
LA VOCE DEL VELTRO Dante: il poeta, lo scienziato, l’extraterre-stre pp.
13-14
DANTESCA
Di fronte a una vetrina dantesca a Sarzana p. 15
La Divina Commedia in verna-colo spezzino: Inf
XIV pp. 16-17
Dante e le stelle p. 18
Il busto di Dante, “ghibellin fug-giasco”, da
Pola a Venezia
p. 19
OTIUM
Una
storia della Sambuca: “l’a-morosa tragedia” di Sem Benelli
pp. 20-25
L’universo
lunigianese di Sem Benelli p.
26
Nel segno
di Margherita Hack. Sapere, Scienza,
Tecnica e Tec-nologia: un intreccio indissolu-bile? pp. 27-28
TEOLOGICA
Santa Francesca Romana
pp. 29-30
LA POESIA DEL MESE
Antonio Beltramelli pp. 31-33
VISIBILE PARLARE Come
parla-re di Pittura? Il ‘tizianismo ver-bale’ di Pietro Aretino
pp. 34-36
IL SOFÀ DELLE MUSE
A proposito dei dipinti di Sauro Pardini p. 37
RECENSIONI p. 38
ARCADIA PLATONICA pp. 40-41
ISSN 2421-0178
Se qualcuno ti
dice che non ci sono Verità, o che la Verità è solo relativa, ti sta chiedendo
di non credergli.
E allora non
credergli.
ROGER SCRUTON
Anche se il
Timore avrà più argomenti, tu scegli la Speranza.
SENECA
Un giorno la Paura bussò alla porta, il Coraggio
andò ad aprire
e vide che non c’era nessuno.
MARTIN LUTHER KING
Jules-Joseph-Lefebvre
La Verità (1870)
La Tradizione
non è il passato,
ma quello che
non passa.
DOMINIQUE VENNER
I
CLSD
STUTTURA E ATTIVITÀ
Centro Lunigianese
di Studi Danteschi
Presidente: Mirco Manuguerra
Casa di Dante in Lunigiana®
Conservatore: Dott. Alessia Curadini
Museo Dantesco Lunigianese®
‘L. Galanti’
33
Biblioteca Dantesca Lunigianese
‘G. Sforza’
Galleria Artistica ‘R. Galanti’
Conservatore: Dante Pierini
Dante Lunigiana Festival®
Direttore: Prof. Giuseppe Benelli
Premio ‘Pax Dantis’®
Premio di Poesia ‘Frate Ilaro’
Direttore: Hafez Haidar*
Lectura Dantis Lunigianese®
Via Dantis®
Direttore: Mirco Manuguerra
Rievocazione Storica
dell’arrivo di Dante
in Lunigiana
Dantesca Compagnia del Veltro®
Rettore: Mirco Manuguerra
Le Cene Filosofiche®
Dantesca Compagnia del Sacro Calice
Rettore: Mirco Manuguerra
Le Strade di Dante ®
Direttore: Mirco Manuguerra
Premio ‘Stil Novo’
Direttore: Dante Pierini
Progetto Scuola
Direttore: Dott. Alessia Curadini
Wagner La Spezia Festival®
Direttore: M° Cesare Goretta*
(*) Membri esterni
C’è una grande forza nelle persone che conducono la
propria esistenza con coerenza: decidono di fare in modo che la loro filosofia
di vita e le loro azioni siano una cosa sola.
ANTHONY ROBBINS
La più grande prigione in cui
le persone vivono
è la paura di ciò che pensano
gli altri.
D. ICKE
Temi il lettore di un solo libro.
SAN TOMMASO D’AQUINO
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AMICI DEL CENTRO
LUNIGIANESE DI STUDI DANTESCHI
Avrai informazioni aggiornate sull’attività
del CLSD
Se vuoi la Felicità preoccupati di trarre il
massimo dell’Essere da quel poco di Avere che hai.
M. M.
CATALOGO EDITORIALE
LIBRERIA ON-LINE
I libri di questa sezione NON sono e-book, ma prodotti di stampa
di-gitale: vengono inviati direttamente al domicilio dopo l'acquisto con car-ta di credito. Il sistema di vendita fornisce il
prezzo finale comprensivo delle spese postali. Per l'acquisto te-lematico
copiare l'indirizzo in calce ai volumi e seguire le istruzioni on-line
1 - VIA DANTIS®
La
nuova interpretazione generale del poema dantesco in chiave neoplato-nica
sviluppata nella forma di una O-dissea ai confini della Divina Com-media, dalla “selva oscura”
alla “vi-sio Dei”. Pagg. 40, Euro 12,00.
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=693017
2 – DANTE E LA PACE UNIVERSALE
La
lectura di Purgatorio VIII secondo la scuola del CLSD arricchita delle
più recernti determinazioni Aracne Editore, Roma, 2020, pp. 180.
Euro 10,00.
Dante
e la Pace Universale - Aracne editrice - 9788825535013
3 - L’EPISTOLA DI FRATE ILARO
Il
primo titolo della Collana “I Qua-derni
del CLSD” è dedicato al tema della Epistola
di Frate Ilaro. Il saggio ricostruisce l’intera storio-grafia e porta nuovi
contributi all’au-tenticità Pagg. 64, Euro
12,00.
http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=920281
LIBRERIA CLASSICA
Per questa Sezione inviare l'ordine,
comprensivo di tutti i dati necessari alla spedizione e alla fatturazione a
I prezzi indicati sono comprensivi delle spese di spedizione postali e
di segreteria. Versamento su Conto Corrente Postale 1010183604
4 - NOVA LECTURA DANTIS
L'opera che sta alla base dell'intera epopea del
CLSD: la datazione del viaggio al 4 di aprile del 1300 e la soluzione del Veltro come la stessa Divina Commedia. Oggetto di scheda bibliografica su “L'Alighieri” n. 10, 1997. Luna
Editore, La Spezia, 1996, tavole di Dolorés Puthod, pp. 80. Euro 15.
5 - LUNIGIANA DANTESCA
La
determinazione della materia luni-gianese come nuova branca discipli-nare
(“Dantistica Lunigianese”). Edi-zioni CLSD, La Spezia, 2006, pp. 180. Euro
10,00.
6 - FOLDER FILATELICO
VII Centenario
Pace di Castelnuovo (1306-2006)
Folder
Filatelico con annullo postale su busta e cartolina. Emissione limi-tata con
pezzi numerati. Euro 15,00.
7 - ANNULLI FILATELICI
(Euro 5 cadauno)
VII Centenario
Pace di Castelnuovo (1306-2006)
Centenario
della nascita
di Livio
Galanti
(7 settembre
1913-2013)
VII Centenario
Epistola
di Frate Ilaro (1314-2014)
DCCL nascita di Dante
(1265-2015)
XX del CLSD (1998-2018)
DCC morte di Dante (1321-2021)
L’ADESIONE
alla Dantesca
Compagnia del Veltro®
NON È PER TUTTI !
MISSIONE:
- Affermare
l’avversione al Re-lativismo;
- Impegnarsi nel
celebrare le radici profonde della Cultura Occidentale ripartendo dal cul-to
sacro e sapienziale del Prese-pe;
- Assumere in ogni
proprio atto la Bellezza come punto di rife-rimento essenziale del Buon
Vi-vere;
- Rifuggire ogni
sistema di pen-siero che non soddisfi al precet-to aureo della Fratellanza
inte-sa in senso Universale.
- Contribuire
all’affermazione del processo storico della Pax
Dantis®;
PER ISCRIVERSI:
- Richiedere (gratuitamente)
al CLSD il Manifesto della Charta Magna®
scrivendo una mail a lunigianadantesca@libero.it
- Sottoscrivere il
modulo di adesione e spedirlo all’indirizzo postale del CLSD.
- Versare la quota
annuale di Euro 20 a titolo di rimborso spese di segreteria generale sul
CC Postale 1010183604 inte-stato al CLSD.
Martha: «Cos'è
l'Autunno?»
Jan: «Una seconda Primavera, dove tutte le foglie sono come fiori».
(ALBERT CAMUS, Il malinteso)
COMITATO
“LUNIGIANA DANTESCA” 2021
PRESIDENZA
prof. Giuseppe BENELLI
(Università di Genova)
PRESIDENTE ONORARIO
prof. Eugenio GIANI
(Presidente Consiglio Regione Toscana)
CONSIGLIO DIRETTIVO
MEMBRI ORDINARI
Consiglio di Redazione della Enciclopedia della Lunigiana®
MEMBRI ONORARI
(Sindaci)
Claudio NOVOA (Mulazzo); Alber-to FIGARO
(Maissana); Lucia BARACCHINI (Pontremoli); Filippo BELLESI (Villafranca in Lunigia-na);
Angelo Maria BETTA (Monte-rosso al Mare); Camilla BIANCHI (Fosdinovo); Reo MARTELLONI (Licciana Nardi); Annalisa FOL-LONI (Filattiera); Carletto MAR-CONI (Bagnone); Matteo MASTRINI (Tresana); Daniele MONTEBELLO (Castelnuovo Magra); Leonardo PAOLETTI (Lerici), Cristina PON-ZANELLI (Sarzana)..
COMMISSIONE SCIENTIFICA
PRESIDENZA
prof. Antonio LANZA
(Emerito Università dell’Aquila)
Emilio PASQUINI
(Emerito Università di Bologna)
MEMBRI
prof. Giuseppe BENELLI (Università di Genova)
prof. José BLANCO JIMÉNEZ (Università Statale del
Cile)
prof. Francesco D’EPISCOPO (Università di
Napoli ‘Federico II’)
prof. Silvia MAGNAVACCA (Università di Buenos Aires)
Mirco MANUGUERRA (Presidente CLSD)
prof. Giorgio MASI
(Università di Pisa)
prof. Mario NOBILI
(Università di Pisa)
prof. Serena PAGANI
(Dottore di Ricerca presso Università di Pisa)
prof. Antonio ZOLLINO (Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano)
SEGRETERIA GENERALE
CENTRO LUNIGIANESE
DI STUDI DANTESCHI
ENCICLOPEDIA DELLA LUNIGIANA STORICA®
CONSIGLIO DI REDAZIONE
PRESIDENTE
Mirco Manuguerra
PRESIDENTE
ONORARIO
Germano Cavalli
DIRETTORE
Giuseppe Benelli
MEMBRI
DEL CONSIGLIO DI
REDAZIONE
Giuliano
Adorni
Andrea Baldini
Egidio Banti
Riccardo Boggi
Serena Pagani
Claudio Palandrani
www.enciclopedialunigianese.it
- Io vi offro qualcosa che non ha prezzo.
- La libertà?
- No, quella ve la possono to-gliere. Vi offro la Conoscenza.
(l’Abate Faria, Il Conte di Mon-tecristo, ALEXANDRE DUMAS)
DEDICATO UN LUOGO AI
DANTISTI SPEZZINI
Il 15 ottobre del 2021, correndo il VII
Centenario della morte di Dante Alighieri (1321 – 2021), si è tenuta alla
Spezia la cerimonia solenne di intitolazione del Largo dei Dantisti Spezzini. Si tratta del punto in cui la
centralissima Via del Prione si allarga, creando uno spiazzo proprio di fronte alla
Palazzina delle Arti, sull’ingresso del prestigioso Museo ‘A. Lia’.
L’iniziativa nasce da una pro-posta del Centro Lunigianese
di Studi Danteschi (CLSD), subito accolta dall’assessore al Turismo e alla
Toponomastica, dott. Maria Grazia Frijia.
L’atto dello scoprimento della targa è stato compiuto dal Sinda-co della Spezia, Pierluigi Perac-chini, assieme al Sindaco di Mu-lazzo, Claudio Novoa, alla pre-senza dell’assessore Frijia, del vescovo della Diocesi della Spe-zia-Sarzana-Brugnato, S.E. Mons Luigi Ernesto Palletti, dei rappre-sentanti dei Corpi delle forze del-l’ordine e di alcuni comuni ade-renti al protocollo "Sulle Vie di Dante tra Liguria e Toscana", documento finalizzato alla realiz-zazione di un sistema turistico in-terregionale. Tale protocollo, di indubbio valore storico, è stato si-glato a Mulazzo il 12 aprile scor-so in occasione della cerimonia solenne di inaugurazione della Via Dantis, una creazione origi-nalissima del CLSD. In partico-lare, il protocollo mira a valoriz-zare gli itinerari e i luoghi che hanno visto il Sommo Poeta va-gare nel suo esilio attraverso l’in-tero territorio della Lunigiana Storica.
Dopo le prolusioni istituzionali del Sindaco della Spezia e del-l’assessore Maria Grazia Frijia, la cerimonia ha visto partecipe il dialettologo spezzino prof. Pier-giorgio Cavallini, che ha de-clamato personalmente la propria versione del Canto VIII del Pur-gatorio in vernacolo locale. Ac-canto a lui il capitano del Gruppo Storico “Oste Malaspinaensis” di Fosdinovo, Simone Musso, ha esibito in costume d’epoca, assie-me ad una figurante, lo scudo del-lo Spino Secco, il ramo dinastico ghibellino della famiglia Malaspi-na cui si deve il soggiorno di Dante in Lunigiana.
L’assessore Frijia ha sottolineato che «con questa iniziativa La Spezia rende
omaggio al Sommo Poeta, simbolo del nostro Paese, ma anche a figure di spicco
della Città che con questa occasione vogliamo ricordare», mentre S.E. il Vescovo, all’atto della Benedi-zione, ha invitato, molto oppor-tunamente, il
numeroso pubblico intervenuto a considerare con at-tenzione la natura profondamente
dottrinale, in senso cristiano-cat-tolico, del poema dantesco.
Ma chi sono i cultori
spezzini della materia? Si tratta di quattro studiosi i cui nomi, indicati dal
Centro Lunigianese di Studi Dan-teschi, sono riportati in epigrafe. Ecco, di
seguito, i loro profili.
GAETANO
ZOLESE, (1819-1892)
Attraverso diverse
epistole indi-rizzate a vari studiosi, seppe for-nire precisazioni filologiche
rigo-rose su passi cruciali di Inf I
e Inf V. Proprio del primo Canto della
Commedia lo studioso sviluppò un
commento completo (Il primo canto
dell’Inferno interpretato dal professore Gaetano Zolese, 1885) che
rappresenta il primo contributo ad oggi conosciuto portato alla tradizione
della Lec-tura Dantis Lunigianese.
UBALDO
MAZZINI (1868-1923)
Genio assoluto della
spezzinità, fu storico, archeologo, poeta e letterato. Ben figurò nella mono-grafia
celebrativa "Dante e la Lu-nigiana"
del 1909 con ben quattro interventi di alto magistero in or-dine ai Luoghi
Danteschi locali: Luni, i monti di Luni e
Carrara; Lerici; Valdimagra e la Magra; Il Monastero di Santa Croce del Corvo.
Nel medesimo volume cu-rò anche l’ottima scheda dedicata a Gaetano Zolese. In
seguito il-lustrò magistralmente il contenu-to di due documenti pisani atte-stanti
un importante imparenta-mento tra i Malaspina dello Spino Secco e i Conti di
Donoratico (Il matrimonio di Manfredina
Mala-spina di Giovagallo con un figlio del conte Ugolino (con una po-stilla
dantesca), 1915). Da regi-strare nella produzione di sonetti in vernacolo
spezzino un compo-nimento in dedica proprio al Con-te Ugolino (A morte der Conte Gulin), che
rappresenta una para-frasi satirica, secondo il suo stile, in terzine dantesche
del celeber-rimo incipit di Inf
XXXIII. Sulle prime pagine di un commento della Commedia recentemente re-cuperato dal CLSD ed apparte-nuto con
certezza allo studioso, è stata individuata, annotata a mati-ta, una
interessante variante di Inf XXXIII
75 («Poscia il dolor poté più che il
digiuno»).
ETTORE
COZZANI (1884-1971)
Fu poeta, scrittore,
saggista, edi-tore. Si tratta del primo studioso lunigianese che, pur essendo
nato ancora nel secolo XIX, ha visto la propria opera dantesca proseguire ben
oltre la Seconda Guerra Mon-diale. Fondò “L’Eroica” - rivista di cui solo in
tempi recenti è stato riconosciuto l’eccezionale valore - e per tutta la vita
fu un eterno innamorato di Dante, del Pascoli (di cui fu devotissimo allievo),
del D’Annunzio e della Patria. Alcuni suoi stilemi inusuali, pro-dotti nella
gestazione ventennale del suo capolavoro, Il
poema del Mare, si ritrovano intatti
nella produzione del Montale degli “Ossi
di Seppia”, così come l’uso frequente della rima sdrucciola, arte appresa
dal Cozzani diretta-mente dal magistero pascoliano[1].
In campo dantesco ci ha lasciato diversi interventi, tutti molto
si-gnificativi: un appassionato di-scorso nazionalista (Un Dante nuovo per una nuova Italia, 1937); un commento mirabile al
complesso esoterismo sviluppato dal grande maestro romagnolo (Pascoli - il poeta di Dante, 1939); una lectura dantis (Il can-to di Francesca, 1957); un saggio partecipativo del VII
Centenario della nascita di Dante (Chi è
Beatrice?,1965) in cui riprende in toto le tesi del lunigianese Carlo Andrea
Fabbricotti, purtroppo però mai citato e, infine, una dife-sa forte, razionale
e commovente di Gemma Donati (Difendo Gem-ma
Donati, la moglie di Dante, 1966).
RINALDO
ORENGO (1895-1991)
Ebbe rapporti con
Ettore Cozzani. Negli anni ’70 fondò a Sanremo la Casa Editrice Mizar, per i
cui tipi pubblicò accurate antologie critiche di Vilfredo Pareto e Gabriele
D’Annunzio. Fondatore del “Convivium
Dantis - Cerchia di Liberi Dantisti”, associazione con sede a Riva Ligure,
a lui si debbono tre titoli a carattere dan-tesco, di cui due sono opere mo-numentali.
La prima pubblica zio-ne è un articolo a carattere astro-nomico (Un documento celeste per Dante)
comparso, in due nu-meri successivi, sulla prestigiosa rivista “Coelum”, nel
1966. Ba-sato sulla citazione marziana di Pur
II, lo studio vale ad eviden-ziare che l’opposizione del pia-neta vista sul
«marin suolo» poté avvenire sulle coste dell’Alto Tirreno intorno al 1315, una data
prossima a quella attribuita alla celebre testimonianza dell'Episto-la di frate Ilaro del Monastero
del Corvo di Bocca di Magra. Le altre due opere sono Le arti del mare in Dante (1969), già vin-citrice nel 1965 del
concorso na-zionale dantesco indetto dall’Ate-neo Prealpino di Varese, e Dante uomo di scienza - Note polemi-che sui
riferimenti astronomici della Divina Commedia e sulla cronologia particolare
del Viag-gio (1978).
È precisa convinzione dell’istitu-zione proponente, il
Centro Luni-gianese di Studi Danteschi, e del-l’assessore Maria Grazia Frijia, che il Largo diverrà ben
presto nell’immaginario collettivo il luo-go dove gli studiosi locali ten-gono
le loro letture. Questa per-cezione non mancherà di produr-re sulle nuove
generazioni quelle suggestioni positive che stanno alla base della prosecuzione
della tradizione degli studi danteschi in città.
L’INTERVENTO DEL
PROF. PIERGIORGIO CAVALLINI
Desidero ringraziare Mirco Ma-nuguerra, Presidente del Centro Lunigianese di Studi Danteschi, che pubblica il bollettino mensile "Lunigiana Dantesca", per avermi invitato a recitare la mia tra-duzione in dialetto spezzino del-l'VIII canto del Purgatorio, e l'as-sessore Maria Grazia Frija per aver accolto con entusiamo l'invi-to a dedicare questa piazzetta alla memoria dei Dantisti Spezzini.
Il canto VIII in spezzino fa parte di un progetto che prevede la tra-duzione integrale della Divina Commedia, giunto al momento agli ultimi canti dell'Inferno, con la traduzione di alcuni canti del Purgatorio e del Paradiso. Il mo-tivo per cui ho deciso di tradurre in spezzino un'opera così impor-tante è dimostrare che il nostro dialetto ha tutte le carte in regola per poter esprimere concetti ele-vati e spesso molto difficili, come già aveva sostenuto il nostro grande poeta dialettale Ubaldo Mazzini nel sonetto A prèva, che cito:
I han dito che o spezin i n'è adatà
A scrive ben en poesia, perché
Ghe manca quelo sèrto nonsoché
Ch'i o renda
'n pò sinpàtico e gaibà;/
I dizo che ao descorso ne se da
De belessa, de gràssia, e ne se pè
Esprime i sentimenti che s'ha 'n se/
Con espression, con brio, con veità./
Ma francamente me, per dila chi,
A questa dita a ne gh'ho mai credǜ,/
E ho vossǜ 'n pò provae se l'è cossì./
Siché 'nte a me ignoansa a pò per po’/
Ho fato tüto quelo ch'ho possǜ
Per fae vede s'ho tòrto, o s'a ne l'ho./
L'VIII
canto del Purgatorio, co-me sapete, è
quello in cui Dante parla della Lunigiana ed in par-ticolare di Corrado
Malaspina il Giovane. Nella finzione del can-to, dovuta al fatto che Dante
colloca il suo viaggio nel 1300, il Poeta dice di non essere mai stato in
Lunigiana, ma di aver sempre sentito parlare molto bene della casata dei
Marchesi di Mulazzo. Sappiamo che Dante fu in Luni-giana nel 1306 e che il 6
ottobre di quell'anno negoziò come pro-curatore la pace di Castelnuovo tra i Malaspina e il vescovo di Luni.
Ringrazio per l'attenzione.
PIERGIORGIO CAVALLINI
CANTADA OTAVA
L'ea 'nzà l'oa che ghe ciapa a nostargìa/
ai naveganti e che ghe sòrta fèa/
er magon perché i han dovǜ andae via/
e che 'o novèlo pelegrin de sea/
pünza l'amoe s'i senta la daa lün-te/
ciocae, che o giorno i cianza per-ché i
mèa;/
aloa me ho scomensà a n' sentie ciü gnente/
perché a miavo 'n ànima che 'n pe/
la fava segno ch'i me dasso a mente./
Quande le l'è 'rivà dananti a me/
l'ha tià sǜ e doa man miando vèrso/
levante, con
de die "Dio aideme".
“Prima che faga nòte" da 'sto vèrso/
le l'ha tacà a cantae questa oas-sion/
e cossì ben che me a me ghe son pèrso;/
e àotre, pòi, fina 'n fondo aa canson/
gh'eno andà adré co' en canto tanto bèo/
miando o celo, con gran devos-sion./
Aoa dame o letoe a mente daveo
perché 'r velo i è aomai tanto sotì
che se capissa ben er me penseo.
Me ho visto quele gente li per li/
sensa parlae pe' 'n pò miae alian-sǜ/
come 'spetando, gianche e debeì;/
e pòi dal'àoto ho visto chinae zü/
doi àngei con doa spade stocà,/
càode bogì, e anca e pünte i ne gh'eo ciü./
Vèrdi come fogete ch'i han botà/
i eo i se vestidi e 'r vento a tüti doi/
i gh'i fava ondezae d'en sa e d'en la./
En àngeo i s'è fermà li arente a noi/
e l'àotro i è chinà 'nte l'àotra sponda/
e e gente i stavo 'n mèzo, come ai lòi./
Me a vedevo ch'i avevo a tèsta bionda/
peò o se móro, mia che t'aremia,/
a ne l'ho visto: l'òcio i se scon-fonda./
«I véno chi dao scòzo de Maia»/
i fa Sordèlo «a protèze 'sta vale/
da quela bissa che l'è 'nzà pe' a via»./
E me, ch'a ne savevo loo da qua-le/
strade i vegnivo, a mio d'entorno e a tremo/
e a m'arenbo der me maistro ae spale./
E Sordèlo i fa, diza: «Aoa a chi-nemo/
zü damèzo ae grandi ónbee e a vedeé/
com'i en contente, quand'a ghe parlemo»./
Credo d'avee chinà trèi passi aa-fé/
e soto ho visto ün ch'i me smicia-va/
come s'i cognossesse pròpio me.
L'ea 'nzamai l'oa che a nòte la chinava,/
siben che lüze ne gh'en füsse ciü/
ho visto ben chi ea ch'i me mia-va./
I è vegnǜ 'ncontr'a me e me 'n-contr'a lü:/
Giüdice Nin gaibà com'i è stà bèo/
vede che tra i danà i ne t'han fütǜ!/
Salüti e bazi e pò: «Ma dime 'r veo/
da quand'è che te t'èi arivà fin chi/
en barca, ai pe der monte, e 'nte 'sto
vièo?»/
E me: «Damèzo ai lèghi ledi essì/
a son vegnǜ
staman, son anca vivo/
e a vita 'tèrna a serco, fèa de chi»./
E apena ch'i han sentǜ quer ch'a dizevo/
Sordèlo e lü i s'eno tià 'ndaré/
come de gente ch'i ne s'er cre-devo./
Ün a Vergì e l'àotro a 'n àotro, che/
i ea li assetà i s'è vortà sgozan-do:/
«Corado ven a
vede 'n pò anca te/
cose a gràssia de Dio sta conbi-nando»./
Pò miando me: "Te pè ben ren-grassiae/
quer ch'i fa quer ch'i vè, ma a t'adimando/
che quande te t'aveè traversà 'r mae/
te ghe dizi aa Giovana, a me fan-tèla,/
che la prega per me perché se mae/
dòpo che l'ha cacià via a se fanèla/
da vìdoa l'amoe per me i è fenì/
ma vegnià o tenpo che l'arvoreà quela./
Pensando a le la se capissa essì/
quanto pògo 'nt'e dòne l'amoe i düa/
s'i ne pèno miae e tastae 'r maì./
Di Milanesi a vìpoa, l'è següa,/
'nt'er canpo santo la n' ghe faà l'onoe/
ch'i gh'aveai fato 'r galo de Ga-lüa./
Cossì i dizeva, e 'r moro der co-loe/
i gh'aveva come ün quande 'nt'er pèto/
la ghe roda quarcò come 'n do-loe./
Me a miavo aliansǜ come 'n fan-teto/
la donde e stele i se smèvo ciü lente/
come na rèda aa sala la zia streto./
E o düca meo i me fa: «Cos' te gh'è 'n
mente?»/
Me a gh'ho arespòsto: «A mio la trèi
fiamèle/
ch'er pòlo i fan lüzie tüto chi a-rente»./
E lü i me diza, fa: «E quatro ciae stele/
che staman te miavi i eno chinà/
e 'ste chi i eno montà dond'i gh'eo quele»/.
E 'n mentre ch'i parlava i ha tià 'nsà/
Sordèlo: «Mia lazǜ o nòstro ne-migo!»/
'nsegnàndoghe co' o dido 'n pò ciü 'n la/
perch'i miasse. E daa parte, a ve digo,/
dea valeta ravèrta, la gh'ea a bissa/
ch'a Eva ha 'ato forsi er pomo antigo./
Damèzo al'èrba e ai fioi 'sta grama strissa/
la vegniva ziando a tèsta e a s-cena/
slengoándosse e scage dea pelis-sa./
A devo die ch'a n'ho ben visto a sena/
e a ne so die com'i han fato a svoae/
i farcheti cilè, ma 'nt' a seena/
s'èn bolà tüti doi scorlando e ae/
vèrdi, la scapa a bissa, e i en tornà/
i àngei - svoando - 'n àoto, co' e se ae
pae./
L'ónbea che s'ea a quel'òmo ave-zinà/
quande l'ea sta ciamà mentre o sarpente/
i ne 'tacava, senpre la m'ha mià.
Dòpo la diza, fa: «Me a speo vea-mente/
che o lüme ch'i te tia faga 'n ma-nea/
che t'arivi 'nt'er prado ensim'ar monte;/
ma se peò te sè na nèva vea/
der Vao de Magra
o d'en lègo avezin/
dìmela, perché a eo grande, li, a ca mea;/
Corado a me ciamavo, Mala-spin;/
a ne son quelo vècio, ma 'n se névo/
ai me gh'ho 'ato l'amoe che chi fa fin»./
Aloa me a gh'ho arespòsto: «A ne me trèvo/
mai a passae fèa de li, ma 'n veità,/
'nte tüta
Üròpa, en donde ch'a me mèvo,/
sgozo i signoi e sgoza anca e sità/
ch'a se richi e famosi e gente fiera/
ch'i o san tüti, anca quei che n' gh'è mai
sta;/
e me a ve züo, ch'a n'aretorno 'n tèra,/
che e vòstre genti i eno renomà/
perch'i eno de man larga e i san fae a
guèra./
Dae üsanse e daa natüa i eno bazà/
e anca se a tèsta grama 'r mondo i lòcia/
loo i van pe' a se strade en one-stà»./
E lü i fa, diza: «Andé che so i n' se cocia/
sète vòte 'nt'o lèto che 'r monton/
con tüti quatro i pe crèva e i sna-sücia/
e 'sta te favorevole opinio/
la saaà confirmà drento aa te tè-sta/
sensa dae a mente ai àotri ciai-tezon,/
se a me razon l'è giüsta e la l'arèsta./
“HOPE”
LA NUOVA MONOGRAFIA
DI ANDREA BENEDETTO
È fresca di stampa la sesta mono-grafia sapienziale di Andrea Be-nedetto,
anche questa patrocinata dal CLSD.
L’opera ha come titolo originario “La Mano”,
poi è divenuta “Cari-tà” e infine ribattezzata
Speranza, tanto che è “Hope” il titolo dato alla pubblicazione.
La scultura, rigorosamente in arte povera secondo il canone sposato
dall’artista, è divenuta il simbolo delle attività che la Onlus “Virgi-nia
Iorga” di Firenze (sotto la cui egida è uscita la pubblicazione in oggetto)
pone in cantiere nel qua-dro di attività della sua “Rete del-le Culture
Internazionali”.
Molti i patrocinatori, molti i com-mentatori autorevoli per un lavo-ro delle
grandi occasioni:
«Pubblicazione concepita nel-l’anno
2020 per il I centenario della nascita al Cielo di San Gio-vanni Paolo II;
presentata in Mu-lazzo in data 12 giugno 2021 ce-lebrandosi il VII centenario
della morte di Dante Alighieri (1321-2021) e licenziata in data 22 ot-tobre, giornata
celebrativa del Santo nonché occasione del II In-contro di Cultura Politica, au-spicio
di una rinnovata etica so-ciale».
Hope gode di patrocini istituzio-nali molto
significativi: il Comu-ne di Mulazzo, sede del Museo ‘Casa di Dante in
Lunigiana’, il Comune di Wadowice (città na-tale di Carol Wojtyla) e la Fon-dazione
polacca “Jana Pawla II”. Proprio il sindaco di Wadovice, Bartosz Kaliński, in
apertura del libretto, ha voluto formulare un giudizio particolarmente
favore-vole e caloroso sull’impegno arti-stico di Andrea Benedetto dal ti-tolo “Un gesto d’amore nei tempi della pandemia”.
Venti i commentatori che hanno dedicato una loro scheda critica all’opera
scultorea. Tra le fime qui si segnalano quelle il presi-dente del CLSD, Mirco Manuguer-ra, e di alcuni Amici del CLSD: il critico d’arte Valerio Cremolini e due
grandi operatrici culturali della provincia spezzina: Ales-sandra Del Monte,
che ha pre-sentato Hope a Mulazzo) e
Ezia Di Capua.
“Hope” fa parte di una Serie
Sa-pienziale di monografie di An-drea Benedetto curate e sostenute dal CLSD:
2013 - “Dell’amor che move il sole e l’atre stelle”, ispirata alla Via Dantis® del CLSD;
2015 - “L’Urlo del Silenzio”,
o-pera donata al Museo ‘Casa di Dante in Lunigiana’;
2016 - “Lettere e testimonianze”;
2018 - “Autoritratto dell’Alchi-mista”;
2019 - “Memorie”;
2021 – “Hope”;
Per il 2022 è prevista l’uscita del-la settima e conclusiva opera del-la
serie, che avrà per titolo “Fides et
Ratio (il Settimo Sigillo)”.
II
DANTESCA COMPAGNIA
DEL VELTRO
A cura di Mirco
Manuguerra
«Uomini siate, non
pecore matte…»
(Dante, Paradiso V 80)
LA VIA DOVE
NON SI PUÒ ERRARE,
LA POETICA
DELL’«UOMO NUOVO»
E GLI 800 ANNI DEGLI STEMMI MALASPINIANI
La via su cui non si può errare è la via di Dante. Che non è affatto la
famosa “diritta via” che anche lui aveva smarrito, ma quel gran-de percorso
sapienziale rappre-sentato dai tre Libri che dall’O-pera al Nero (la discesa
agli On-feri, ovvero la Nigredo degli al-chimisti) conduce fino al trionfo dei
grandi Ideali attraverso i di-versi gradi del Pentimento e della Meditazione.
Si tratta di un percorso alchemico di profonda
trasformazione del-l’individuo. Si tratta certamente di un processo di autentica
Con-versione, ma il fenomeno non è da
intendersi in senso soltanto dottrinale: esso investe a 360 gra-di l’intera
dimensione dell’Uomo.
Certo è che il Dante che fuoriesce dalla «selva oscura» non è certo lo stesso
personaggio che assurge alla Visio Dei:
quest’ultimo è un essere del tutto trasfigurato, asso-lutamente perfezionato: è
un Uomo Nuovo.
Passando dalla Pazzìa
insita nel Mal Vivere, di cui è mirabile effige «Caron dimonio, con gli occhi di bragia», che non condu-ce a nulla
se non al disastro della vita stessa, si perviene alla per-cezione di una Fratellanza Uni-versale che deve sempre
essere intesa in senso aprioristico e in-condizionato,
fino alla conquista della pienezza della Fede
nel Dio Cristiano e perciò nel valore ine-stimabile della Dottrina della
Chiesa.
Non finiremo certo con la conqui-sta della Santità, ma
sicuramente saranno alla portata di tutti i con-cetti illuminanti come quelli del
Buon Governo, della Città Ideale (e prima ancora il “Cittadino
I-deale”), senza dimenticare il Prin-cipio dell’Equilibrio degli oppo-sti, cioè l’arte, o il segreto, della giusta
misura tra Vita Attiva (l’A-ristotelismo) e Vita Contemplati-va (il Platonismo).
Di quest’ultimo supremo connu-bio è insuperabile
espressione La scuola di Atene di
Raffaello San-zio, con i due Campioni del Pen-siero posti al centro della scena
(G. Reale), ma non si tratta d’al-tro che della struttura sapienziale della
stessa Divina Commedia, dove le
grandi categorie aristote-liche – di cui sono chiare espre-sioni i Gironi, le
Balze e i Cieli – sono le piattaforme da ciascuna delle quali si mettono le ali
e si spicca il volo verso la successiva fino alla suprema elevazione. Se
volessimo rappresentare la Divina
Commedia come una scala, le as-si portanti sono puro platonismo e i pioli
la sequenza necessaria di rigorosissime categorie aristoteli-che. Da lì non
scappa: a nulla ser-vono leggi, leggine, decreti, lacci, lacciuoli e neppure ridicoli DDL.
Ebbene, il tema dell’Uomo Nuo-vo, concetto che nasce con il Pre-sepe del Santo Francesco
e che si ritrova – non a caso – nella stessa Scuola di Atene (ma pure nella Disputa
del Sacramento: è il per-sonaggio angelico vestito di bian-co che guarda
verso lo spettatore in entrambi i capolavori), rappre-senta la sintesi naturale
dei due massimi sistemi del mondo; l’Uomo Nuovo è il Dante che tor-na sulla
Terra dopo avere con-quistato la Gnosi.
Questo sublime equilibrio tra lato Operativo e lato
Specultativo – i quali si risolvono nella Storia, nelle rispettive missioni
supreme dell’Impero e del Papato – era già agli atti, ovviamente, dell’Impero
Sacro e Romano voluto e fondato da Carlo Magno ed era stato pure magistralmente
effigiato un seco-lo prima di Dante, dalla scuola trobadorica, nei due stemmi
ma-laspiniani dello Spino Secco (Ghibellini) e dello Spino Fiorito (Guelfi),
una distinzione dinastica voluta da Corrado l’Antico (v. Pur VIII) nel 1221 non per erige-re muri, ma per conferire un
maggior valore di insieme al Ca-sato medesimo.
Su questo straordinario connubio tra gli opposti si fonda
dunque la struttura della Divina Commedia:
non solo Dante dimostrando la non incompatibilità tra Platone e Aristotele, ma
ne afferma con una forza inaudita la necessità del connubio.
Ebbene, quest’anno ricorrono, gli 800 anni della
grande divisione dei Malaspina (1221-2021), gli illuminati destinatari dell’Elogio assoluto di Dante (sempre Pur VIII).
Se ne parlerà nel prossimo nu-mero di LD., poiché il
14 novem-bre è prevista, infatti, una gior-nata di studi a Mulazzo, un borgo
che oltre ad essere stato la resi-denza ufficiale di Dante in Luni-giana, fu la
capitale della marca dello Spino Secco, oggi sede del CLSD e del Museo ‘Casa di
Dan-te in Lunigiana’.
Tutto ciò è un vero testoro ed è proprio per questo
che noi osiamo dire: “Che il Veltro sia
sempre con noi”.
7 NOVEMBRE
COMPLEANNO PLATONICO
Presso
il circolo iniziatico neo-platonico fiorentino riunito attor-no alla figura
carismatica di Lo-renzo il Magnifico, ricco delle personalità e degli ingegni di
An-gelo Poliziano, Marsilio Ficino, Sandro Botticelli e Pico della Mirandola,
il 7 NOVEMBRE di ogni anno si festeggiava la ricor-renza convenzionale della
nascita di Platone.
La DANTESCA COMPAGNIA DEL VELTRO fin dalla sua costituzio-ne,
avvenuta nel 2011, ha voluto riprendere la tradizione.
III
DANTESCA COMPAGNIA
DEL SACRO CALICE
A cura di Mirco
Manuguerra
«Così noi dovemo calare le vele de le nostre mondane operazioni e tornare a Dio.»
(Dante, Convivio
IV XXVIII 3)
La
Dantesca Compagnia del Sa-cro Calice è dal 2018 il ramo di attività
teologica del Centro Luni-gianese di Studi Danteschi.
Tale
attività è espressamente ri-volta alla difesa del Cristianesi-mo Cattolico
Dantesco ed alla in-terpretazione sapienziale delle Scritture.
Che il Veltro
sia sempre con noi
NON
PRAEVALEBUNT
AFFIGGIAMO IL CROCIFISSO AL DI FUORI DELLE NOSTRE CASE
BEN VISIBILE A TUTTI
CHI SI RICORDA DI PADRE MARIANO?
Ci sono personaggi televisivi che hanno lasciato una
grande im-pronta.
La TV, in effetti, non va de-monizzata: come tutte le cose
(cellulari compresi), anch’essa va utilizzata con la dovuta saggezza.
Ma la saggezza, si sa, è cosa di pochi. D’altra parte,
avremmo avuto bisogno di precettori, ma ci hanno dato professori… I quali, per carità, spesso sono persone
eccezionali, ne conosciamo mol-tissimi come tali, ma un conto è svolgere il compito
del precet-tore, e un altro quello del profes-sore. Quando si volesse seria-mente
pensare ad una riforma della Scuola (cosa che di certo non fa comodo ai tenutari
del pensiero dominante) occorrereb-be soffermarsi proprio su questa cruciale
differenza. Che poi è la stessa che passa tra la burocrazia di un voto messo
sul registro e le lezioni di vita di un prof. John Keating in quel capolavoro cine-matografico
assoluto che è L’atti-mo fuggente.
Ma torniamo al nostro personag-gio. Chi ha una certa
età (mi rac-comando: non lamentiamocene mai: l’età avanzata non è per tut-ti…),
si ricorderà certamente, ai tempi eroici della RAI TV, rigo-rosamente in bianco e nero, di u-na trasmissione dal
titolo La po-sta di Padre Mariano, il
quale terminava sempre il suo spazio con un commovente “Pace e bene a tutti”.
Da Wikipedia apprendiamo che
Mariano da Torino, noto come Padre Mariano, al secolo Paolo Rosaenda, “è stato
un presbitero, conduttore radiofonico, condutto-re televisivo e frate
cappuccino italiano, attivo in Rai dagli anni Cinquanta agli anni Settanta”.
Nato a Torino nel 1906, morì a Roma
nel 1972.
La Chiesa non si è scordata di lui: oggi Padre Mariano
è Venerabile. Forse che per la santità manchi ancora il miracolo? Beh, essere
riuscito a santificare la televisio-ne con il più grande augurio ri-posto nel
cuore di tutti noi che ancora lo ricordiamo (e non sia-mo affatto in pochi),
non è forse uno dei miracoli più grandi?
NON NOBIS DOMINE,
NON NOBIS, SED NOMINI TUO DA GLORIAM
IV
SEVERINIANA
A cura di Mirco
Manuguerra
La
Metafisica è la lotta
titanica
del Logos
contro
il Nulla
(M. M.)
ANCORA SU EINSTEIN E HEISENBERG
Si ritiene tuttora che la teoria 'ge-nerale'
della relatività di Einstein e la fisica quantistica di Heisen-berg si
contrappongono mante-nendosi 'entrambi' all'interno del senso greco-occidentale
dell'"es-sere" e del "nulla": per il "deter-minismo"
di Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla e vi ritornano
seguendo un percorso inevitabile ("determina-to") e quindi
prevedibile: per Hei-senberg tale percorso non è né i-nevitabile né
prevedibile; ma an-che per lui le forme di energia escono e rientrano nel
proprio nulla. Non è un caso che egli ab-bia ricondotto il concetto di
"onde di probabilità" al concetto aristo-telico di 'dynamis', "potenza", cioè alla
'possibilità' reale (non alla necessità) che uno stato del mondo sia seguito da
un cert'altro stato). Freud ebbe a scrivere, di Einstein, col quale ebbe
peraltro rapporti cordiali: "Capisce di psi-cologia quanto io capisco di
fi-sica". Eppure si capiscono benis-simo sul fondamento ultimo, cioè sulla
caducità delle cose del mon-do, che oggi è data comunque per scontata.
(E. Severino, La potenza dell'er-rare, Rizzoli, Milano 2013, pp. 188-189)
Si
è già espresso, su queste stesse pagine, il pieno convincimento che la teoria
quantistica sia solo una modalità di descrizione del mondo necessaria in un
dominio specifico come quello dell’infini-tamente piccolo, dove i fenomeni
osservati sono inevitabilmente perturbati dall’osservatore stesso. Per questo chi
scrive ritiene fer-missimamente che Einstein abbia ragione quando diceva che
“Dio non gioca ai dadi”.
Ora,
in questo passo Severino im-puta ai fisici la colpa di non pre-cisare dove
vadano gli enti della Fisica allorquando si determina una loro trasformazione
radicale, come ad esempio nel caso del de-cadimento di una particella in una
serie di altre particelle più piccole con conseguente liberazione di e-nergia,
ma anche nel caso della stessa trasformazione della massa in energia secondo la
celeberrima formula einsteiniana E=mc2.
La
domanda di Severino è lecita: nei salti quantici di Heisemberg, cioè nel poter
“essere” o “non es-sere” di una particella in un de-terminato istante, si
nasconde lo spettro di un Nulla che, NON esi-stendo assolutamente (la Realtà
esclude del tutto il Nulla in forza del Principio
parmenideo), non può intervenite in alcun modo nella speculazione
scientifica. E questo è certamente un altro pun-to a sfavore della teoria
quanti-stica.
Ma
il caso di Einstein è differen-te: E=mc2 non è un precipitare nel
Nulla di alcunché, poiché la som-matoria di massa ed energia di un sistema è
destinata a rimenere sempre costante. È il fondamenta-le Principio di conservazione del-l’energia, ciò per cui si dice cor-rettamente
che “Nulla si crea e nulla si distrugge”.
Si
apre dunque – e anche questo lo abbiamo scritto più volte – il problema di quali
siano veramen-te gli Enti. “Enti” li
siamo anche noi, o lo sono soltanto i compo-nenti fondamentali di massa ed
energia che determinano l’esi-stenza di ogni cosa con le loro mirabili
aggregazioni,? Da questa precisa domanda nasce l’esigenza di una nuova Monadologia capa-ce di dare pieno
significato alla Complessità.
In
caso di risposta positiva, allora troveremo nella filosofia di Se-verino una
salvezza certa indipen-dente dall’idea (pur necessaria) dell’Assoluto da cui
tutto è dipe-so, cioè Dio. In caso di sentenza negativa, invece, la metafisica
di Severino cade e la sua tesi (cor-rettissima) intorno al Nulla dovrà essere
indirizzata ad accogliere una volta per tutte quell’idea del Dio Salvatore che
il filosofo de-cise di abbandonare in seguito al noto all’allontanamento subito
presso l’Università Cattolica di Milano.
V
LA VOCE DEL VELTRO
«Che il Veltro sia sempre con noi»
MM
Nasce
da questo numero una rubrica riservata alle pubblicazioni dei membri della
Dantesca Compagnia del Veltro
DANTE:
IL POETA, LO SCIENZIATO, L’EXTRATERRESTRE
Quando si ragiona su Dante, il primo aspetto che di lui balza evidente è la poesia. E in effetti il suo poema, la Divina Commedia, lo fa brillare ancora oggi, e forse per sempre, come stella di prima grandezza nel firmamento poetico mondiale, raggiungendo i suoi endecasillabi i più eccelsi vertici dell’arte. Un pregio che pochi, nel corso dei secoli, hanno come lui raggiunto, e che gli stessi poeti moderni gli riconoscono. Ne cito uno per tutti: il grande Borges, che ha definito il poema dantesco l’opera più grande che sia stata mai scritta. E mai un titolo è stato così felice, perché nel testo è raccontato, con impareggiabile maestria, la com-media della vita nell’universalità dei suoi aspetti: i vizi e le virtù, l’amore e l’odio, il mito e la sto-ria e, soprattutto, la passione poli-tica, tanta passione politica che costò a Dante, uomo di parte, la pena tremenda dell’esilio.
Inoltre, vi si ritrova l’ansia peren-ne dell’uomo di riscattarsi dal peccato, di ritrovare il suo Eden perduto e, con esso, il desiderio, profondo, di ascendere a Dio.
Per quanto riguarda, poi, l’aspetto stilistico-formale, l’opera dante-sca è di una altezza dir poco stu-pefacente, tanto che Boccaccio la chiamò divina.
Perché Dante, da autentico inge-gnere delle parole, ha dato un e-sempio mirabile di come, con una lingua appena agli albori (ricor-diamo infatti che la lingua lette-raria era ancora il latino) si po-tesse scrivere un così grande poe-ma con l’utilizzo della terzina in-catenata, una strofa di difficile composizione da lui inventata. Pertanto ha nobilitato e anche in-crementato il volgare, traendo molti termini dal latino (qualcuno pure dal francese antico) e inven-tando espressioni divenute pro-verbiali, per cui è considerato il padre della lingua italiana, nono-stante il volgare già altri poeti l’a-vessero usato prima di lui.
Ingegnere e insieme architetto, se si considera che nel poema, a ma-no a mano che lo si legge, si trova descritta, con impeccabile preci-sione di particolari, tutta la com-plessa costruzione dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso.
Un’altra caratteristica della gran-dezza di Dante consiste nel fatto che, nonostante siano trascorsi sette secoli dalla sua composi zio-ne, la sua opera è estremamente attuale, e ogni peccato da lui de-nunciato ancora offusca in modo maligno l’uomo di oggi. Perché ancora e più che mai nel mondo contemporaneo infierisce l’incon-tinenza, soprattutto per quanto ri-guarda l’insaziabile sete di potere e di denaro da parte di una mino-ranza di uomini, e in particolar modo di multinazionali e di Stati, per nulla preoccupati se la loro politica opprime pesantemente l’economia di altri individui e Stati (e sono la stragrande mag-gioranza) che vivono soltanto della loro miseria. E poi la vio-lenza, anche questa perfido fla-gello dell’umanità: violenza che si manifesta, e in modo brutale, contro le persone, contro le don-ne, e che trova terreno fertile nel terrorismo e nelle tante guerre che imperversano in molte parti del pianeta. E infine la fraudo-lenza: e a tal proposito si possono riportare numerosi esempi, ma è sufficiente fare riferimento all’in-formazione sovente distorta che viene fornita dai mass media (so-prattutto da internet) per rendersi conto che il fenomeno esiste e artiglia virulento.
Ma per fortuna c’è anche, nella nostra epoca, tanta voglia di ri-scatto, quella voglia che fece in-traprendere a Dante un così arduo viaggio che lo portò lassù, nel cielo empireo, dove poté godere della luminosa visione divina. Perché anche l’uomo moderno va alla ricerca d’una redenzione che, oltre il peccato, gli faccia ri-trovare, alfine, quell’età dell’oro, quell’Eden perduto cui si accen-nava sopra, così che possa tornare a godere dell’antica, ancestrale felicità, che è l’anticipo, sulla ter-ra, della felicità ultraterrena.
È, poi, la Divina Commedia, an-che un’opera di filosofia e scien-za, spesso di difficile lettura, e, di fronte ad essa, ci si può scorag-giare, ma, una volta che se n’è compreso il significato, si avver-te, nella mente e nel cuore, il for-te desiderio di leggere e rileggere questo testo, che si può senz’altro definire come la summa del sape-re medioevale. Perché Dante non smette mai di essere poeta, riu-scendo sempre a emozionare il lettore con il suo ineguagliabile stile e con la musicalità e la flui-dità dei suoi endecasillabi anche quando è scienziato.
Già la struttura stessa
dell’opera presenta un disegno rigoroso, coi numeri tre, nove e dieci a far da
padrone. I versi sono in terza ri-ma e tre sono le cantiche, ognuna con
trentatré canti ma con uno, il primo dell’Inferno, introduttivo, consentendo
così di raggiungere i cento canti, il multiplo di dieci. E poi mancano soltanto
poche cen-tinaia di parole per raggiungere il numero di 100.000 (quasi 1.000
parole per ogni canto). E ancora. L’Inferno è diviso in nove cerchi, più un
vestibolo; il Purgatorio in nove settori (l’Antipurgatorio, le sette cornici e
il Paradiso Terre-stre) più un’isoletta; il Paradiso in nove cieli più
l’Empireo. Anche in questo caso domina, col suo
multiplo, il numero tre, e si rag-giunge il numero dieci. E si può ancora
continuare: tre sono le fie-re che ostacolano a Dante l’asce-sa al “dilettoso
monte”, tre i som-mi traditori (Bruto, Cassio e Giu-da), tre le donne benedette
(Bea-trice, Santa Lucia, Maria), tre le persone in un’unica natura divina, però
mi fermo, aggiungendo sola-mente che le tre cantiche presen-tano un sostanziale
equilibrio nel numero di versi, mantenendosi intorno ai 4700 in ognuna
di esse.
Ma se,
nell’architettura dell’ope-ra, i numeri sono usati essenzial-mente in funzione
simbolica, in altri punti del poema Dante parla in senso strettamente
scientifico, dimostrando di essere in posses-so, anche in tale campo, di una
sterminata cultura che lui acquisì frequentando non solo le scuole del suo
periodo, ma anche colti-vando gli studi da autodidatta. Certamente fu pervaso da una
profonda ansia di sapere, e lo possiamo intuire leggendo i se-guenti versi
dell’inferno:
“Considerate la vostra semenza: /
fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e cano-scenza / (Inf
XXVI, 118-120).
Sono
parole che Dante mette in bocca a Ulisse, in una potente ter-zina che esprime
il suo forte desi-derio di scoprire i più nascosti segreti del mondo e
dell’intero universo. Per cui egli gli argo-menti della scienza li
affronta tutti, dall’astronomia, alla geogra-fia, alla matematica, per
pervenire financo al calcolo delle probabi-lità, dimostrando di avere una
competenza senza pari in qualsia-si campo dello scibile umano. Ne contiene, il
poema, numerosi pas-si, di cui se ne riportano alcuni a mo’ d’esempio.
Nelle seguenti terzine il poeta, per parlare del bagliore di un an-gelo che gli offusca la vista (per la precisione è l’angelo dell’amor fraterno) ricorre alla legge fisica della riflessione della luce:
“Come quando da l'acqua o da lo specchio / salta lo raggio a l'opposita
parte, / salendo su per lo modo parecchio // a quel che scende, e
tanto si diparte / dal cader de la pietra in igual tratta, / sì
come mostra esperïenza e arte / (Pur XV, 16-21).
In
questi altri versi – siamo nel Primo Mobile e Beatrice chi-arisce a Dante il
movimento di questo cielo – il poeta ricorre alla matematica, e precisamente
all’o-perazione algebrica delle equa-zioni:
“Non è suo moto per altro
distinto, / ma li altri son mensu-rati da questo, / sì come diece da mezzo e da
quinto” (Par XXVII, 115-117).
E ancora:
in questi altri si può intravedere il calcolo delle proba-bilità: “Quando si parte il gioco de la zara, / colui
che perde si ri-man dolente, / repetendo le volte, e tristo impara” (Pur VI, 1-12).
E gli esempi, di fisica, di geo-metria,
di matematica, di geogra-fia, di scienze naturali, ecc., po-trebbero continuare
a lungo, ma quelli riferiti sono sufficienti a documentare la ricchezza e
la profondità della cultura di Dante.
Concludo con alcune osserva zio-ni sull’astronomia e sulla
strut-tura cosmologica del poema dan-tesco. Va premesso che, anche se il poeta
non esce fuori dalla vi-sione tolemaica della Terra al centro dell’Universo,
circondata com’è dalle sfere dei pianeti, del-le stelle fisse, del Primo Mobile
e dell’Empireo, vi aggiunge tutta-via una zona sovrastante, compo-sta dalle
nove sfere dei cori an-gelici che girano, man mano re-stringendosi, intorno a
un lumino-sissimo punto: Dio. C’è però, in queste sfere, un qualcosa di sor-prendente:
le sfere più piccole sono circondate e contempora-neamente circondano quelle
più grandi e il punto è dentro ma in-clude il tutto, come Dante stesso dice:
“Non altrimenti il trïunfo
che lude / sempre
dintorno al punto che mi vinse, / parendo
inchiuso da quel ch’elli ’nchiude” (Par XXX, 11-12).
Il concetto appare difficile e con-traddittorio, ma con ogni
proba-bilità Dante se ne servì sempli-cemente per dire che Dio, in quanto
onnipotenza, è a un tempo contenuto e
contenente: è al cen-tro di tutte le cose e contempo-raneamente le contiene
tutte. Per-ché la sua idea di spazio appartie-ne
alla geometria euclidea (che Dante certamente conobbe), e la sua visione
cosmologica rimane, come s’è detto, nell’ambito del modello
aristotelico-tolemaico dell’universo. Ma lo stesso con-cetto ha stimolato la mente
degli scienziati, che l’hanno spiegato u-scendo fuori dagli schemi di quel-la
geometria, che è tridimensio-nale, e ricorrendo, con l’inclusio-ne della
nozione di tempo, a un’altra rappresentazione della spazialità, quella
quadrimensio-nale di “iperspazio”, pur se Dante la ignorava perché appartiene a
tempi recenti. Per cui, secondo certi matematici e astronomi di oggi, il poeta sembra anticipare pensieri e scoperte della scienza e soprattutto della
fisica moderna, e le sue intuizioni sono accostabili alla teoria della
relatività di Ein-stein. Mi limito a riferire la no-tizia senza fornire
spiegazioni in merito (non ne ho gli strumenti), rimandando chi volesse
approfon-dire tali argomenti a tutta una vasta letteratura reperibile anche in
internet: l’ho riportata perché rappresenta un’ulteriore dimo-strazione utile a
definire Dante un personaggio dal “multiforme in-gegno”, che non finisce mai di
stupire. Personalmente noto in lui un qualcosa che va oltre l’umano, e la sua Commedia
è divina anche per questo. Azzardo un’ipotesi. Che sia un essere soprannaturale
il quale si è incarnato nella realtà sensibile, realizzandovi in manie-ra
compiuta l’idea platonica che chiamerei del sublime? Oppure, per usare una
terminologia più moderna, un extraterrestre che, da chissà quali lontani mondi,
è ve-nuto sulla terra a “miracol mo-strare”? Ho esagerato? No. Quan-do si parla
di Dante non si esa-gera mai.
VITTORIO VERDUCCI
VI
DI FRONTE A UNA VETRINA DANTESCA
A SARZANA
6 OTTOBRE 1306: alle 7 del mattino circa (“ante missam”), a Sarzana, in Piazza
della Calcan-dola, Dante, assieme al notaro Ser Giovanni di Parente di Stupio e
testimoni, era ad attendere le con-troparti per una sospirata pace: il
vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla e i Malaspi-na di parte
imperiale (dello Spino Secco), rappresentati da France-schino, il marchese di
Mulazzo, capitale della marca.
Per guadagnare tempo Dante pre-se a dettare al notaro
il Pream-bolo dell'atto, ma accadde qualco-sa di imprevisto: la prima pagina degli
atti presenta, infatti, una ri-ga a mo' di cancellazione e nel seguito della
documentazione il notaro trascrisse l'atto della pro-cura plenipotenziaria con
cui Franceschino incaricava Dante di recarsi a Castelnuovo Magra, presso il
Palazzo dei Vescovi, per concludere il trattato e infine segue il testo del
trattato medesimo con trascritta paro paro quella pagina che era stata in
precedenza cassata.
Che successe?
Accadde, evidentemente, che al-l'appuntamento
convenuto il ve-scovo-conte non si presentò, ma mandò a dire che attendeva la
controparte presso la propria resi-denza.
Sappiamo che Antono Nuvolone era già molto malato,
tanto che venne a morte nella primavera successiva. Sarzana, inoltre, negli
ultimi tempi non gli era stata particolarmente amica. Tuttavia è cosa fin
troppo chiara che finché una pace non viene siglata, lo stato di guerra
permane: Fran-ceschino, neppure volendo, a-vrebbe potuto salire al Palazzo dei
Vescovi in stato di belligeran-za.
Da qui l'idea della procura a Dante, il quale salì a
Castelnuovo e portò a conclusione con suc-cesso un'azione diplomatica che era
ormai in corso dall'aprile di quello stesso anno.
Si parla, quindi, correttamente di PACE DI CASTELNUOVO, al più di PACE DI DANTE, mai di "Pace della Calcandola" o di "Pace di
Sarzana". Quelli sono solo ridico-li campanilismi.
E chi pensasse (piuttosto stolta-mente) che l'atto sia
stato rogato a Sarzana e che Dante sia salito a Castelnuovo solo per
raccogliere la ratifica del vescovo, è comple-tamente fuori strada: perché l'atto
possa dirsi rogato a Sarzana oc-correva che sul posto fossero pre-senti entrambe
le parti, ma non risulta esserci stato alcun procu-ratore del vescovo in Piazza
della Calcandola. E se ci fosse davvero stato un rappresentante di parte
vescovile, allora non sarebbe sta-ta necessaria la procura plenipo-tenziaria a
Dante per concordare la pace, perché l'avrebbe siglata da sé Franceschino, che
era certa-mente presente. Né sarebbe oc-corsa una tal procura per recarsi dal
vescovo-conte solo per far semplicemente ratificare l'atto...
Troppe sciocchezze, troppe dav-vero, si continuano a
scrivere sul-le vicende dantesche in Lunigia-na.
Trascorso questo centenario vo-gliamo sperare che i
cani e i porci che puntualmente affollano i pal-chi in simili occasioni se ne
tornino a rintanarsi nuovamente nelle loro povere cucce per tacere una volta
per tutte.
Ricordiamo qui doverosamente che si deve a Livio
Galanti la dimostrazione, nel 1965 - sulla base della profezia astronomica
posta a conclusione del Canto VIII del Purgatorio - che Dante era in Lunigiana
già da prima del 12 aprile di quello stesso 1306. Assurdo pensare - come si è
fatto per secoli - che Dante sia giunto a Sarzana in quello stesso giorno del 6
di ottobre del 1306. Dante non fu un semplice testimonial, ma il vero artefice di quel trat-tato: non si dà,
infatti, una procu-ra plenipotenziaria ad un sempli-ce testimonial
d'occasione...
E sia chiaro: Livio Galanti lo ab-biamo fatto scoprire
al mondo noi. Solo il CLSD ha compreso, nell'ormai lontano 1998, che il
dantista di Mulazzo aveva fatto una scoperta assolutamente ge-niale. Da quel
momento in poi l'intera lettura del Canto VIII del Purgatorio è stata
letteralmente rivoluzionata.
Ebbene, ha fatto onore al danti-smo del CLSD la
vetrina allestita a Sarzana dall’Antica
Pasticce-ria Gemmi, una vera istituzione in città. Con i due stemmi
mala-spiniani (la cui unione è simbolo di pace, non di contrapposizone), con
una copia ottocentesca della Commedia
illustrata dal Doré, con l’aggiunta di un bel busto in bronzo di Dante (questo
messo a disposizione da Simone Del Gre-co) e con le copie in rosso di “Lu-nigiana Dantesca” edite da
Italia-perVoi per il CLSD (direttore re-sponsabile Gabriella Mignani), la
vetrina ha portato un messaggio fadscinoso e corretto intorno alla Sarzana
dantesca.
E sia chiaro a tutti: quando si propone un
monumento in onore di Dante a Sarzana, si deve sempre dire che la proposta è
del sottoscritto: M. MANUGUERRA, Lunigiana Dantesca, La Spezia, Edizioni
del CLSD, 2006, p. 169.
Così, tanto per dirla tutta…
M. M.
LA
DIVINA COMMEDIA IN VERNACOLO SPEZZINO
Piergiorgio Cavallini – filologo,
dialettologo e traduttore spezzi-no – aveva già pubblicato su LD la traduzione
in vernacolo del Canto VIII del Purgatorio
(LD n. 84, giugno 2013), poi, in occasione del nostro DANTEDÌ PUNTUALE gli è stato assegnato il “Veltro
d’Oro” per la tradu-zione di Inferno
X, il Canto di Farinata (LD n. 162, maggio 2020).
Ora, con questo numero di LD,
l’autore inizia una collabora-zione con la nostra rivista volta alla
pubblicazione sistematica di Canti della Commedia
in ver-nacolo spezzino.
CRITERI ADOTTATI
1 Le rime ove possibile, sono dantesche
2 Per la traduzione si utilizza lo spezzino “classico”
3 Se lo spezzino non offre solu-zioni, si utilizzano, in subordine, il
vocabolario generico di Luni-giana o di Val di Vara.
3 Dove la rima non è possibile, si ricorre ad assonanze
4 Raramente si usano rime uni-voche ed equivoche
5 Alcuni versi sono
solo apparen-temente ipermetri: ci sono sillabe che graficamente non si elidono
per non compromettere la com-prensione del testo, ma sono eva-nescenti nella
pronunzia.
CANTADA QUATORZESSÈSEMA
[Cantada quatòrzessèsema, ond'i trata de quer che la gh'è 'nt'o tèrso
zion, ch'i se trèva 'nt'o sètimo sercio; ond'i eno castigà quei ch'i s'adrisso
a Dio, con de die ch'i ne gh'è e i o giastemo; e màssime i diza do rè Capaneo, ch'i è sta ün de quei che ciü di àotri i
gh'han avǜ 'sto pecato]
Pe' a
caità deo sito onde nassǜ
a son
ho pià e fòge stremenà
a i ho
rünà e misse arente a lü
ch'i ne
silava ciü. Semo arivà
tra o
segondo zion e o tèrso e li
se pè
vede a giüstìssia cose fa.
Pe'
spiegae come e còse i eno 'nbastì/
a digo
ch'a 'rivàimo 'nt'en ciassao
che la
ne gh'ea de ciante li cossì.
Er
bòsco dolooso i fa arepao,
da na
parte e dal'àotra 'n rian la gh'è;/
chi a
se semo fermà der bordo ar pao./
O
ciassao cen d'aena seca e
erta i
ea, come quela che Caton
co' i
se pe 'nt'o desèrto i baligé.
A
vendeta de Dio mia, sacranon,
che
tüti a la temé, voi ch'a lezé
quer
ch'o visto co'i òci 'nt'o ciazon!/
D'àneme
nüde strǜmene, savé
ho
visto a cianze tanto despeà
ma no
tüte ao listesso mòdo, aafé.
Paece
gente 'n tèra i eo stranà,
de
quele i s'acociavo pogassè,
dee
àotre i ziondonavo en sa e 'n la./
Quele
ch'i ziavo 'n tondo i eo ciü assè/
de meno
quele 'n tèra a piae o tormento,/
lamentàndosse
ciü che quele 'n pe./
Sorve
tüto o ciazon caiva lento
de
faìgoe de fègo 'n sverünbion
come
neva 'nte l'arpa sensa 'r vento./
Come
Alessandro sot'ao sorlion
'nte
l'Ìndia i ha visto cève 'nt'i sordà/
lanpe
de fègo zü fin ai feton
che co'
i cavai o teren i ha scaos-sigà/
fando
'n manea de mèi smorsae 'r vapoe/
quand'i
arivava 'n tèra sparpa-già:/
cossì i
caiva l'etèrno caloe;
onde a
rena fègo la piava
come a
próvea 'nt'o s-ciòpo, e ciü doloe/
la
dava. E a man ferma mai ne stava/
ma per
scostae dar moro 'r fègo ardente/
en sa e
'n la de cotǜdio la 'ndava.
A ghe
fao, digo: "Maistro dame a mente/
te che
te vinsi tüti fèa che i diai
ch'i
n'han sborì daa pòrte ch'è chi arente,/
ch'i è
quel'omon che paa ch'i 'n senta guai/
er
caloe ma ch'i sta 'npetà e 'n pò stòrto/
che paa
che a cèva i ne la senta mai?"./
E
quande pòi aa fin i s'en è ascòrto/
che de
lü a 'dimandavo ao düca meo/
i ha
sgozà: "Com' a eo vivo a son da mòrto./
Giòve
ao se forgeron pè staghe areo/
ch'i
gh'ha 'ato a saita 'nfogonà
ch'i
m'ha tià massàndome daveo;
e i pè
sfinie anca i àotri che ghe sta/
drent'aa
fòrgia del'Ètna tüta ne-gra/
sgozando
"A te Vürcan, végnime a 'idà!,/
com'i
ha fato 'nt'a batàlia de Fre-gra/
e i pè
tiame a saita con co' a ciü fòrsa/
ch'i
gh'ha, i ne podeà avee ven-deta
alegra"./
Aloa o
düca i ha sbragià, con tanta fòrsa/
ch'a ne
l'aevo mai sentü a sgozae:
"O
Capaneo, onde la ne se smòr-sa/
a te süpérbia i te fan ciü adanae;
nessüna
pünission, fèa che a te ragia,/
ne
podeai ao te ghignon ciü doloe dae"./
Dapò i
s'è zià da a me sensa ciü ragia/
con de
die: "Quelo i è ün di sète rè
che i
hano 'sedià Tebe e paa ch'i gh'agia/
Dio
sorve ae coge, e anca ch'i ne pè /
conpatilo;
ma come me a gh'ho 'ito/
i se
sbragion i conto pogassè.
Ma aoa
végnime adré e mia ben drito/
'nte
l'aena brüzà a ne mete i pe,
ma ar
bòsco tente arente de 'sto sito"./
Sensa
silae semo arivà la 'nde
i sòrta
fèa dar bòsco 'n rianeto
rosso
ch'i me fa sgomentae an-ch'anchè./
Come
dar Bülicame 'n canaeto
i sòrta
co' e bagasse li a 'spetae
cossì
'nt'a rena quelo i 'ndava queto./
Er
fondo e e doa rive bèle pae
i eo de
prea come e sponde de sa e la/
tanto
ch'ea li possìbile bacae.
"Tra
tüto quelo che me a t'ho 'nse-gnà,/
quand'a
semo passà da quela pòrta/
donde
'r passagio a nissün i è ne-gà,/
i te
òci i n'han mai na còsa scòrta
come
'sto rianeto chi cossì
che
sorv'a lü tüte e falìgoe i amòrta"./
'Ste paòle
i m'ha 'ito o düca essì
aloa me
a gh'ho dito de spiegame
quer
ch'i m'aeva dito 'n pò cossì.
"En
mèzo ar mae la gh'è 'n paese 'nfame"/
i me fa
diza "Crèta i è ciamà,
soto ao
se regno 'r mondo i n'è sta aa fame./
Na
montagna la gh'è che l'ea ba-zà/
d'àigoa
e de bòschi, Ida se ciam-ava,/
aoa l'è
'n sento sola e despeà.
Rea a
cüna der figio gh'aciatava
per fae
'n manea de 'scóndeghelo mègio/
quande,
come fa i fanti, lü i ra-gnava./
Drent'ar
monte la ghe sta 'n pe 'n gran vècio,/
vèrso
Damieta e spale i gh'ha zià
e i mia
Roma come drent'a 'n spècio./
A se
tèsta d'oo fin l'è sta formà,
d'argento
püo i gh'ha i brassi e 'r casson,/
de rame
o rèsto pòi der còrpo i gh'ha;/
e dar
cavalo 'nzǜ i è de bandon
fèa
ch'ha 'r pe de mandrita 'n tèra còta/
s'arèza
ciü 'nte quelo che 'nt'er bon./
Fèa che
l'òo, ògni parte l'è sta rota/
e da na
fissidüa làgreme pissa,
che
tüte 'nseme i sòrto fèa daa gròta./
I scoro
zü drent'a sta vale lissa
i fan
'Cheronte, Stige e Fregeton-te/
e dòpo
i chino pe' 'sta streta stris-sa,/
fin
onde n' se pè ciü bacae 'sto monte,/
e la i
fano Cocito, e 'sto pantan
t'er
vedeè da solo e a ne t'er conto"./
E me a
ghe digo, fao "Se sto rian
i sòrta
fèa cossì dao nòstro mon-do/
perché
a 'r vedemo solo 'nte 'sto cian?"/
E lü
"Te sè" i me fa "che o lègo i è tondo,/
e anca
se a man zanca t'èi chinà
der bèo
vegnindo zü zü fin ar fon-do,/
o
sercio anteo ne te l'è anca zià;
e se te
vedi aloa na còsa nèva
ne
state a maavigiae, cossì la va".
E me
torna: "Maistro, onde se trèva/
Fregetonte
e Letè? de queo te ta-zi,/
de
'st'aòtro te m'è 'ito ch'i 'r fa a cèva"./
"Quande
te t'adimandi te me piazi"/
i fa
"ma dar bogìe de l'àigoa ros-sa/
te
dovei acapie ün di doi casi.
Letè
t'er vedeè, fèa da 'sta fòssa,
la
ond'i vano e àneme a lavasse
quand'i
s'eno pentì e a corpa i è remòssa"./
Pòi
dòpo i diza, fa: "Mia deviasse
oamai
dar bòsco; venme arente, fòrsa,/
'nt'i
marzi se passeà sensa brü-zasse/
e sorve a loo tuto 'r vapoe i se smòrsa"./
PIERGIORGIO CAVALLINI
DANTE E LE STELLE
DANTE E LE STELLE (ucailaspezia.org)
Rassegna d’Arte on-line
organizzata da UCAI – Unione Cattolica Artisti Italiani
La Spezia
Ringrazio l'amico Valerio Cremo-lini per l'opportunità di redigere queste brevi note a margine di un evento artistico celebrativo di un Anno Dantesco particolarmente partecipato e mi complimento con l'UCAI per il carattere sa-pienziale del tema scelto: "Dante e le stelle".
Orbene, il guardare costantemen-te alle stelle da parte dell'Ali-ghieri non è certo dato dalla sola chiusa univoca delle tre Cantiche: quella parolina magica, «stelle», è solo l’indicazione di ciò che è la natura profondamente anagogica del poema. In parole povere: la Divina Commedia è un'opera in-teramente strutturata su un pro-cesso totale di elevazione.
Processo "totale", si è detto: non si tratta, infatti, dell'elevazione del solo Dante (e con lui, natu-ralmente, dell'intera umanità, di cui il Poeta si fa manifesto Cam-pione), ma di tutto ciò di cui il poema si fa espressione; per e-sempio, dal modo stesso di fare poesia (crudo e addirittura volga-re nell'Inferno, sublime nel Pa-radiso), ai temi musicali (dal «suon di man con elle», cioè dalle percussioni primitive dell'Inferno, si passa alle corde della lira per poi finire alle trombe e ai cori angelici del Paradiso). Ma anche la narrazione politica ha tutta una sua specifica evoluzione: il tema fondante del buon governo è trat-tato a livello cittadino nel VI del-l'Inferno, a livello nazionale nel VI del Purgatorio («Ahi, serva Italia»...) e infine al livello uni-versale dell'Imperatore nel VI del Paradiso.
Pure l'impianto teologico cresce man mano che si procede dagli inferi verso le "Beate genti": dalle bestemmie dei dannati e gli inganni continuamente orditi dai Demoni ai danni del Pellegrino, si perviene infine al trionfo delle Virtù nelle illuminazioni del Pa-radiso, dove Fede è geniale «cer-tezza di cose sperate».
Solo la “Via di Dante” è il per-corso sul quale non si può errare: frutto dell'illuminazione di una buona stella, il Poema della Cri-stianità illumina noi come la Co-meta del Presepe del Santo Fran-cesco, che ora appare del tutto ri-velata: la dimostrazione dell'asso-luta superiorità del modello cri-stiano su qualsiasi altro, presente o passato che sia ("Seminatori di scismi e di discordie" docet...), è decisamente compiuta.
MIRCO MANUGUERRA
STELLE
Quando
nel
cuore della notte
scalpitate
tra
luccichii senza fine
colgo
presagi
di
annunci soavi.
Dalla
volta celeste
provvidi
sollievi
dissipano
sino
all’alba
languori
non sopiti.
Oscurate
da
nubi rivali
vi
attendo,
care
stelle,
a
nuovi
amabili
incontri.
VALERIO P. CREMOLINI
IL
BUSTO DI DANTE, “GHIBELLIN
FUGGIASCO” DA POLA A VENEZIA
Fra tutti i grandi italiani, Dante Alighieri, di cui ricorre il VII centenario della morte, è in tutto il mondo da sempre il simbolo della lingua e della cultura ita-liane. Non stupisce che fosse an-che un riferimento identitario im-portante per gli irredentisti giu-liano dalmati, istriani e trentini, sudditi obtorto collo dell’Impero Austro-Ungarico. Non senza una caratterizzazione patriottica, nel 1889 il triestino Giacomo Vene-zian aveva fondato la Società Dante Alighieri, riunendo intel-lettuali (fra cui Giosuè Carducci), ma anche un buon numero di ir-rendentisti. Nel 1896, nonostante le resistenze del governo asburgi-co, a Dante fu eretto un monu-mento a Trento. Gli Istriani chie-sero che fosse fatto altrettanto nella loro terra, e scelsero Pola, citata dal Poeta in Inf IX: «Sì com’a Pola, presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna». Per le resistenze gover-native e per l’opposizione della componente croata, non fu con-cesso di realizzare una statua, e si dovette ripiegare su un busto: l’o-pera fu affidata allo scultore Etto-re Ferrari, che già nella sua Ro-ma, per il monumento a Giordano Bruno in Piazza dei Fiori, aveva dovuto superare la fiera opposi-zione degli ambienti clericali.
Il 29 settembre 1901 il bronzo fu collocato nella Loggia del Muni-cipio in piazza della Signoria, fra l’entusiasmo dei cittadini di Pola e di tanti giovani irredentisti pro-venienti da tutta l’Istria. Trai presenti anche il giovane Nazario Sauro. Era prevista un’epigrafe, scritta dal noto intellettuale At-tilio Hortis «Qui, presso del Car-naro, nume ed augurio». Era però troppo chiaro quale fosse l’augu-rio irredentista: l’epigrafe fu vie-tata ma, anche se non scritta sul marmo della lapide, che rimase polemicamente intonso, tutta la popolazione la conosceva comun-que per passa parola. Il ruolo “pa-triottico“ di Dante venne comun-que confermato dal pellegrinag-gio di più di tremila giuliano-dal-mati alla sua tomba a Ravenna il 13 settembre 1908.
All’entrata dell’Italia nella I guer-ra mondiale nel maggio del 1915, con gesto chiaramente ostile del governo austro-ungarico, ancor-chè ufficialmente giustificato da esigenze belliche, il busto fu ri-mosso e fuso per ricavarne can-noni navali, che avrebbero ovvia-mente sparato contro obiettivi ita-liani. Dopo la vittoria, i cittadini italiani di Pola vollero ripristinar-lo, affidando l’opera ancora al Ferrari, che fortunatamente pos-sedeva ancora il calco in gesso. Fu quindi possibile rifonderlo i-dentico e, quasi per contrappasso dantesco, il bronzo fu ricavato dai cannoni di una nave della marina da guerra regio-imperiale bottino di guerra grazie all’interessamen-to dell’Ammiraglio Umberto Ca-gni, che il 4 novembre 1918 ave-va occupato Pola, imponendo la consegna delle installazioni mili-tari e della flotta nemica.
Il 4 maggio ‘45 Pola fu occupata dall’armata comunista jugoslava e come Trieste passò poi sotto il controllo degli anglo-americani: tutti si illudevano che dopo quasi due anni di tutela anglo-america-na, Pola non potesse essere ab-bandonata alla Jugoslavia, ma ad un certo punto fu chiaro che sa-rebbe stato purtroppo così: il 24 dicembre del 1946 iniziò ufficial-mente l’esodo. Pressochè tutta la popolazione italiana abbandonò le proprie case, imbarcandosi sul piroscafo ‘Toscana”, che fece 12 volte la spola fra Pola, Venezia e Ancona. Il 10 febbraio ’47, con il trattato di Parigi fra l'Italia e le potenze alleate,, venne definitiva-mente sancito il passaggio di Pola con tutta l’Istria alla Jugoslavia.
Nei suoi viaggi la motonave “To-scana” non imbarcò solo 30mila cittadini sui 32mila che contava Pola: fu portato via di tutto, anche i resti di Nazario Sauro, che ancor oggi riposano nel tempio votivo del Lido di Venezia, in vista del-l’Adriatico. L’azione vandalica degli occupanti, che già avevano provveduto alla distruzione dei leoni di pietra che adornavano le città costiere a testimonianza del millenario dominio veneziano, e che a Capodistria avevano fuso le statue bronzee del monumento a Nazario Sauro, suscitava il fon-dato timore che andasse distrutto anche il busto di Dante: fu per-tanto rimosso e, quasi nuovo “ghibellin fuggiasco”, fu imbar-cato sulla “Toscana” assieme alle poche cose che i profughi potero-no portare con sè. Fu tenuto na-scosto per anni a Venezia in luo-go segreto, nel timore che fosse confiscato. Nel ’64 si costituì un “Comitato istriano per l’offerta di un busto di Dante al Comune di Venezia”, che accettò. Il 20 set-tembre 1967, nel ventennale del-l’Esodo, la Marina Militare ne autorizzò la collocazione in una nicchia della facciata dell’Arse-nale di Venezia, dove si trova tut-t’oggi: l’epigrafe, scritta dallo storico di Rovigno Giovanni Quarantotti, ricorda l’amore per la Patria e il doloroso destino del-la gente istriana, e riporta anche i versi danteschi che celebrano Po-la italiana.
EDOARDO BERNKOPF
La cerimonia
del 29 sett del 1901
a Pola
VII
OTIUM
UNA
STORIA DELLA SAMBUCA:
“L’AMOROSA TRAGEDIA” DI SEM BENELLI
«…In questa superba plaga ap-penninica ebbe il suo epilogo tragico uno dei più forti Poemi di Sem Benelli, L’Amorosa trage-dia, la tanto discussa opera del geniale drammaturgo. Bianchi e Neri nel dugento toscano, lotte di parte, rivalità amorose, prediche moralistiche, ammazzamenti cru-deli e tirate sentimentali, si svol-gono in Sambuca, ove Arrigo di Gualfredi è trucidato da Vanna per vendicare l’amato Dore muti-lato d’entrambe le mani dai Gual-fredi di parte Bianca».
Così, per la collana “Incanti d’I-talia”, nel fascicolo sulla Monta-gna Pistoiese, Milziade Ricci rac-contava il castello della Sambuca (1). L’anno era il 1936. A quelle date la pièce teatrale di Sem Be-nelli (Filettole, 1877 - Zoagli, 1949), un testo letterario nobilis-simo e di straordinaria importan-za per il territorio, era noto. Ma poi, cadde nell’oblio. Eppure, la produzione del drammaturgo fu molto celebre. Chi non conosce, ad esempio, La cena delle beffe (1941), il film di Alessandro Blasetti tratto dalla tragedia an-data in scena a Roma nel 1909 e musicata nel 1924 da Umberto Giordano? Chi non ricorda la fra-se del giovane Nazzari: «Chi non beve con me, peste lo colga!», o il nudo di Clara Calamai, il pri-mo, nella storia del cinema? L’Autore era lui, Sem Benelli: «vittima letteraria» (Bottai) di un destino ingrato, la personalità del poeta fu oggetto di persecuzione, e spesso di incomprensione, an-che se all’epoca rivestì un ruolo non marginale nel panorama let-terario del Novecento. Non sa-rebbe possibile, in questa sede, indagarne compiutamente la bio-grafia, molto articolata: basterà, però, ricordare come studi re-centi, in particolare la monografia di Antonini (2), ne abbiano ri-lanciato doverosamente la rilet-tura.
Non poteva mancare, al recupero, l’ambito dell’alto Reno: all’Ap-pennino Benelli fu profondamen-te legato, e proprio nella Trage-dia ne seppe cogliere in modo in-comparabile lo spirito più veritie-ro. È possibile, e anzi, è pres-sochè sicuro, che la conoscenza capillare dell’anima di quella ter-ra come la si racconta nel dram-ma gli fosse derivata da un sog-giorno alla Sambuca Pistoiese, ospite di Michele Barbi nella ca-setta dove l’esegeta era nato nel 1867, nel borgo di Taviano, ai piedi del castello dei Vergiolesi. Il 17 luglio scorso, nell’ottantesi-mo anniversario della morte, correndo il 700° anniversario del-la scomparsa di Dante, una gior-nata di studi dedicata al celebre dantista (3) ne ha dimostrato la presenza assidua in «Tavian Vec-chio»: Barbi arrivava carico di libri (come mi raccontava, del re-sto, anche il suo pronipote A-lessandro) e qui, nel silenzio della montagna, si raccoglieva con-frontando, valutando e selezio-nando tra le trascrizioni dante-sche; in contatto con gli dei si vorrebbe dire - quanto meno con quelli che popolano l’anima degli umanisti - e tuttavia in collega-mento vivace con la Società Dan-tesca e con i letterati con i quali intratteneva una corrispondenza fitta, o intrecciava dialoghi nell’e-remo dell’antico borgo quando gli facevano visita (Carducci, per esempio, che arrivava in treno al-la Venturina e il Barbi lo andava a prendere con la carrozza): una conversazione perduta alla quale tutti avremmo voluto assistere. Quella rete eccellente di relazio-ni, ricordata nell’incontro di studi da Gabriella Albanese e da Paolo Pontari, trasformò per anni quel luogo ricordato dall’Alighieri e da Cino da Pistoia in un nodo centrale nel dibattito tra i filologi mentre nella viriditas di un pae-saggio fatto di abeti e di castagni e ricco di gentili leggende pren-deva forma la gloriosa edizione critica della Vita Nova.
Certo, al di là del genius loci ap-penninico che affiora nell’Amoro-sa tragedia, corre l’obbligo di ri-cordare che i rapporti con Pistoia erano di lunga data. Nella città di Cino, Sem aveva preso il diploma nel 1897 anche se gli studi erano stati avviati a Firenze, presso gli Scolopi, dopo un’infanzia nel ter-ritorio di Prato e per la precisione a Filettole, dove era nato nella frazione “Croce dei cappuccini”. I genitori, Raffaello e Giovac-china Borri, originari della Val di Nievole, erano di umili condizio-ni (come d’altronde quelli del Barbi, “al fiol d’al fabbro” ri-cordato da Maurizio Ferrari nei Dieci racconti sambucani (4). Della modestia della sua famiglia non fece mistero, e lo confessò lui stesso nel testo autobiografico La mia leggenda, del 1939: «[…] quella casa della Croce, dove sono nato… tanta miseria abita-va») (5).
Nel 1891 la famiglia si trasferì in Liguria, la sua seconda patria. Qui, alla morte del padre (1895), Benelli abbandonò gli studi e si cercò un lavoro. Ma non smise mai la lettura - Pascoli, D’An-nunzio, Pirandello, Ojetti - e così, qualche anno dopo, andò a Pisto-ia per ultimare la sua formazione. La sua avventura di letterato decollò in quegli anni: nel 1902, diciassettenne, aveva scritto una commedia in versi, mentre all’A-rena Nazionale di Firenze era an-dato in scena il Ferdinando Las-salle, la storia di un socialista: era quasi un’autobiografia che ne ri-fletteva l’allineamento al dibattito del suo tempo. Poi, visse a Roma e quindi a Milano, dove fu re-dattore della Rassegna internaz-ionale. Lavorò come giornalista. Nel 1903 vennero rappresentati La Terra e la Gaia Scienza (1903) che, anche se non lascia-rono traccia, rivelarono un’abilità psicologica e una profondità non comuni ribadite nel poema “auto-biografico” Un figlio dei tempi (1905). Questa caratteristica sarà costante in tutta la sua produzio-ne. Prese forma in quegli anni l’universo poetico del dramma-turgo: nel 1908 decollò, con Ti-gnola, il Benelli intimista, quello dell’epopea piccolo borghese e della sconfitta individuale: il con-flitto, modernissimo, tra la ma-schera e l’inconsistenza dell’esse-re e perciò un’inversione di mar-cia rispetto al superomismo dan-nunziano. Di lì a un anno, ecco La maschera di Bruto, la tragedia di Lorenzino e Alessandro de’ Medici giocata sul contrasto tra il volto dell’eroe e la miseria inte-riore; nel 1909 di nuovo il rina-scimento fiorentino nella famosa Cena delle beffe (1909) scritta in poco più di tre mesi. Fu un suc-cesso, e tale, da consegnare il suo nome alla storia della letteratura. Nel dramma torna il motivo, ti-pico di Benelli, della vittoria del più debole, in questo caso Gian-netto (interpretato nelle repliche parigine dalla grande Sarah Bern-hardt) a scapito del prepotente, Neri Chiaramontesi, che dopo a-vergli rubata la fidanzata Ginevra lo fa calare per ben due volte in Arno e malmenare. La vendetta è terribile: Neri, fatto passare per pazzo, è rinchiuso, mentre Gian-netto si prende la rivincita con l’amata. Liberato dalla prigionia, il Chiaramontesi corre verso la trappola e, convinto di uccidere il rivale, trafigge suo fratello in ca-mera di Ginevra, e questa volta impazzisce davvero.
L’incalzare rapido degli avveni-menti, i “coups de théatre “ e la spettacolarità dell’endecasillabo preso a prestito dal D’Annunzio, contrapposero al “Vate” Sem Be-nelli, che fu considerato una sua alternativa. Un confronto che il pratese non accettò mai, ma finì per subire, trovandosi involonta-riamente in una situazione di sfi-da.
A Roma andarono in scena L’A-more dei tre re (1910) e Il Man-tellaccio (1911), e nello stesso anno, a Milano, la Rosmunda, per cura della “Benelliana”, la Com-pagnia romana con Irma Gra-matica. A Trieste e a Torino vennero rappresentate, rispettiva-mente, la Gorgona e le Nozze dei Centauri (1915), opere venate di interventismo e ispirate alla “ci-viltà italica”. La guerra era alle porte. La parentesi del conflitto arrestò per alcuni anni la sua pro-duzione. Benelli all’epoca era passato dal socialismo a una par-ticolare forma di italianità. «Compito dell’Italia» per il pra-tese, era quello di fare argine contro i «Centauri», cioè gli in-vasori, «che troppe volte hanno calpestato la nostra grandezza, la nostra bellezza e la nostra umani-tà». Il suo era un interventismo idealista, come quello di Mari-netti - del quale fu amico per qualche tempo - di Slataper, Stuparich, Murri, Salvemini, Cor-radini e molti altri. Guadagnò due medaglie, e la stima dei conna-zionali. Fu alterno, invece, il suo atteggiamento in merito all’im-presa di Fiume: a Roma, nel cor-so di un comizio al teatro Augu-steo, sostenne l’impresa alla pre-senza di militari e borghesi, ma poi se ne dissociò.
Il prestigio politico gli aperse le porte del regime: nel 1921 fu eletto deputato ma se ne allontanò ben presto, per fondare una “Lega italica” dissidente, in alternativa al fascismo. D’Annunzio lo scon-fessò. Nel ’24 il delitto Matteotti completò la frattura, e lo portò all’opposizione, espressa, dopo le dimissioni, con la firma del con-tro manifesto Croce. Del resto, i suoi valori non si identificavano con l’ordine vigente, che denun-ciò nelle pagine di Schiavitù (1943). La scelta della libertà in-tellettuale gli costò cara, e in più di un’occasione l’allestimento dei suoi drammi fu ostacolato, come nel caso dell’Orchidea (1938), in-terrotta dall’irrompere in sala del-le “camicie nere”. Ma per la vita pubblica del drammaturgo si ri-manda al volume di Sandro Anto-nini.
Deluso nelle sue aspettative, Sem si ritirò a Zoagli, nel castello in stile eclettico da lui stesso com-missionato e ispirato a quel sim-bolismo al quale fu intellettual-mente vicino. Intenso fu il rap-porto con le arti figurative: Gali-leo Chini fu l’illustratore delle sue edizioni e lo scenografo di molti drammi, tra i quali L’Amo-rosa tragedia (6). Non è possibile soffermarsi in questa sede su questo importante aspetto della personalità di Benelli, altrove in-dagato da studi recenti (7); ci ri-promettiamo di farlo in una pros-sima occasione. Preme, al mo-mento, sottolineare la complessità e la profondità della sua ispira-zione, che lo avvicinava ai movi-menti artistici del suo tempo.
All’indomani della grande guerra urgeva la necessità di un orienta-mento più alto nello scrittore, che ancora prima del declino politico aveva intuito l’esistenza di un sistema di valori diverso. Nel 1921 il dramma Ali introduceva il tema dell’umanità decaduta e del-la redenzione, venando di misti-cismo la sua produzione; il con-trasto tra il Bene il Male, tra la luce e la tenebra prendeva il so-pravvento sull’individuazione dei singoli personaggi, i quali espri-mevano ora in chiave simbolica, più che simbolista, idee univer-sali. Ma la svolta spirituale in direzione di contenuti filosofici, se non metafisici, avviene a Zoa-gli, nel 1924, all’indomani del ritiro dalla vita pubblica. Dolore e disillusione caratterizzarono quel momento, all’insegna del ripiega-mento e della riflessione. Benelli, però, aveva una fede: quella della sua arte, che gli consentiva di sopravvivere ad un mondo ostile. Con sé, nel ritiro, aveva portato un libro. Era un argomento che lo affascinava, una vicenda ambien-tata nel medioevo, quello di Dan-te, che per il drammaturgo incar-nava l’idea del “Bene”, la radice del pensiero e della letteratura italiana. Si trattava delle Storie pistoresi, di autore anonimo, edi-te nel ’27 da Silvio A. Barbi (8). Raccontavano le vicende della città toscana tra XIII e XIV seco-lo, quando Pistoia era lacerata, in trasformazione continua ed insi-diata da interferenze: specialmen-te quelle fiorentine, che dal 1296 diventarono una costante. Era, insomma, una condizione subli-mata di instabilità e di divisioni interne. Ma forte, da parte dei cit-tadini, era la volontà di salva-guardare la propria indipendenza.
Tre settimane bastarono a Sem Benelli per produrre un capola-voro, l’opera alla quale affidare la sua voce repressa. Nacque così, in Liguria, nei silenzi del castello affacciato sul mare, L’Amorosa tragedia; anche se il dramma era ambientato in montagna, alla Sambuca Pistoiese.
«Triste, impetuoso…cominciai a scoprire nuove leggi nel gran dolore dell’uomo, sentii che per essere scrittore bisognava avere una missione: essere apostoli, materni, creativi, rivoluzionari; vi si tengono i più grandi comizi, e la più grande orchestra dello spirito» (Ricordi di Teatro, 1933) (9). Questo fu il messaggio affidato al dramma. Perché ogni uomo libero lo potesse com-prendere. E il luogo mistico della libertà interiore, e del perdono, fu la Sambuca.
Quella storia, che lo aveva ispi-rato, narrava di una celebre divi-sione, che per Pistoia fu mitolo-gia: quella della scissione, all’in-terno del partito guelfo, tra Can-cellieri Bianchi e Cancellieri Ne-ri. Il fatto avvenne nel 1286, co-me testimoniò Tolomeo da Lucca e, nella Cronica, Giovanni Villa-ni, che apparteneva ai Neri, e per di più era fiorentino. La separa-zione provocò fatti di sangue, che si estesero alla società toscana e ben presto anche a livello nazio-nale. In realtà, il conflitto era già presente, in fieri, all’interno della consorteria magnatizia. Cominciò tutto con una lite tra cugini. Nel 1296, poi, i Cancellieri vennero esiliati: i Bianchi trovarono rifu-gio presso i Cerchi, i Neri presso i Donati.
«Nella ditta città avea assai nobili e possenti cittadini: in fra’ quali era una schiatta… li quali si chia-mavano Canciglieri… erano sì grandi e di tanta potenza che tutti li altri grandi soprastavano e bat-teano; e per loro grandigia e ric-chezza montarono in tanta super-bia che non era nessuno sì grande né in città né in contado che non tenessono al di sotto. Molto villa-neggiavano ogni persona…e mol-ti ne faceano uccidere».
«Seguitoe che certi giovani, tutti di ditta casa ma’ quali per avventura facevano duoi rami che l’uno delli Amadori l’altro de’ Rinieri si diceva, essendo a una cella ove si vendea vino, e aven-do beuto di soperchio, nacque scandalo in tra loro giocando: onde vennero a parole, e percos-sonsi insieme, si che quello de’ Ranieri [sic] soprasteo a quello delli Amadori: lo quale avea no-me Dore di messer Guglielmo…e quello che lo ingiuriò avea nome Carlino di messer Gualfredi… Onde vedendosi Dore esser bat-tuto… e non potendosi quivi ven-dicare però che erano più fratelli a darli, partissi, e propuosesi di volersi vendicare… la sera a tar-di, stando Dore in posta, [pas-sando a cavallo] messer Vanni di messer Gualfredi ed era giudice, Dore lo chiamò; ed elli non sa-pendo quello che ‘l fratello [Car-lino] avea fatto, andò a lui; e vo-lendoli Dore dare d’una spada in su la testa, messer Vanni per ri-parare lo colpo parò la mano; on-de Dore menando li tagliò il volto e la mano per modo che non ve li romase altro che ‘l dito grosso… Lo padre di messer Vanni e’ fratelli pensarono farne vendetta e uccidere Dore e ‘l padre e’ fra-telli...[i quali] vedendo che li con-venia così stare in casa, credendo uscire dalla briga, diliberarono di mettere Dore nelle mani del padre e de’ fratelli di messer Vanni, che ne facessono loro piacere, creden-do che con discrezione lo trattas-sono come fratello… Costoro [in-vece] come spietati e crudeli no riguardando alla benignità di coloro che li lo aveano mandato, lo missono in una stalla di cavalli, e quivi uno de’ fratelli di messer Vanni li tagliò quella mano con la quale egli avea tagliato quella di messer Vanni… e così ferito e di mozzicato lo rimandarono a casa del padre” Quando lo padre e’ fratelli… lo videro così concio, furono troppo dolenti… Quello fue lo cominciamento della divi-sione della città e contado di Pi-stoia: onde seguirono uccisioni d’uomini, arsioni di case, di castella e di ville, e cominciossi a chiamare Parte bianca e Parte nera» (10).
È uno stile di vita sciagurato, quello che raccontano le Storie pistoresi: per questo, non poteva non piacere all’autore della Cena. Ma di più, in quel dramma Be-nelli colse lo spirito di divisione che, forse, volle esorcizzare, in-ventando un epilogo alla vicenda. Dopo tutto, come aveva scritto nei Ricordi di Teatro, era questa la missione dello scrittore. Così, mise mano all’Amorosa Tragedia (11), pensandola - per parafrasare le sue parole - come un «co-mizio» o una «grande orchestra dello spirito» destinata a parlare finalmente di pace, in un mo-mento di grave crisi nazionale. Era, insomma, una visione dal-l’alto, e quell’«alto», appunto, erano gli spalti della Sambuca. Proiettata, così, in una dimen-sione simbolica e “nazionale”.
Intorno a Dore si formarono altri personaggi, evocati dalla capacità “creativa e materna” dello scrit-tore. Di tutti fu possibile in-dividuare l’appartenenza alla luce o alle forze opposte del male.
L’opera, rappresentata a Roma, al Teatro Argentina (14 aprile 1925), fu un trionfo. Inizialmente, però, venne proibita. E in effetti ci volle del coraggio a presentarla alla censura di regime. In tempi di superomismo, nel dramma viveva una parola di pace e un anelito spirituale di rinnovamento basato su una forza sottile, per-seguita con la mitezza della ri-nuncia; inoltre, quel che era “peg-gio”, si affermava la grandezza irresistibile dell’”animus” femmi-nile. Ma il consenso della critica, e del pubblico, salvò il lavoro di Sem Benelli.
Specialmente il secondo atto, che si svolge “sul terrapieno” del ca-stello della Sambuca, con le “mu-ra che scendono a precipizio”, fu salutato come il più “suprema-mente lirico” e “il più bello” dell’intera tragedia (Ferdinando Paolieri, “La Nazione” 22 maggio 1925).
Ma ciò che preme in questa sede evidenziare, è la sintesi degli a-spetti salienti di quel territorio, storici, etnici, naturalistici, che l’autore condensò nel dramma, combinandoli in una formula al-chemica ben riuscita. Sono perso-naggi, immagini e situazioni che rispecchiano la realtà locale. Che Benelli frequentasse i monti del-l’Alta Valle del Reno, al confine con l’Emilia. La Sambuca come tappa francigena evocata con l’immagine dei «pellegrini che vanno in Lombardia… con il cap-pello tondo e il bordone» (I atto), la spiritualità del pellegrinaggio jacobeo, descritta dal Chiappelli in Città e terre mistiche (1923), un testo che lo scrittore proba-bilmente conosceva (12). Poi l’allusione all’eremitismo libero toscano rappresentato dal “santo” che predica sulla montagna, e da Costanza, l’eremita della Sambu-ca (13). Tra gli ingredienti trovia-mo inoltre la mistica francescana e l’amore per la Natura, imma-gine del Divino riflessa nei grandi alberi. Infine, tutte le declinazioni dello Stilnovo, le visite di Cino de’ Sighibuldi, in arte Cino da Pistoia, al castello dei Vergiolesi, e le tradizioni locali: dall’alimen-tazione povera alla civiltà del ca-stagno, dalla fitoterapia tradizio-nale alla strega, e fino alle canta-trici (e certamente Benelli ne co-nobbe qualcuna, tra le tante cita-te, nei suoi contributi, da Gian Paolo Borghi). Ma soprattutto, vive, nell’opera, lo spirito di quelle genti (14). Così, nel mono-logo del primo atto, l’eremita Simone descrive il popolo della Sambuca:
«E pensare che dove vivo io/ c’è gente che ha ottanta e novant’an-ni/ e che non ha saputo mai chi fossero/ l’imperatore, il papa o il podestà,/ e che non sa chi è che fa le leggi;/ che vive in pace e crede alla giustizia,/ pur non avevdo conosciuto un giudice,/ né un go-vernatore, né un capo/ del popolo, che vive in santa pace,/ e canta in poesia e ascolta ognuno/ che esalta il bene e ride de’ cattivi;/ e d’una cosa sola s’alimenta:/ della buona farina di castagne,/ e ne fa migliaccini, castagnacci,/ o necci cotti tra le foglie e i testi;/ e non conosce nemmeno il sapore/ del vino…»
Certo, il linguaggio è superato, ma la descrizione è sorprendente-mente attuale (15).
Ma veniamo alla storia. L’azione ha inizio a Pistoia, nel cortile del palazzo di Uberto, di parte Bian-ca, fratello di Gualfredi e di Si-mone. Con regia sapiente, uno dopo l’altro Sem Benelli mette in scena i protagonisti. Introducono alla vicenda le schermaglie tra i faziosi e le loro belle, poi arriva-no i Neri, che minacciano dall’e-sterno i nemici. Entrano le figlie di Uberto, Vanna, Maddalena e Matelda, che vagheggiano una fe-sta in palazzo Cancellieri («Bal-leremo oggi, sai,/ sui prati tene-relli,/ nell’orto del palazzo Can-cellieri»). Le giovani rappresen-tano tre diversi aspetti dell’animo femminile: Vanna, vedova, la più forte, ama Dore, di parte nera, mentre Matelda, l’innamorata fe-lice, è fidanzata con Guido de’ Ricciardi. Maddalena, invece, su-bisce il fascino perverso del cu-gino Arrigo, attratto dalla fragilità della giovane sulla quale esercita un sadico potere (Arrigo: «sei sdegno, palpito: e seduci»). Non dimentichiamo che negli anni in cui Benelli si accingeva al dram-ma, Freud scandagliava i recessi della psiche umana. Arrigo entra dunque in scena, tra minacce e improperi. Figlio di Gualfredi e di Costanza, la “cieca” ripudiata dal marito e che ora vive come eremita alla Sambuca, il malvagio Arrigo rappresenta, nella trage-dia, lo spirito di divisione e la prevaricazione sui più deboli (Ar-rigo: «Il padre mio si sollazzò con quella/ che è mia madre, e che poi ripudiò./Che ne faceva, per la casa? È cieca./Forse vo’ bene a mio padre per questo»). Apprenderemo poi che Costanza, accudita dal buon Simone, il fratello di Uberto e di Gualfredi, era sorella della defunta fidanzata di quest’ultimo; prima di perdere la vista (per non vedere la mal-vagità del marito e del figlio, co-me ammetterà lei stessa), viveva libera sulle montagne, improv-visando “strambotti” (Costanza: «…Ero selvaggia,/ e trasvolavo come un raggio d’oro/ tra i fusti delle piante…»).
Vanna rimprovera per la sua in-sana passione la sorella Madda-lena, che le parla della sua pietà («Pietà, pietà è la mia/…Rimasta m’è nell’anima/ la voce di quel santo, quella notte,/ nella strada fra i monti. Amate per chi odia…»): ecco l’immagine del-l’eremita e l’invito al perdono che riecheggia sui monti della Sam-buca. Vanna vagheggia un luogo dove fuggire dalle “risse fraterne” (Vanna: «…Io me n’andrei,/ col mio dolore, su sulla montagna,/ alla Sambuca… Oh, Dio! Fuggi-re!/ Fuggire dove l’uomo più non conta,/ con le sue basse imprese e il suo livore…/ ove il vivere è bene e non inferno!»). Questo luogo edenico, come vedremo, sarà proprio la Sambuca Pisto-iese.
Nel frattempo si odono le grida delle opposte fazioni: Matelda interviene, vagheggiando a sua volta la montagna come il luogo della pace e dell’oblio: «Se an-dassimo/tutti sui monti e guar-dassimo questa/ gente di lassù in cima». Come dire: il punto di vista di Sem Benelli.
Sopraggiunge, in vesti da pel-legrino, Simone, fratello di U-berto e Gualfredi, e, quindi, zio delle ragazze (Vanna: «…un ramo/ di castagno nel sole è il vostro arguto/ parlare, zio»). Simone, il vecchio saggio, si è sottratto alle lotte fratricide («Non nasceranno dunque più figlioli!/ Quelli che nasceranno avranno impressi/ sulla schiena i colori del partito») e ha scelto la Sambuca, percorsa dai “pellegrini che vanno in Lombardia”. Sulle montagne ora vive in contempla-zione, e assiste pietosamente la cognata cieca, madre di Arrigo, che vorrebbe rincontrare il figlio. Simone parte allora alla volta di Pistoia, sperando di convincere Arrigo a far visita alla madre. Ma i sui propositi verranno delusi. Arrigo, sprezzante, apostrofa Si-mone, e lo invita a ritornare senza di lui in montagna (Arrigo: «Tu puoi ben ritornare alla montagna,/ se tu spregi la mischia, perché qua/ ci piace il sangue…»). «Son venuto a veder la mia cittade/ nata bella e che voi contaminate./ Credendo ritrovar la mia Pisto-ia…», controbatte lo zio, rimpro-verando il malvagio nipote. Il quale, all’arrivo del padre Gual-fredi, ribadisce la sua arroganza: «…se dalla parte mi allontano,…/ se gli altri sanno ch’io son tenero;/…ammorbidito da questo giullare/ di Gesù, come San Fran-cesco, chi,/ chi ti difende e di-fende la casa… Non ascoltare questo mangiatore di castagne!».
Arrigo narra poi della rissa tra cugini avvenuta nella taverna, parafrasando l’episodio riportato nelle Storie pistoresi. Secondo questa versione, Dore, ferito da Arrigo, si sarebbe poi rivolto al fratello giudice di questi, Vanni, per avere giustizia. Segue un alterco tra Uberto e Simone: nel dialogo tra i due fratelli emerge chiaramente la rispettiva appar-tenenza alle forze del Bene e del male. Si aggiunge poi Gualfredi, che esalta l’ebbrezza della violen-za e della sopraffazione. La con-versazione è interrotta dall’in-gresso di Vani, ferito al volto e alla mano da Dore di Guglielmo Cancellieri, di parte nera. Ovvia-mente, i presenti giurano vendet-ta, ad eccezione di Simone e delle nipoti (Simone: «La strage, allo-ra, non avrà mai fine»). Entra in scena Dore, che, tentando di spie-gare l’accaduto a Gualfredi, gli chiede perdono per averne ferito il figlio Vanni. Quindi si conse-gna ai nemici (Dore: «Io so che non si può vincere il male/ senza dare l’esempio; ed io lo do…Mi rassegno, mi umilio;/ piego il ca-po»). I Cancellieri di parte nera, però reagiscono ferocemente e, trascinato il giovane in una stalla, gli appoggiano entrambe le mani su una mangiatoia e gliele moz-zano. Il finale è raccapricciante: Dore entra in scena correndo, mutilato, e grida: «Non ho più le mani mie!/ Non ho più le mie mani!».
Il secondo atto si apre sugli spalti del castello della Sambuca. Nel cavo di un castagno monumentale siede la cieca. Sono con lei Ma-telda, Guido e Maddalena che, con la sorella, dopo il tragico evento si sono rifugiate alla Sambuca, presso lo zio Simone. Qui cercano di dimenticare la violenza di quel giorno, contem-plando, nei boschi, «l’aspetto del creato»: «Adoravamo Iddio nelle sue splendide/ gemme di vita santa tutte aperte». Le farà eco Simone: «Sì, sia lodato in ogni creatura,/ in ogni soffio d’aria, in ogni stilla/ di pianto o di rugiada, in ogni fiore,/ in ogni seme, in ogni patimento…Nel nome tuo [Dio] tutto si placa il mondo/… mosse da te , le stelle guardano/ con amore la terra che i subito/ diventa…/ la nostra bella armo-niosa madre»,.
Matelda invita poi il fidanzato a recarsi presso una donna miste-riosa, che vende fiori sui monti della Sambuca: «Laggiù, nel bosco…/ c’è una donnina che sempre mormora/ le sue pre-ghiere: verso quest’ora/ raccoglie fiori: è maga,/ è strega, dicono;/ e sa tante malie; e vende i fiori».
Sopraggiunge Simone. Costanza gli domanda perché, a differenza delle cugine, il figlio Arrigo non li abbia raggiunti alla Sambuca. Questi preferisce mentire alla cognata, nascondendole l’indif-ferenza del figlio e persuaden-dola, invece, che Arrigo è un “cavaliere” nobile e generoso.
Seguono considerazioni amare sulle vicenda politica del Paese («L’Italia sconta la sua vita nuova:/ in tutti coce una brama di lotta…/ E la gente è confusa, e nulla vede/ se non le proprie ambizioni e l’odio./ Solamente i poeti ora richiamano/ la patria bella a un palpito concorde…»).
Costanza osserva poi che solo la poesia può consolare gli animi nei momenti di dura prova (mo-tivo petrarchesco): «Il pane dei poeti/ per noi solinghi è il solo che nutrisce». E Simone: «Non ricordi, Costanza, messer Cino,/ il poeta? Che bene ci donò/ quando si fermò qui…» e cantò: «Quando potrò io dir – dolce mio Dio -/ per la tua gran virtude/ or m’hai tu posto d’ogni guerra in pace?»
La rievocazione offre lo spunto ad osservazioni sullo Stilnovo, e in particolare sull’amor cortese, che così Simone spiega a Costan-za: «essi [ gli stilnovisti] magni-ficano/ in una donna più che don-na vera/ la creatura umana che si esalta/ in virtù dell’immensa vo-lontà di pace…». Commenterà più tardi Dore: “Amore non è al-tro che l’ascendere/ dell’anima al-la sua perfezione. La superbia de-gli uomini ha corrotto/ l’essenza sua…».
È Dore, mutilato d’entrambe le mani, che entra in scena. Ha lasciato Pistoia, ed è salito sui monti della Sambuca. «Io passo i monti e lascio la mia patria:/… pregate, creature ed adorate/l’u-niverso com’io lo benedico/ sen-za più mani…ma, se non ho più mani, m’è rimasta/ la dignità dell’uomo che non vuole/ essere offesa…». Questo il nobilissimo monologo di ingresso. «Coraggio, figlio mio: trova conforto/ in te stesso, che certo, se il tuo corpo/ è scemato, la tua anima eccelsa/ è cresciuta di ali…» è la risposta di Simone. Gli fa eco Costanza, nar-rando «con voce lontana e ma-gica» la leggenda di santa Uliva: priva di mani, con i bambini al petto, si sporge su uno specchio d’acqua per abbeverare una vec-chia; nel gesto, i bambini scivo-lano sul fondo «Ah! Me misera! I bambini!». Esclama la santa. «E tu prendili, oppure/ siano affo-gati” le dice la vecchina. «Uliva non ragiona,/ tuffa le braccia, brancica nel fondo/ e nell’atto di stringere/ le creature, le sue mani sante/ miracolosamente le ritor-nano./ [Sono] le mani nuove nate dall’amore».
Così, con queste parole, Costanza vince la reticenza di Dore, che dopo la mutilazione non osava più accostarsi a Vanna (Dore: «Tu non sai/ come ti vedevo, o Vanna, o Vanna,/ più assai che creatura, come in te/ l’anima mi pareva aver sostanza/ e la bellez-za spirito immortale»). Gli risponde Vanna «Basterebbe che il tuo volto/ rispecchiasse la gran-de anima tua/ dov’io mi im-mergerei per la gran gioia/ di ri-trovare la mia vera anima:/…Tu non hai mani; ed io ti coglierò/ tutti i fiori che desidererai…».
Il terzo atto si apre ancora sugli spalti della Sambuca. Matelda e Guido, Vanna e Dore sono con-volati a nozze (Matelda: «…ricorderò per sempre la cap-pella/ della Sambuca [S. Jacopo?] dove fummo sposi,/ lo stesso giorno che Giovanna e Dore»). Ma la felicità è di breve durata: si presenta, alle porte del borgo, il perfido Arrigo. A Pistoia i Bian-chi hanno trionfato: tutti i guelfi di parte nera sono stati uccisi; ad eccezione di Dore. Simone invita il mutilato a nascondersi, ma Do-re vuole affrontare a viso aperto il nemico, dopo tutto, potrebbe an-che essersi pentito. «Tu guardi in alto,/ figliolo mio, e loro sono bassi./ Tu miri al cielo e loro di soppiatto/ ti tirano alle gambe», lo ammonisce Simone.
Si presenta Arrigo, che finge di essere venuto a chiedere perdono. Ma si tratta, evidentemente, di u-na strategia. Ora vuole sapere dove si nasconde Dore. Con uno stratagemma, allontana Simone. Poi cerca di persuadere Madda-lena a rivelargli dove si trovi il nemico. Minacciando la giovane di toglierle il suo amore, ottiene la risposta che si aspettava. Mad-dalena cede, e gli rivela la pre-senza di Dore alla Sambuca. Ar-rigo, mentendo, la persuade di voler mettere Dore al riparo dagli armati che stanno salendo la Sambuca, con l’intento di ucci-derlo: «bisogna/ che Dore fugga e riprenda la strada/ di pellegrino come quando uscì/ di Piostoia schernito e senza mani…», è la sua strategia.
Sopraggiunge Gualfredi, che con Arrigo convince Simone della bontà delle loro intenzioni. Dore si presenta spontaneamente al cugino. «I Bianchi hanno rigo-glio/ finalmente, e, saliti in signo-ria,/ non voglion che nessuno dei nemici/ rimanga vivo nella terra nostra./ Tu sei di quelli; Dore, e sei cercato./ Tutti sanno a Pistoia che sei qua./ Un drappello di gente armata è prossimo/ a giun-gere per prenderti ed uccider-ti…». Così Arrigo convince Dore a lasciare la Sambuca, nonostante le proteste di Vanna. Prima di partire Dore consegna la sua spa-da alla moglie: «Ti dono questa che è il mio pentimento./ Con-templala ogni giorno, e se tu ven-ga/ in cospetto del male tentatore/ adoprala che solo è buono usarla/ contro di lui». Dore abbandona la Sambuca.
Arrigo approfitta dell’allontana-mento del rivale, per insidiarne la moglie (Arrigo: «È forse questo/ il giorno della mia vera vitto-ria?”). «Demonio! No!» gli grida Vanna, allontanandolo. «Demo-nio sì: ma nato da una donna…» è la risposta di Arrigo, che con-clude sghignazzando ferocemen-te. Sopraggiunge Costanza, che aveva udito la conversazione: «Tu non puoi essere il figlio mio!». «Son proprio io…»,, ribatte sadicamente Arrigo. Poi chiede alla madre di appoggiare sulle sue ginocchia la sua «testa di demone». In un lungo mono-logo le confessa ogni nefandezza, non ultima l’avere finto di amare Maddalena per arrivare a Vanna. «Io sono la vergogna della vita», esordisce. Costanza scopre l’in-ganno di Simone: suo figlio non è un nobile cavaliere, ma un per-vertito.
All’improvviso, a valle risuonano grida lontane. Dore è stato ucciso. Vanna estrae la spada del marito e trafigge Arrigo alle spalle: «Mostro esecrando!» grida Van-na. Simone accorre, portando la notizia dell’assassinio di Dore. Non può che contemplare ester-refatto la scena «Vanna come ebbra di pianto… gli indica Arrigo morente fra le braccia della Madre».
Così, cala il sipario sull’Amorosa tragedia: la tragedia della Sam-buca.
ELISABETTA LANDI
NOTE
1) M. RICCI, Montagna Pistoiese, Pubblicazioni
Turistiche Collana “In-canti d’Italia”, XIV, 1936, p.30.
2) S. ANTONINI, Sem Benelli. Vita di un poeta dai trionfi
internazionali alla persecuzione fascista, Genova, 2008. cfr. inoltre J. TRAGELLA MO-NARO,
con prefazione di A. Galletti, Sem
Benelli, l’uomo e il poeta, Mi-lano, La Prora, 1953; F. MAROTTI, Benelli, Sem in «DBI», vol. VIII , Roma,
1966, pp. 472-476 (con biblio-grafia precedente); G. BOTTAI, Dia-rio 1934-1940, Milano, Universale
Rizzoli, 2001.
3) “Tra
Dante e il paese natale Mi-chele Barbi, nell’80° della scom-parsa”, Giornata di
Studi (con la par-tecipazione di Emanuela e Michele Barbi), Sambuca Pistoiese,
17 luglio 2021, Castello di Sambuca, Chiesa di San Jacopo, per l’organizzazione
di “Parco Letterario Policarpo Petroc-chi” e “I Parchi Letterari”.
Michele Barbi
4) M. FERRARI, Dieci racconti sam-bucani, con
prefazione di Federico Pagliai, s.l., s.n., 2015.
5) S. BENELLI, La mia leggenda, Mi-lano, Mondadori,
1939.
6) C. CRESTI, Architetture raccontate da Emilio Salgari e
Sem Benelli, in «Architettura e Arte», Firenze, A. Pontecorboli Editore,
2008. A p.69 sono illustrate le scenografie de L’A-morosa tragedia.
7) F. CANALI, Letture benelliane. Sem Benelli critico e
promotore delle arti, Firenze, Alinea Editrice, 2003; R. TROVATO, Le apparenti contrad-dizioni di Sem Benelli,
«Studi di Storia delle arti», 10.2000/3 (2003), pp. 203-211.
8) S. A. BARBI (a
cura di), Storie pi-storesi, Bologna,
Zanichelli, 1927.
9) Ricordi di Teatro di Sem Benelli, «Comoedia»,
n. 10, 1933.
10)
G. CHERUBINI (a cura di), Storia di Pistoia
II. L’età del libero Comu-ne. Dall’inizio del XII alla metà del XIV secolo,
Firenze, Le Monnier, 1998, pp. 60-62.
11)
S. BENELLI, L’Amorosa trage-dia, Milano,
Fratelli Treves Editori, 1925, nonché in Tutte le
opere di Sem Benelli, Milano, Mondadori, 1937.
12)
A. CHIAPPELLI, Città e Terre
mi-tiche, Pistoia, Firenze, 1923. Cfr. inoltre R. STOPANI, La Via Franci-gena in Toscana: storia di una
strada medievale, Firenze, Salimbeni, 1984; L. GAI (a cura di), La via Francigena e il culto di San Jacopo a
Pistoia : culto e cultura iacopea in un centro lungo le vie di pellegrinaggio
italia-ne fra medioevo ed età contem-poranea, mostra di documenti e libri,
cartografia e manifesti, Regione To-scana, Pistoia, 1996.
13)
Per il fenomeno del “romitismo” femminile pistoiese, anche se riferito ad epoca
più tarda, cfr. E. LANDI, Aristocratica
eremita. Per una bio-grafia di Lapaccina Dal Gallo, «Col-lectanea
Franciscana», 79/1, 2009, pp. 123-148.
14)
R. ZAGNONI (a cura di), Homo Appenninicus.
Donne e uomini delle montagne, Gruppo Studi Alta Valle del Reno, Società
Pistoiese di Storia Patria, atti delle giornate di studio, ed. Ferrara,
Cartografica Artigiana, 2008; R. ZAGNONI e G. P. BORGHI (a cura di), Pan
di legno e vin di nuvoli. L’alimentazione della montagna to-sco-bolognese,
Gruppo Studi Alta Valle del Reno, Società Pistoiese di Storia Patria, atti delle
giornate di studio, Pioppe di Salvaro, Agv Stu-dio, 2010.
15) S. BENELLI, L’Amorosa trage-dia, ed. 1925, cit., p. 64.
Il
presente saggio è già comparso, naturalmente sempre a firma di Elisabetta Landi,
su «Nueter», 73, 2011, pp. 132-141.
L’UNIVERSO
LUNIGIANESE
DI
SEM BENELLI
Amorosa tragedia di Sem Benelli è un altro capolavoro con forti
attinenze dantesche e lunigianesi, come Valperga
di Mary Shelley, secondo le preziose analisi por-tate da Carla Sanguineti di
cui ad una nostra Cena Filosofica. E sono davvero impressionanti que-ste
corrispondenze, perché sia Mary che Sem vissero un intenso periodo nel Golfo di
Lerici, quel “Golfo dei Poeti” che poi, per estensione, è passato ad indicare
l’intero Golfo della Spezia.
Fu
proprio Sem Benelli a coniare quel nome, lui che occupò per anni la torretta di
Villa Marigola, splendida dimora tra San Terenzo e Lerici, oggi proprietà della
Fon-dazione Cassa di Risparmio della Spezia, da dove poté godere di una visione
assolutamente privi-legiata su quel lembo di costa e di mare che vide Shelley,
Mary e Lord Byron soggiornare con in testa le loro enormità.
Benelli
concepì lo stilema in oc-casione dell'orazione funebre che fu chiamato a tenere
in onore del grande igienista Paolo Mantegaz-za, anch’egli stabilitosi su
questi lidi; poi lo ripropose già nel titolo di un suo prezioso poemetto del
1919: "Notte sul Golfo dei Poeti".
Pensare
che il Mantegazza si era molto risentito perché avrebbe voluto redigere lui
l'epigrafe a Mary e Percy Shelley che si trova a tuttoggi affissa sulla
facciata di Villa Shelley, a San Terenzo di Lerici (fu quella la splendida di-mora
dove alloggiarono i due a-manti), ma tutte le epigrafi se le aggiudicava
Ceccardo Roccata-gliata Ceccardi, il Vate apuano, poeta sanguigno e focoso, massi-mo
animatore delle celebrazioni dantesche del 1906 a Mulazzo.
Ceccardo
aveva creato il circolo di Apua, un conciliabolo di in-tellettuali cui avevano
aderito no-tevoli personalità come Enrico Pea, Alceste De Ambris (luni-gianese
di Liciana, estensore del-la Carta del Carnaro promulgata dal D'Annunzio) e
pure Giuseppe Ungaretti.
Ma
tornando a Sem Benelli, quando alla Spezia, al teatro Ci-vico, venne
rappresentata la "Ce-na delle beffe",
Ubaldo Mazzini - genio della spezzinità e annove-rato dal CLSD tra i grandi
Luni-gianesi Studiosi di Dante - venne incontrato da amici per le vie del
centro, i quali gli fecero presente che stava andando in scena quello
spettacolo e lo invitarono a se-guirli. Mazzini rispose caustico in dialetto
rigoroso: "Me ho già ce-nà...".
Amorosa tragedia è un dramma ambientato nela Pistoia di Cino,
uno dei massimi amici di Dante e artefice della venuta in Lunigiana di Lui. Non
a caso il Sommo scambiò con Cino e con Moroello Malaspina, il grande ospite
luni-gianese, una serie di composi-zioni che stanno a pieno titolo nel corpus
delle Rime.
Il
giovane Boccaccio, figlio di Ser Boccaccino, un altro amico di Dante, fu
mandato a studiare a Napoli proprio perché vi insegna-va Cino. Così il
Boccaccio, che crebbe nel culto di Dante con due dei suoi massimi testimoni, ci
ha lasciato testimonianze di fonda-mentale importanza sull’Orma di Dante in
Lunigiana.
Come si vede, c’è un filo invi-sibile, un magico trait d’union, che lega indissolubilmente a Dan-te e alla Lunigiana, direttamente o indirettamente, tutti i grandi let-terati che si sono trovati a sog-giornare all’ombra delle Apuane.
Sono le trame tessute dalle Norne cantate da Richard Wagner, an-ch’egli ospite alla Spezia: un solo giorno gli valse il Preludio in mi bemolle maggiore de L’oro del Reno, l’incipit della sua colossale Tetralogia dell’Anello del Nibe-lungo. Lo cercava, quell’attacco, da anni, ormai con disperazione, e lo trovò solo qui, nella magia della Terra della Luna, dove si fermò per caso, dopo una sofferta traversata in battello proveniente da Genova.
Oscuramente forte è l’anima di Luni. E sono porprio i sensi di quest’anima eccelsa che anche l’anima bella di Sem Benelli ci dimostra di essere riuscito ad av-vertire molto distintamente.
M. M.
NEL SEGNO DI MARGHERITA HACK SAPERE, SCIENZA, TECNICA E TECNOLOGIA: UN INTRECCIO INDISSOLUBILE?
LD
è onorata di ospitare, portan-dola all’attenzione del proprio pubblico di
lettori (tra cui moltis-simi docenti) una proposta didat-tica molto
interessante.
Premessa
Ritengo opportuno, in qualità si presidente dell’Unione Cattolica Insegnanti Medi della sezione di Mirandola e della Regione Emi-lia[1]Romagna, che nel 2022 si ri-cordi la nascita della scienziata italiana Margherita Hack.
Prendendo a prestito idee già no-te, ricordo che l'Unione Europea, attraverso la strategia di Lisbona, nel 2000 ha sostenuto la forte va-lenza del sapere e le sue indi-spensabili implicanze. Pure Jac-ques Delors ha spiegato chiara-mente, già agli inizi degli anni '90, - che la Scuola ha un compito gravoso, ma veramente fondam-entale nel promuovere il “Sape-re”; il quale Sapere, come ben noto a tutti noi, ha sempre il forte potere di sviluppare conoscenze in molti ambiti, per l’educazione e la formazione sia per il bene personale che sociale, e quindi per il bene di tutta l'umanità. Pertanto, carissime e carissimi Docenti cerchiamo di avvicinare tutti i ragazzi alla cultura umani-stica, scientifica e tecnologica con maestria e saggezza, affinché si appassionino con impegno allo studio, alla ricerca, alle attività laboratoriali, alle scienze ed all'u-so delle tecnologie utili soprattut-to in campo lavorativo.
Il progetto qui in proposta può ri-guardare ogmi materia o gruppi di materie e sarebbe bene svi-lupparlo in qualsiasi classe o gruppo di classi durante l'anno scolastico 2021/2022 con le mo-dalità più varie e più proficue ed efficaci.
Considerazioni e Interrogativi
Penso che si possa partire da quanto Margherita Hack ha umil-mente risposto a coloro che l'han-no sempre portata in trionfo, spesso per intenti secondari, co-me Voce della scienza italiana:
«Ne sono onorata, ma, come scienziata non ho scoperto nulla».
Ricordo anche che è diventata nota al grande pubblico per le sue idee in campo politico e religioso. Margherita ha sempre dichiarato di essere atea, però prima di mo-rire (Trieste, 29 giugno 2013 ) disse due cose:
1 - La figura di Gesù è essenziale anche per me.
2 - Gesù è stato certamente la maggior personalità della Storia. Il suo insegnamento, se è resistito per 2000 anni, significa che ave-va davvero qualcosa di eccezio-nale: ha infatti trasmesso valori che sono essenziali anche per un non credente. - La Scienza non riesce a dare una risposta totale. Quindi il mistero c'è certamente, inoltre se dovessi scoprire che c'è la vita eterna, direi a Dio che ho sbagliato. E forse tutto sommato, sarebbe bello essersi sbagliati.
3 - L'universo, perché esiste, io non lo so.
Vorrei ricordare che la “Signora delle Stelle” era una persona ec-cezionale per la sua altissima sta-tura intellettuale e morale, per coerenza, impegno e concentra-zione nello studio; ha sempre ap-prezzato con meraviglia e stupore le bellezze del cosmo; inoltre, è stata un esempio di vita per tutte quelle donne che intendono rea-lizzarsi, usando il cervello e non il corpo. Ella appartenne all'Ac-cademia Nazionale dei Lincei e collaborò con l'Ente Spaziale Europeo e la NASA statunitense. Per quasi 25 anni diresse l'Osser-vatorio Astronomico di Trieste dove aveva anche insegnato A-stronomia. Sicuramente, prima di intraprendere il “progetto”, credo che sia doveroso affrontare il pro-blema linguistico della definizio-ne dei termini per poter svilup-pare le argomentazioni ad ognuno più congrue, poiché il rapporto tra di esse è complesso, specie in questo periodo di Covid 19 e di DAD quando le relazioni fra do-cente e studente o fra gli studenti stessi sono state spesso impos-sibili. Tutti si augurano che la si-tuazione dell’insegnamento que-st'anno possa cambiare veramente in meglio. Mi permetto di espri-mere alcune idee che possono essere opportunamente sviluppate e approfondite:
· La cultura è umanistica, scienti-fica e tecnologica?
· I giovani ripongono molte a-spettative nella ricerca tecnico-scientifica?
· Su quali argomenti si articola il rapporto tra scienza, tecnologia e società?
· Gli adolescenti possono espri-mere i loro dubbi rispetto agli ef-fetti individuali e sociali dello sviluppo tecnologico?
· I ragazzi esaltano solo i benefici delle scienze tecnologiche o sot-tolineano anche i “possibili effetti negativi”?
· Quali considerazioni e rifles-sioni etiche sul ruolo della scien-za nella società?
· Gli scienziati e la ricerca sono un utile strumento per capire co-me i ragazzi vivono il complesso rapporto fra conoscenza scienti-fica e qualità della vita?
· La cultura, la scienza e la tecno-logia possono cambiare e miglio-rare l'economia?
· La scienza in generale è neces-saria per far funzionare la demo-crazia?
· La scienza e la tecnologia raf-forzano i valori della vita?
· La cultura, la scienza e la tecno-logia hanno implicanze etiche?
Gli interrogativi possono essere infiniti, quindi massima libertà nell'operare. Ritengo comunque opportuno che il Docente stenda una sintesi dei risultati conseguiti, che possano essere di aiuto per effettuare altre e ulteriori rifles-sioni culturali e formative (con-templata aliis tradere), facendo emergere che Ragione e Fede non discordano fra loro, ma hanno un campo distinto, autonomo: infatti la ragione controlla le verità na-turali, la fede ha come suo og-getto quelle soprannaturali come sostiene San Tommaso.
In attesa di ricevere tanti lavori, assieme al consulente ecclesia-stico don Paolo Marabini e al Consiglio Regionale, vi porgo cordialissimi saluti.
Mirandola, 14 settembre 2021
NORBERTO MAZZOLI
[presidente regionale Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi
dell’Emilia-Romagna
norbertomazzoli@gmail.com]
VIII
TEOLOGICA
A cura di
MARIA ADELAIDE
PETRILLO
«In principio era il Verbo, e
il
Verbo era presso
Dio, e il
Verbo era Dio»
(Giovanni, I 1)
SANTA
FRANCESCA
ROMANA
Monastero delle Oblate:
scultura nel chiostro
Francesca Bussa de’ Leoni nac-que a Roma nel 1384 da Paolo e
Isabella Roffredeschi. La fami-glia era nobile e benestante. Le fu impartita
un’educazione accurata ed una buona istruzione per una ragazzina del suo tempo.
Ben vo-lentieri accompagnava la madre nelle visite alle chiese del suo rione,
spesso entrambe raggiun-gevano la chiesa di Santa Maria Nova sull’antica Via
Sacra, retta dai Benedettini di Monte Oliveto e lì Francesca trovò il suo primo
direttore spirituale, padre Anto-nello di Monte Savello, il quale ben presto si
accorse delle incli-nazioni di lei.
Ascoltando le pre-diche e le meditazioni, la ragazza si dedicò con
fervore alla pre-ghiera, coltivando in cuore il de-siderio di scegliere la vita
mona-stica. Suo padre però si oppone-va, l’aveva destinata al matrimo-nio.
Così, quando aveva appena 12 anni, fu data in sposa al nobile Lorenzo Ponziani.
Per il dispia-cere si ammalò di
anoressia e sprofondò in una depressione. Francesca raccontò che le era ap-parso
in sogno sant’Alessio, che le diceva: «Tu devi vivere, il Si-gnore vuole che tu
viva per glori-ficare il suo nome».
Si confidò con la cognata Van-nozza, e con lei si recò alla chie-sa del santo per
ringraziarlo. Si sentì guarita e insieme a Vannoz-za dedicò il tempo libero dagli
impegni familiari ad aiutare i po-veri, gli ammalati, i sofferenti.
Riacquistata la salute e la sereni-tà, nella
nuova famiglia seppe guadagnarsi l’affetto e la stima di tutti: fu una
buona moglie, una buona madre, una buona padrona di casa. Dal matrimonio
nacquero tre figli: Giovanni Battista, Gio-vanni Evangelista e Agnese.
Roma viveva un periodo di gran-di difficoltà, lo scisma
d’occiden-te aveva minato l’unità della Chiesa, la città aveva subito un
saccheggio da parte dei soldati del re di Napoli Ladislao di Du-razzo.
Francesca vedeva la soffer-enza del popolo romano. Il suoce-ro le aveva
affidato le chiavi delle dispense dopo che era morta la moglie, Francesca vuotò
in poco tempo i granai e le cantine, per sfamare i bisognosi, così il suo-cero
si riprese le chiavi, ma si racconta che avvenne un fatto straordinario: i
granai e le botti del vino si riempirono di nuovo misteriosamente e il suocero
pro-fondamente colpito, restituì alla nuora le chiavi…
Baciccio Santa francesca romana 1675
Francesca volle vivere la condi-zione dei poveri,
vendette i capi del ricco corredo e indossati abiti di sacco e venduti i suoi gioielli, coltivava un campo
ricavandone frutta e verdura, con un asinello girava per le vie di Roma por-tando
aiuto materiale e parole di conforto. La sua fama correva nella città e veniva
considerata dai romani “una persona di fami-glia”. Le fu dato il soprannome di
“poverella di Trastevere” e fu chiamata affettuosamente “Cec-colella”.
Alla morte del suocero Francesca si prese cura dell’Ospedale
del SS. Salvatore, che egli aveva fondato, continuando a visitare le case dei
poveri senza vergognarsi di chiedere l’elemosina. Si atti-rava così le critiche
e il disprezzo della nobiltà romana.
Francesca intanto doveva inte-riormente combattere (lo riferisce il suo confessore, don Giovanni Mariotto, parroco di Santa Maria in Trastevere) col demonio, ma aveva anche visioni mistiche del-l’Inferno e del Purgatorio; aveva momenti di estasi e le venivano attribuiti prodigi e guarigioni. In città era nota per i suoi poteri taumaturgici, curava vari tipi di malattie usando decotti, erbe, un-guenti che lei stessa preparava at-tingendo dalla tradizione.
Francesca aveva anche una
inten-sa attività ginecologica e oste-trica: seguiva le donne nelle gra-vidanze
difficili e aiutava le par-torienti.
Nel 1409 il marito Lorenzo, co-mandante delle truppe
pontificie, venne ferito in modo grave. Ri-mase semiparalizzato e fu curato ed
assistito dalla moglie e dal fi-glio Battista.
Nel 1410, durante il sacco di Roma i beni della fami-glia Ponziani furono
espropriati. Lorenzo fu costretto a fuggire, per sottrarsi alla vendetta di re
Ladislao che aveva invaso la città, e preso in ostaggio Battista. Si racconta che Francesca, per obbedire al comando del con-fessore, condusse
il bambino in Campidoglio presso il luogote-nente del re di Napoli, (aveva prima affidato il figlio alla Madonna
di Aracoeli) e lo con-segnò al nemico.
Quando i soldati tentarono di portar via su un ca-vallo il piccolo Battista,
l’animale si rifiutò di farsi montare. Stupiti e superstiziosi, i soldati
liberaro-no il bambino e lo restituirono alla madre.
In quegli anni
vi fu una tremenda epidemia di peste. La santa decise così di accogliere nel
suo palazzo gli ammalati ed espose al conta-gio la famiglia: lei riuscì a sal-varsi, ma morì il
figlioletto Evan-gelista di circa nove anni. Da al-lora Francesca vide accanto
a sé un bambino con i capelli ricci e la tunica bianca che la accompagnò per
tutta la vita e col quale dialo-gava. Nelle immagini viene sem-pre ritratta
assieme al suo picco-lo angelo. Questo angelo custode le stava
sempre vicino e la guida-va dovunque, ma scompariva quando Francesca trascurava le faccende
quotidiane per leggere e pregare. Questo aiutò la santa ad equilibrare gli
impegni di vita fa-miliare, sociale e religiosa.
Un gruppo di amiche la
seguiva nelle opere di carità, la aiutava, la accompagnava nel cammino
spi-rituale ritrovandosi con lei setti-manalmente nella chiesa di Santa Maria
Nova. In uno di quegli in-contri
Francesca le invitò ad asso-ciarsi in una confraternita consa-crata alla
Madonna. Il 15 agosto 1425, festa dell’Assunta, davanti all’altare della
Vergine, le undici donne si offrirono al Signore. Qualche tempo dopo Francesca poté riunirle in una casetta che
aveva acquistato a Tor de’ Spec-chi vicino alla chiesa parrocchiale di
Sant’Andrea dei Funari. Nel 1433 papa Eugenio IV riconobbe le Oblate
Benedettine di Maria. Francesca si recava ogni giorno nel monastero da lei
fondato, ma continuò ad accudire il marito malato il quale aveva accettato di
vivere con lei la castità nel matrimonio. Lorenzo morì dopo quarant’anni di
vita coniugale, la loro unione era stata sempre in accordo e serena, egli la
aveva amata e rispettata in tutte le sue scelte. Rimasta vedova si unì alle
compagne a Tor de’ Specchi, do-ve fu eletta superiora. Trascorse gli ultimi
quattro anni della sua vita nel convento, formando le sue figlie spirituali e
sostenendole con l’esempio e l’incoraggiamen-to nelle opere di misericordia
alle quali erano state chiamate.
Quando il 9 marzo 1440 morì, per tre giorni la gente si mise
in fila per dare l’ultimo saluto a lei che veniva già indicata come la “San-ta
di Roma”. Il senato nel 1494
stabilì che il giorno della sua morte venisse considerato giorno festivo e la
indicò con l’appella-tivo di “Advocata
Urbis”, inoltre da allora in poi, sarebbe stata de-nominata non col cognome
da ve-dova, ma “Romana”. Oltre a es-sere
patrona dell’Urbe con i santi apostoli Pietro e Paolo, venne an-che invocata
come protettrice dal-le pestilenze e per la liberazione delle anime dal
Purgatorio. Nel
1950 papa Pio XII la dichiarò pa-trona
degli automobilisti, perché ella riferiva che il suo Angelo Custode
l’accompagnava sempre durante i suoi spostamenti, facen-dole luce per la strada
e permet-tendole di vedere anche di notte.
Santa Francesca Romana fu spo-sa, madre, vedova, fondatrice e
religiosa, fu una mistica che amò vivere nel silenzio e nella pre-ghiera. Ma il
tempo in cui viveva la coinvolse tanto da non poter rinunciare ad intervenire
sugli scottanti problemi della Chiesa: come già avevano fatto Santa Brigida di
Svezia e santa Caterina da Siena, profetesse di Avignone, scrisse messaggi
all’allora Papa Eugenio IV perché ritrovasse la comunione con i suoi vescovi. Ella
temeva un nuovo scisma con altre inevitabili
ferite e fratture. Ebbe sempre un amore appassio-nato per la Chiesa e per
la sua città. Gli studiosi affermano che fu la profetessa del Concilio di
Basilea e che può essere consi-derata una
delle maggiori voci spirituali della fine del Medioevo.
Roma
chiesa di Santa Francesca Romana
Papa Benedetto afferma: «Anche
ai nostri giorni, Roma ha bisogno di donne tutte di Dio e tutte del prossimo;
donne capaci di racco-glimento e di servizio generoso e discreto; donne che
sanno obbe-dire ai Pastori, ma anche soste-nerli e stimolarli con i loro sug-gerimenti,
maturati nel colloquio con Cristo e nell’esperienza di-retta sul campo della
carità, del-l’assistenza ai malati, agli emar-ginati, ai minori in difficoltà…»
La Chiesa
cattolica ne fa memo-ria il 9 Marzo, la invoca anche per la
liberazione delle anime del Purgatorio.
IX
LA POESIA DEL MESE
A cura di
STEFANO BOTTARELLI
«E
l’amore guardò il tempo e rise, perché
sapeva di non averne bisogno»
(A. M. Rugolo)
ANTONIO BELTRAMELLI
PAESAGGIO
E c'era al fondo d'un
lungo sentiero/
una chiesuola piccina piccina;/
guardava nell'ombra il suo cimitero/
tra la mortella e l'erba cedrina./
Aveva pure la sua campanella/
che non cantava né all' alba né a sera./
Brucavan le capre sui prati; ed i buoi/
aravan la terra lontana; ed allora/
dai cieli remoti scendeva una voce/
pei morti distesi a un'ombra o a una croce:/
Dormite, fratelli, la pace è con voi./
ANTONIO BELTRAMELLI
Lo scrittore Antonio Beltramelli nacque a Forlì nell’inverno del 1879, da Francesco e da Zenobia Zampa. Diplomato in ragioneria nel ‘95 a Forlì, studiò all'Istituto di scienze sociali di Firenze, conseguendovi diploma in Scien-ze sociali nella primavera del 1899. Cominciò la sua attività pubblicistica collaborando a pe-riodici romagnoli come “Il Pre-sente”, fra il 1895 e il 1905, “Cri-tica cittadina”, fra il 1904 e il 1909, “La Difesa”, fra il 1909 e il 1912, e a periodici letterari regio-nali, quali “La Romagna” (1910), “Il Plaustro”, fra il 1911 e il 1914, “La Piè”, della quale fu al-l'inizio condirettore (1920-1924). I suoi esordi come narratore com-prendono un ciclo di tre volumi di novelle, L'antica madre (Rocca San Casciano, 1902), Anna Pe-renna (Milano, 1904) e I Primo-geniti (ibid., 1905).
Anna Perenna rimane una delle sue opere giovanili più significa-tive. La scelta del tema, cioè la Romagna, descritta con passione epico-lirica, poteva sembrare pu-ramente regionalistica e tale da collocarsi sul piano di ritardate esperienze verghiane e dannun-ziane; sennonché proprio queste due suggestioni, dannunziane-simo e regionalismo, aspetti ab-bastanza tipici e caratterizzanti di quegl’anni, venivano integrate con il gusto realistico di una te-matica campestre e plebea, che andava oltre gli stessi presupposti folcloristici, per diventare piutto-sto liricamente soggettiva e mito-logica. Così, dietro la guida di u-na antica ninfa o dea latina, Anna Perenna, nella raccolta omonima di novelle, lo scrittore conduce l'esplorazione di una Romagna riarsa dal sole, come perduta in certo stupore panico e naturali-stico, arrivando a scoprire costu-manze primitive e grandiose: la sacra festa dell'agosto e l'incontro gioioso e taumaturgico con l'A-driatico (nella rustica avventura de Le figlie di Judèc); il rito vindice che ancora vige nei paesi vegliati dalle montagne e vuole spenti i traditori e le spie (e vede consumarsi la tragedia di Biarù in La spia); con figure di pastori e pescatori che nella loro selvatica rudezza assumono volto e propor-zioni da semidei (nel gioco di una dionisiaca e magica trasfigurazio-ne che investe Il dio degli uomini rudi, Il Fauno, Il vecchio della landa, Il campo delle biscie); con vampate di passione, irruenze ele-mentari e tremende che animano i personaggi, dalla vendetta di Ardì pescatore in La nave rossa, alla foga d'amore dei tre fratelli per la bellissima Anzula nei Ciechi; dal-la breve e mortale dolcezza di Arabella in La cerbiatta a quella sensibilità così scoperta e acuta che uccide Azurèn, il piccolo can-tore di La tribù. Ancora ambienti e gente di Romagna entrano nel primo romanzo suo, Gli uomini rossi (Milano, 1904), contempo-raneo di Anna Perenna. Però an-che qui si tratta di un regiona-lismo particolare. Quanto di acce-so, di turgido, di folcloristico (mercati, fiere e banchetti roma-gnoli come cronaca dominante), quanto di mitico può ancora gi-rare intorno alla facile trama di due giovani, l'uno clericale, Man-so Liturgico, e l'altra, Europa, figlia del sindaco repubblicano, il matrimonio dei quali viene con-trastato dalle opposte fazioni, ri-sulta riscattato dalla vena briosa, dall’ironica e pure cordiale sim-patia con cui sono visti i repub-blicani in terra di Romagna, gli “uomini rossi” appunto.
Del 1905, edita a Bergamo, è l'inchiesta Da Comacchio ad Artegna. Le lagune e le bocche del Po, che centra il problema della pesca di contrabbando e mette a fuoco il contrasto di due categorie, quella delle guardie vallive e quella dei fiocinini. Su dati di ambientazione simili si costruisce il romanzo Il Cantico (Milano, 1906), specie nella pri-ma parte, che tratteggia la vi-cenda di Duccio della Bella, il quale abbandona il misero impie-go di avvilito travet, per il me-stiere rischioso e libero del fiocinino, pescatore di frodo nelle valli di Comacchio. In questa pri-ma parte del Cantico, così diversa dalla seconda, sullo sfondo di una Roma corrotta, biblicamente ma-ledetta, che ricalca il peggiore estetismo dannunziano, il paesag-gio nebbioso della laguna, tra le ombre sinistre delle casone e i canali, al tempo delle prime bur-rasche novembrine, risulta per molte pagine tradotto direttamen-te e giornalisticamente dal vero. Le prime prove di Beltramelli giornalista e narratore, se regi-strarono un buon successo di pub-blico, lasciarono in gran parte dif-fidente o almeno perplessa la cri-tica. Tanto che, ancora nel 1908, dopo l'avvenuta pubblicazione di Anna Perenna, di Gli uomini ros-si e del Cantico, Renato Serra in un saggio famoso gli poteva rim-proverare l'esuberanza descrittiva e lo pseudorealismo, compromes-so per di più da uno stile volon-taristico e inadeguato. Il fervore avventuroso che lo spingeva, in qualità di giornalista e di inviato speciale, a lunghi viaggi europei ed extraeuropei (come redattore viaggiante del “Corriere della se-ra” pubblicò dal 1907 al 1910 corrispondenze dalla Norvegia, dalla Grecia, dal Nord Africa, che costituiscono il materiale di al-cuni suoi libri, da L'ombra del mandorlo a Fior d'uliva), la mol-teplicità sempre entusiastica delle esperienze che lo faceva rivolgere contemporaneamente alla poesia (con i Canti di Faunus, Firenze, 1908, e Solicchio, Milano, 1913) e al teatro (con Le vie del Si-gnore, ibid., 1926) contribuirono a farne un convinto interventista alla vigilia della Guerra mondiale e quindi, scoppiato il conflitto, ufficiale e valoroso combattente. Finita la guerra del 1915-1918, l’autore, che aveva già parteci-pato a quella libica come corri-spondente e che condivideva le aspirazioni nazionalistiche, aderì al fascismo, prima ancora che ne avvenisse la fusione col partito nazionalista in considerazione di quelle tendenze repubblicane, anarchiche e democraticheggianti che credeva di scorgere nelle sue prime manifestazioni. Neppure in seguito, del resto, l'impegno na-zionalistico, offeso per la cosid-detta vittoria mutilata, avrebbe in-dotto lo scrittore a un cambia-mento di rotta, a una presa di po-sizione critica nei riguardi del falso ed equivoco programma nazional-popolare del fascismo. Nella sua partecipazione alle po-lemiche del dopoguerra, Beltra-melli, che rifiutava la politica dei “castrati montoni”, da Depretis a Giolitti, si sentiva, nel suo culto per la patria grande, di fronte al dilagare del carnevale democra-tico, quale continuatore di Oriani. Oggi verrebbe in mente il motto trumpiano «America first». Sen-nonché, mentre Oriani, nel suo fondo più genuino, era davvero legato alla tradizione della sini-stra democratica mazziniana, la passione fascista di Beltramelli trovava un avallo e una investi-tura predominante nella solidarie-tà, nella complicità romagnola e campanilistica con Mussolini.
Due opere in questo senso restano significative e pertinenti: una è il romanzo Il Cavalier Mostardo (Milano, 1922), come prosecuzio-ne del giovanile Gli uomini rossi, e l’altro è il volume liricamente biografico su Mussolini, dal tito-lo L'uomo nuovo (ibid., 1923).
Quanto al Cavalier Mostardo, co-me personaggio, come repubbli-cano puro sangue, solido e irruen-te, era già vivo nel precedente Uomini rossi. Lì, anzi, era riusci-to a stipulare un regolare contrat-to di nozze tra i due adolescenti, Manso ed Europa, contribuendo al felice trionfo de La Ripoblica. Nel nuovo romanzo, gli avversari dell'uomo rosso Cavalier Mostar-do non sono i clericali, ma i gial-li, i socialisti delle prime leghe operaie, che attenterebbero, nelle campagne, ad uno dei migliori i-stituti d'Italia, la mezzadria, av-vantaggiati da una parte dal neu-tralismo di Giolitti e del governo e dall'altra dalla connivenza del liberale Luigi Luzzatti ((uno dei pochi presidenti del Consiglio e-brei insieme ad Alessandro For-tis e Sidney Sonnino). E se non fosse la facile requisitoria di certi pseudo giudizi su Turati e Treves, su Marx e Stirner, su plusvalore, mezzadria e fatti economici, con l'aggravante di una maniera im-pulsiva e definitoria, mutuata dal malcostume dei fogli nazionalisti e fascisti, avremmo una cronaca romagnola, densa e vivace, a-vremmo la lotta di classe trasferi-ta nel novero degli interessi e delle vendette paesane.
Per Il Cavalier Mostardo e L'uo-mo nuovo non mancò a Beltra-melli il riconoscimento e il plauso di Mussolini. Militante nei ranghi del partito fascista, console della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, firmatario nel ‘25 del manifesto degli intellettuali fa-scisti promosso da Giovanni Gen-tile, lo scrittore divenne uno dei maggiori e più qualificati rappre-sentanti della cultura protetta dal regime. Anche se una sincera passione per l'arte gli salvarono certa dignità e indipendenza lette-raria, unitamente a un senso pes-simistico della vita, sofferto e ir-riducibile.
Romagnolo fu il suo tempera-mento, e romagnola la sua perso-nalità. Tipicamente romagnola anche la sua prediletta dimora: la celebre Sisa, una vasta costru-zione a mezza strada tra Forlì e Ravenna, in frazione Coccolìa, che poteva sembrare una specie di Capponcina dannunziana, per certi abbellimenti, certe rifiniture e arredi bizzarri, in stile tra ro-magnolo e nipponico, ma rima-neva in realtà una robusta e vec-chia casona della piana, schietta-mente romagnola, con gli epi-grammi, i distici, i motti dipinti dal faentino Luigi Emiliani. Tra il ‘22 e il ‘25 i suoi soggiorni alla Sisa si fecero più frequenti. Qui nei suoi possedimenti romagnoli, egli viveva mesi di solitudine, con un sincero compiacimento per il suo ruolo di gentiluomo-agricoltore; e nel 1925 vi portò Yoshiko-San, una giapponese che sposò. Il quinquennio che precede la sua morte è periodo di intensa attività. Direttore de “La rivolta ideale” (1925-1926), organo uffi-ciale della Gioventù universitaria, fondatore e condirettore de “Il raduno” (1927-1928), settimanale dei sindacati fascisti degli autori e scrittori, redattore ordinario per le lettere del “Popolo d'Italia”, scris-se tra l'altro due nuovi romanzi diversamente importanti, e che valgono a definirne ulteriormente la fisionomia: Fior d'uliva (Mila-no, 1926) e Gli Antuni. Il passo dell'Ignota (Milano, 1927). Nel primo, come del resto nel prece-dente L'ombra del mandorlo (i-bid., 1923), fa le sue prove estre-me un Beltramelli di maniera, di-stratto dietro situazioni preziosa-mente estenuate, amori viziati da uno pseudo-estetismo languido e corrotto; il tutto complicato da un insopportabile commentare e ri-commentare episodi, gesti e fi-gure, nella pretesa di sublimarli come fatti eccezionalmente riser-vati ed eletti. Diverso e senz'altro migliore è Il passo dell'Ignota. Ancora un romanzo a sfondo politico, che riprende la polemica contro il socialismo dilagante nelle campagne. Qui la cronaca diventa più viva, i personaggi e gli ambienti sono meglio delinea-ti. Certo, i socialisti delle leghe sono sempre presentati dalla parte dei cattivi, ma le loro gesta preci-pitano nella narrazione diretta di alcuni forti e realistici episodi. V’è qui il miglior Beltramelli, che tratteggia figure vigorose e patriarcali di uomini romagnoli, che sa abbandonarsi alla figura-zione gentile di ragazze e di bim-bi. Lo scrittore, in una nostalgia di un sogno perenne, riesce a pla-carsi, a redimersi attraverso lim-pida castità espressiva. Questo si può dire anche per tutto un grup-po di libri nati dai suoi interessi per la letteratura infantile - da ri-cordare anche in questo senso, la fondazione e direzione del “Ro-manzo dei piccoli” (1913-’15) e del “Giro giro tondo” (1921-‘24); libri delicatissimi e schietti dedi-cati ai fanciulli, da L'albero delle fiabe (Firenze, 1910), al Piccolo Pomi (ibid., 1915), da Le gaie fa-randole (ibid., 1921) a La Signo-rina Zesi (ibid., 1921).
Nominato accademico d'Italia per la sezione lettere nel marzo del 1929, mancò a Roma nello stesso mese dell'anno successivo.
AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
VICENZO CARDARELLI
SOLDATI
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
GIUSEPPE UNGARETTI
NOVEMBRE
Forse è perchè tu sei il mese dei morti/
e crisantemi incolpevoli tingono/
d'una atmosfera assorta le gior-nate/
tue piovviginose e oscure, oppu-re/
per questo stesso grigiore, nel fondersi/
leggero ai colori e profumi umidi/
dei boschi già ignudi e addor-mentati,/
che d'incanto risvegli la mia men-te./
Malinconia dei tuoi giorni stra-ni:/
quietano le ore al lento passeg-giare/
tra le caduche foglie, ed io ricer-co/
qui le ragioni pure del domani.
(M. M., Lunigiana, 1982)
X
VISIBILE PARLARE
A cura di
DAVIDE PUGNANA
Colui
che mai non vide cosa nuova/
produce
esto visibile parlare…
(Pur
X 95)
COME PARLARE DI PITTURA?
IL ‘TIZIANISMO VERBALE’
DI PIETRO ARETINO
«Lo
Aretino non ritragge le cose men bene in parole che Tiziano in colori; e ho
veduto de’ suoi so-netti fatti da lui d’alcuni ritratti di Tiziano, e non è
facile il giu-dicare se li sonetti son nati dalli ritratti o li ritratti da
loro; certo ambidue insieme, cioè il sonetto e il ritratto, sono cosa perfetta:
questo dà voce al ritratto, quello all’incontro di carne e d’ossa ve-ste il
sonetto. E credo che l’esse-re dipinto da Tiziano e lodato dall’Aretino sia una
nuova rege-nerazione degli uomini, li quali non possono essere di così poco
valore da sé che ne’colori e ne’ versi di questi due non diven-ghino
gentilissime e carissime cose» (Amedeo Quondam, 1995).
Niente meglio del reciproco com-penetrarsi di pittura e parola
testimonia e restituisce, attraverso lo scorrere dei secoli e delle ge-nerazioni,
la prorompente vitalità del dialogo tra Tiziano Vecellio e Pietro Aretino.
Vicini e allo stes-so tempo lontani, intrecciati ep-pure destinati a non
incontrarsi mai se non nello scenario di un impossibile e nostalgico abbrac-cio,
questi due linguaggi si rin-corrono e si illuminano con la disperazione dei
grandi desideri. Scorre nelle quarantaquattro epi-stole dell'Aretino a Tiziano
una parola che insegue la prestezza di tocco del pittore.
Ogni frase tende al massimo il suo arco retorico, trasceglie aggettivi, verbi,
meta-fore, sgrana enumerazioni che al massimo grado visualizzino l'og-getto
d'amore assente; quel-la cosa ineffabile e, nella sua for-ma,
perfettamente compiuta che si vorrebbe afferrare e fermare in un medium che
non le appartiene e mai le apparterrà. Nonostante questa alterità costitutiva,
ogni invenzione linguistica dell'Areti-no al cospetto dell'opera di Ti-ziano
sembra spinta da una stre-nua sete di caccia: appropriarsi di quei rossi
carnosi che aprono fe-rite dolcissime e struggenti oltre una torre di castello
o si dilun-gano in brani di cielo dove nuvo-le a stracci aprono sulla testiera
dei blu e dei viola, mirabilmente tenuti sospesi contro i lucori della luce
morente del tardo pomerig-gio; dire fino in fondo quell'im-mobile rabbrividire
dell'aria at-torno alle fronde degli alberi o nei vuoti pausati dei corpi;
essere, o diventare, verbalmente quel giallo che serpentinato increspa
l'orizzonte dietro Tobiolo e l'an-gelo e, al contempo, trovare il nodo di
sostantivi per quel battere di panneggi in bianco e in rosso. Ecco il lievito
che nutre le lettere pittoriche dell'Aretino. Per questo
scrittore di potente capacità vi-siva le 'vedute' tizianesche, così ariose e
struggenti e grondanti co-lore, che nella loro calda opulen-za tattile sembrano
fare del cielo, delle nuvole e dell'acqua di Vene-zia presenze di carne,
diventa-vano non tanto il terreno per una esercitazione retorica nel solco
dell'ekphrasis - di cui pure fu maestro - quanto un viaggio di ri-cognizione
nelle possibilità estre-me del mimetismo linguistico rispetto all'altro
'testo', quello vi-sivo, perennemente ammirato dalla riva del verbo perché con-chiuso
e sdegnoso nella sua e-spressione risolta.
A testimoniare l'intensità di que-sto rapporto non c'è solo la
corsa febbrile della parola verso la pit-tura. Tutt'oggi possiamo fare e-sperienza
del contrario varcando la soglia della Sala di Apol-lo nella
galleria palatina a Fi-renze. Era questa l'anticamera del palazzo, ornata dagli
affreschi di Pietro da Cortona, nella quale la nobiltà ordinaria ferveva in
attesa di essere ricevuta dal granduca. Qui possiamo toccare con gli
occhi alcuni importanti ritratti di Tiziano: la Santa
Maria Madda-lena, il ritratto femminile detto “La Bella”, il
Concerto, la copia del ritratto a Papa Giulio II di Raffaello, e,
spostandoci ancora, il ritratto che egli fece dell'Areti-no, che d'acchito
colpisce per il guizzo torto e nervoso della posa e il timbro superbo della
veste. Cade in taglio, nonostante il tono sprezzante ma vedremo perché, la
descrizione che ne fece Francesco De Sanctis nella sua storia lette-raria:
«Vedi il suo ritratto, fatto da Ti-ziano. Figura di lupo che
cerca la preda. L’incisore gli formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la
testa del lupo, assai simile di struttura, sta sopra alla testa del-l’uomo […]
per il labbro inferio-re abbassato, grossissima la par-te posteriore del capo,
sede degli appetiti sessuali […] I suoi libri osceni sono il modello di un ge-nere
di letteratura, che sotto il nome “racconti galanti”, invase l’Europa. […]
Pietro morì di so-verchio ridere, come morì Mar-gutte, e come moriva l’Italia.»
Intuizione metaforica quella del "lupo che cerca la
preda" che meglio non potrebbe tradurre la levriera disposizione verbale
dell'Aretino di fronte alla tenuta pittorica di Tiziano. E proprio di questo
ritratto troviamo un equi-valente verbale nella lettera del-l'ottobre 1545 a
Cosimo I:
«eccovi lo stesso essempio de la medesima sembianza mia dal di
lui [Tiziano] proprio pennello impressa. Certo ella respira, bat-te i polsi, e
move lo spirito, nel modo ch’io mi faccio in la viva. E se piú fussero stati
gli scudi che glie ne ho conti, invero i drappi sarieno lucidi, morbidi, e
rigidi, come il da senno raso, il velluto, e il broccato.»
Come sarà per i ritratti del Ber-nini un secolo dopo (pensiamo
alla Costanza del Bargello), la pittura di Tiziano non è
solo la-vorio di pennello, non è solo for-ma e colore; con quelle terre co-lorate
messe sulla tela Tiziano riesce a fermare la presenza bio-logica del soggetto,
il formicolio vitale che innerva il suo corpo (il ritmo del respiro, il pulsare
dei polsi, l'agire del temperamento), il peso e il fruscio del corpo nel suo
spazio di esistenza. Il ritratto di Tiziano – afferma Aretino - si impone, per
sempre, più e meglio di un atto di nascita, come testi-monianza dell'esistenza
di un in-dividuo su questa terra. Aretino nutriva questa convinzione già nel
1540, allorché il 20 novembre scriveva al Marchese del Vasto:
«il pennello de l’uomo mirabile [Tiziano] va con sí nuovo modo
a trovare le parti che non si veg-gono ne la immagine che egli co-lorisce di
voi, che ella nel mo-strarsi in tutte le membra tonde come il vivo, vi fa piú
tosto essere Alfonso che parere il ferro».
Come
cinque anni dopo sarà per Aretino nel campo visivo di Ti-ziano, il Marchese del
Vasto, chiuso nello scintillio della sua armatura, è, ed è al
massimo della sua cifra biologica, «tondo come il vivo».
Aretino
era ben consapevole della spaccatura fatale tra la cosa di-pinta e la parola
che desidera no-minarla. Come ogni scrittore d'ar-te, sapeva bene che mai la
lette-ratura avrebbe potuto restituire ciò che si era incarnato in quella
specifica forma espressiva, nata, come spiegherà da di dentro Konrad Fiedler
secoli dopo, da un processo visivo e portata a com-pimento dal gesto della
mano. Nessun testo verbale, per quanto sorretto da perizia stilistica, sa-rebbe
stato capace di trasformare in parola la mistica del tocco di un pittore come
Tiziano. Nel suo struggimento melanconico di fronte ad un oggetto insieme pre-sente
e assente, la scrittura potrà solo elaborare strategie di avvi-cinamento più o
meno stringenti, impegnandosi semmai a colmare e assottigliare il divario tra
l'evi-denza dell'opera d'arte figurativa - perfettamente autonoma e quasi
incurante della tessitura verbale che l'avvolge - e l'evocatività della
parola. Un'impossibilità o, meglio, un'afasia nominativa che Paul Valery
racchiuderà nel mot-to: "Comment parler peinture?". Questa
domanda innesca in Pietro Aretino un confronto agonistico e, in qualche modo,
formativo con la pittura di Tiziano. La ca-pacità di scandaglio psicologico
dell'amico pittore, abile nel "ri-trarre le nature altrui", sarà un
modello per Aretino:
«E
per ciò io mi sforzo di ri-trarre le nature altrui con la vi-vacità con che il
mirabile Tiziano ritrae questo e quel volto; e per-ché i buoni pittori
apprezzano molto un bel groppo di figure ab-bozzate, lascio stampare le mie
cose cosí fatte, né mi curo punto di miniar parole; perché la fatica sta nel
disegno, e se beni colori son belli da per sé, non fanno che i cartocci loro
son sieno cartocci, e tutto è ciancia, eccetto il far presto e di suo.»
(Lettera
al Valdaura del dicembre 1537).
La
piena adesione dell’Aretino alla maniera di Tiziano è testimo-niata dalla
celebre lettera ch’egli spedì al pittore medesimo nel maggio 1544. Una lettera
che po-tremo definire una forma di tizia-nismo verbale per il modo in cui la
lingua del poeta cerca di appro-priarsi del mondo e del modo visivo del
pittore, come dimostra il cuore del testo:
«che
vedete, nel raccontarlo io, in prima i casamenti, che benché sien pietre vere,
parevano di materia artificiata; e dipoi scor-gete l’aria, ch’io compresi in al-cun
luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Conside-rate anco la
maraviglia ch’io eb-bi de i nuvoli composti d’umidità condensa. I quali in la
principal veduta mezzi si stavano vicini a i tetti degli edificii, e mezzi ne
la penultima. Peroché la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio
nero. Mi stupii certo del co-lor vario di cui essi si dimostra-vano. I piú
vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più lontani rosseggiavano
d’uno ar-dore di minio non cosí bene acce-so. O con che belle tratteggiature i
pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola da i palazzi con il
modo che la disco-sta il Vecellio nel far dei paesi. Appariva in certi lati un
verde azurro, e in alcuni altri un az-zurro verde veramente composto da le
bizzarrie de la natura mae-stra de i maestri. Ella con i chiari e con gli scuri
sfondava e rileva-va in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare,
che io, che so come il vostro pennello è spirito de i suoi spiriti, e tre e
quattro volte esclamai: ‘O Tizia-no, dove sete mo´?»
Può,
insomma, la parola della let-teratura equivalere con la pittura che desidera
nominare? La ripo-sta è no. Ma il punto nodale è un altro: che cosa genera, nello
scrit-tore d'arte, la nostalgia dell'og-getto inafferrabile? Che genere di
lotta viene ingaggiata? Uno degli esempi più significativi di questo corpo a
corpo tra pittura e parola è proprio questa epistola di Pietro Aretino al
“signor compare Tizia-no". Sotto il cielo di una sera ve-neziana prossima
alla notte, Pie-tro Aretino ha cenato in solitu-dine, contravvenendo alle sue
abitudini di uomo mondano. Da giorni ha la quartana, una febbre di origine
malarica che ritorna ogni quattro giorni. I cibi non gli lasciano in bocca
nessun gusto e il corpo di uomo prossimo ai cinquant’anni si muove a fatica. La
lettera registra in presa diretta, come una stenografia degli istan-ti, i gesti
e i pensieri di quella se-ra di amara e cupa solitudine. Pie-tro si alza da
tavola “sazio de la disperazione” e si trascina al da-vanzale della finestra,
abbando-nando sulla balaustra “il petto e quasi il resto di tutta la persona”.
Fuori, Venezia pulsa di luci e di vita; sul Ponte Rialto, nella riva dei
Camerlinghi, nella Pescaria, il popolo sciorina e si dà convegno per assistere
alla regata “di bar-caiuoli famosi”. Voci miste, “tur-be” salgono dalle calli
alla fine-stra dello scrittore, mentre in lontananza le barche sono pigre
navicelle volanti che s’incontrano in quell’ora del giorno quando il mare
abbraccia il cielo e nessun contorno li separa più. Come den-tro una veduta
veneziana di Federica Galli, le gondole sono spaurite virgole nere nello spec-chio
di silenzioso cristallo della laguna; e lasciano scie invisibili di solchi
sulla pelle del Canal Grande, mentre “forestieri” e “terrazzani” sembrano
fissati in una calma attesa da scacchiera. In Pietro, la morsa della quartana
diventa umor melanconico: “fatto noioso a se stesso”, sente la ter-ribilità del
pensiero che divaga senza approdi nel vuoto. Alza gli occhi verso il cielo,
come secoli dopo faranno Constable e Turner per studiare, in quelle loro tele
cariche di meteorologia visiona-ria, brani di nuvole e di tempeste. Un sussulto
lo scuote: «da che Iddio lo creò, [quel
cielo] non fu mai abbellito di così vaga pittura di ombre e di lumi».
L’occhio di Aretino si dilata: il cielo di Ve-nezia subisce una trasformazione
repentina. Al dato naturale delle nuvole, del vento, delle striature violacee e
bluastre del tramonto si sovrappone una campitura di chiaroscuri. I guizzi del
reale tra-smutano di essenza: ricordano pigmenti di colore, velature, 'se-gni'
. Qualcosa che sopravviene ad un tratto spacca in due la let-tera e ne muta
registro. Qualcosa che deve essere affiorato nella memoria dello scrittore: in
quel-l’istante di risveglio visivo, la penna vorrebbe trattenere tutte la fibra
percettiva del cielo, ogni sua grana, ogni suo tono, ogni suo palpito e
respiro. «Onde l’aria era tale quale vorrebbero espri-merla coloro che
hanno invidia a voi per non poter essere voi, che vedete nel raccontarlo io». Solo
la mano di Tiziano ha saputo raccontare quel brano di natura diventando quel
cielo che adesso stava negli occhi febbrili del-l’Aretino. A metà della
stesura, l’epistola abbandona i toni di basso dello sfogo solitario e la
vaghezza dei pensieri, fino a quel momento sbrigliati negli scenari aridi della
malinconia, e trova, nello spazio tra paesaggio lagu-nare colto sur le
motive e memo-ria figurativa, uno squarcio im-provviso nel quale
s’allineano e mescolano gli sfondi sconvol-genti dipinti da Tiziano. Poter es-ser
Tiziano! Pietro ha sostato davanti ai suoi dipinti per lunghe ore, portandoci
sopra lo sguardo palmo a palmo; ne conosce ogni agguato d’ombre, ogni
campitura, ogni velatura e semitono. I suoi occhi hanno interiorizzato e ama-to
con gioia feroce le estenuate, pausate lotte di timbri caldi e freddi, le ocre
i blu i viola delle nuvole a stracci, contro le quali l’indice di Alfonso
d’Avalos si disegna repentino e il gruppo del-la Madonna e Santa Caterina si
dispone. L’accensione del cielo veneziano era già tutta nella lama di luce che
fende d’un bagliore l’orizzonte abbasso della Pala Gozzi (1520), e racconta il fermo stagliarsi degli edifici,
l’incidersi contro un cielo aranciato della punta del campanile di San Mar-co,
alla cui geometrica fermezza risponde, quasi per contrappunto, il torto profilo
delle foglie sul ramo e il zigzagare delle nuvole verso la Vergine. Sferzato da
questi brani pittorici, anche la scrittura epistolare di Pietro si fa porosa
registrazione, non più ver-bale ma pittorica, dello scena-rio lagunare: le
maglie sintattiche si allentano, i verbi scintillano, la tavolozza lessicale si
apre a ta-stiera accordando con somma precisione sostantivi e aggettivi.
Aretino
ricreerà sulla pagina, nella citata espistola al Tiziano, unendo memoria
figurativa e mo-derna trascrizione en plein air, i cieli di
Tiziano venati di rossi sangue e di neri contro squarci di luce improvvisa
XI
IL SOFÀ DELLE MUSE
A PROPOSITO DEI DIPINTI DI SAURO PARDINI
La mia riflessione sui suggestivi dipinti di Sauro Pardini vuole prendere spunto da quanto addi-tato da Maria Luisa Daniele Tof-fanin in quel “quasi … non veri-smo” ravvisabile nella pastosità cromatica della pennellata, nella macchia scontornata caratteristica di questo movimento artistico no-toriamente antiaccademico e anti-retorico. Non a caso lo stesso Giovanni Fattori ebbe a definire la modalità percettiva dei mac-chiaioli una “impressione dal ve-ro” non certo quindi scaturita da un suo specchio fedele. È quel termine, “impressione”, che ci schiude una visione del reale non così verista e oggettiva come la prima critica d’arte aveva definito questa, ai tempi rivoluzionaria, corrente pittorica.
È puro intimismo infatti la nota saliente degli evocativi quadri di Pardini, anche quelli imperniati sul tema del lavoro campestre (così grato a questo gruppo arti-stico) nei quali sia i personaggi che gli animali (Foto 1, 2) si sciolgono come grumi di creta nella fitta trama di paesaggio e case in una sorta di bidimensio-nalità che avvolge le sue tele co-me un’aura soffusa, accresciuta da una concomitante insistita bi-cromia rasserenante, tra i toni dell’argilla e del muschio, quello “specchio annerito” sagacemente intuito da Maria Rizzi e che sem-bra costituire in effetti la lente d’osservazione del pittore fino a sospingerci nel mondo che è den-tro di sé, non tanto “fuori” dal sé.
Uguale attitudine trapela dalla bambina del terzo quadro che, a mo’ di sirenetta nostrana, si perde nella veduta del litorale presumi-bilmente toscano o ligure. Sap-piamo che lo sguardo è più im-portante della vista e ciò che col-pisce immediatamente è proprio lo sguardo interiore di questa gio-vinetta, l’impressione, appunto, che il paesaggio suscita in lei e che a sua volta il pittore è stato felicemente in grado di restituire all’osservatore mediante quel suo realismo giustamente definito “ontologico” dal fratello Nazario, un realismo pertanto non empiri-camente e freddamente fenome-nico. Del resto, in arte ciò che conta è la percezione del fenome-no, non il fenomeno stesso.
Di particolare richiamo risulta lo schema quasi chiastico dell’ope-ra, non sappiamo se voluto o me-no, più semplicemente forse sca-turito da reali condizioni chiaro-scurali del paesaggio in quel pre-ciso momento, all’insegna di un hic et nunc di impressionistica memoria. Mi riferisco alla sen-sazione ottica da me percepita al primo impatto con questo avvin-cente quadro e cioè una disposi-zione incrociata degli elementi cromatici chiari e scuri che si diramano nettamente dalla volta celeste per poi distribuirsi in mo-do alterno nelle vesti della bam-bina e nella sezione inferiore del mare e degli scogli.
Un guizzo di intrepidi cromatismi contrastanti dal sapore quasi fau-ve, in questo caso una tricromia di rossi, azzurri e bianchi avorio, campeggia nelle geometrie ardite del quadro n. 4 raffigurante uno scorcio del borgo nativo, Lari, presente nella copertina del libro di poesie Cronaca di un soggior-no di Nazario Pardini e il cui tito-lo lascia presagire ricordi di gio-vinezza condivisi con l’amato fratello in un binomio inscindibi-le di arte figurativa e poetica, di codice cioè asemantico e seman-tico nell’interpretazione della vi-ta e della realtà, in tutti i casi oltre la soglia delle apparenze.
Non possiamo al riguardo non fare
nostra la celebre afferma-zione di Paul Klee: l’arte – ag-giungeremmo
noi: qualunque for-ma d’arte - non riproduce il visi-bile, ma rende visibile
ciò che non lo è.
ANGELA AMBROSINI
http://nazariopardini.blogspot.com/2021/10/angela-ambrosini-proposito-dei-dipinti.html
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XII
RECENSIONI
“RECENSIONI
E ALTRI SCRITTI”
di Davide PUGNANA
È nata una stella in Lungiana ed è una stella dell’Arte. Precisamente
della Critica, in verità non solo d’Arte, ma anche letteraria.
Di Davide Pugnana leggevo ogni tanto su Facebook dei post di cui ho
subito riconosciuto l’altezza. L’idea precisa è stata quella di u-na grande cultura
che lascia spa-zio all’esercizio retorico dell’eru-dizione solo per quel tanto
che basta per dare fascino alla lettura. Dunque parliamo subito di una capacità
di critica autentica ordi-ta con una trama di eloquio non facile a trovarsi nel
panorama o-dierno dei tanti, troppi scribacchi-ni.
Mi chiedevo chi fosse questo stu-dioso particolarmente dotato. Sa-pevo
che era un lunigianese, di chiara frequentazione villafran-chese, un borgo da
me vissuto con particolare assiduità, ma stra-namente le nostre strade non si
erano mai incontate.
Poi un giorno mi arrivò un con-tatto su Messenger. L’autore ave-va
seguito l’attività del CLSD e chiedeva di poter entrare in con-tatto. Non fu
cosa immediata, ci ripromettemmo di incontrarci, e solo in seguito arrivò
l’occasione con il centenario dantesco.
Fu sul finire del 2020 che defi-nimmo assieme, in brevissimo tempo, un
programma su misura per Villafranca: l’idea era quella di un ciclo di
conferenze mensili che coprisse l’intero Anno Dante-sco, un insieme di
interventi con-cepito in modo organico.
Ne è nato un vero e proprio corso in-terdisciplinare di introduzione a Dante e
alla sua modernità dove lo sviluppo dell’arte italiana cor-re, grazie a Davide
Pugnana, di pari passo con l’esegesi
dantesca a completa dimostrazione dell’e-norme influenza esercitata da Dante,
nei secoli, sulla produzio-ne non solo dei letterati, ma pure dei massimi
pittori e scultori, da Giotto fino a Salvator Dalì, pas-sando attraverso
Ambrogio Lorenzetti, Piero della Francesca, Michelangelo e Raffaello Sanzio.
Va da sé che Davide Pugnana è entrato a far parte a gran titolo del CLSD
e siamo qui oggi a parlare con grande soddisfazione di un suo notevole lavoro
di saggistica a 360 gradi dal titolo Recensioni
e altri scritti.
L’opera (350 pagine) si articola in 16 lavori di critica letteraria, in 16
di critica d’arte e in 27 “pic-coli esercizi di ammirazione”, cioè scritti dedicati ad autori (pit-tori,
scultori, letterati, poeti) par-ticolarmente cari all’autore o che comunque
hanno destato in lui un interesse del tutto particolare: da Leopardi a Walter
Benjiamin, da Caravaggio a Rembrandt, da Poe a Baudelaire, per chiudere in
bellezza con Johannes Vermeer.
Splendida la citazione dell’inci-pit:
«Finché esisteranno i dipinti di Vermeer il mondo non si meri-ta la fine del
mondo» (Wislawa Szymborska).
Un vero oceano dove il dolce naufragare non è un optional: è
assolutamente inevitabile.
M. M.
“DANTE A BISMANTOVA”
Viaggio alla montagna
del Purgatorio
di Giuseppe LIGABUE e Clementina SANTI
Ogni volta che un libro nasce per pura passione ci si trova di fronte a
qualcosa di notevole. La regola è confermata da questo studio ap-passionato
intorno al legame, che si dimostra assai stretto, tra Dante e la Pietra di
Bismantova.
Sì, peché questo monumento del-la Natura ha la possanza di quel basamento
della montagna sacra del Purgatorio su cui Dante indu-gia per tutti i primi 10
Canti del secondo libro della Commedia.
Le corrispondenze trovate dai due studiosi, Giuseppe Ligabue e Clementina
Santi, sono veramen-te notevoli.
Il lavoro, prefato da Laura Pa-squini. figlia di quel grande E-milio che
fu un amico del CLSD, è stato a lungo meditato. L’analisi parte dalla Lunigiana
e non a caso sono molto numerose le cita-zioni del CLSD.
L’intento degli autori è stato quello di cercato di inserire con il
maggior rigore possibile la pre-senza del Sommo a Castelnuovo né Monti nella
complicata Bio-grafia dei primi anni d’esilio ed hanno finito con il concordare
nello sgombrare il campo dall’i-dea forzata di un precoce soggior-no in
occasione della venuta in Lunigiana per la Pace di Castel-nuovo: assai più
probabile, sulla scorta del Galanti, l’arrivo di Dante in Lunigiana dal
pistoiese per intercessione dell’amico Cino presso Moroello Malaspina,
mar-chese di Giovagallo.
Si perviene così ad una medita-zione più attenta della Pietra qua-le
fonte di ispirazione matura del-la montagna purgatoriale, in par-ticolare per
quanto attiene il cita-to basamento e pure la singo-larissima concezione del Paradiso
Terrestre posto alla sua sommità.
Insomma, nella tradizione degli studi danteschi relativi alle Terre Matildiche,
questo nuovo contri-buto è una nuova pietra miliare con cui ogni serio studioso
si dovrà d’ora in poi necessaria-mente confrontare.
M. M.
Giuseppe LIGABUE
Clementina SANTI
Dante e Bismantova -
Viaggio alla montagna del Purgatorio
Corsiero Editore
Reggio Emilia, 2021-10-31
ISBN:8832116901
«È GIUNTO IL TEMPO DI DECIDERE SE STARE DALLA
PARTE DEI MERCANTI O DA QUELLA DEGLI EROI»
CLAUDIO BONVECCHIO
(PREMIO ‘PAX DANTIS’ 2009)
«SENZA WAGNER NON ESISTE L'OC-CIDENTE. CON WAGNER NASCE LA
QUESTIONE MODERNA DELLA DICOTOMIA TRA AVERE E ESSERE»
QUIRINO PRINCIPE
(WAGNER LA
SPEZIA FESTIVAL 2014)
«SE IL CRISTIANESIMO SE NE VA, AL-LORA DOVREMO AFFRONTARE MOL-TI
SECOLI DI BARBARIE»
THOMAS STEARNS ELIOT
RIVISTE CONSIGLATE
ARTHOS – Pagine di Testimo-nianza Tradizionale, fondata e diretta da Renato Del Ponte, Edi-trice I.C.D.C. - ARŶA, Genova.
arya@oicl.it
ATRIUM - Studi Metafisici e Umanistici, Associazione Cultu-rale ‘Cenacolo Pitagorico Ady-tum’, Trento.
info@cenacoloumanisticoadytum.it
CRISTIANITA’ – Organo uffi-ciale di Alleanza Cattolica, fon-data da Giovanni Cantoni, Arti Graficeh Àncora, Milano.
info@alleanzacattolica.org
IL PORTICCIOLO – Rivista di informazione, approfondimenti e notizie di cultura, arte e so-cietà, Centro Culturale ‘Il Portic-ciolo’, La Spezia.
segreteria@ilporticciolocultura.it
LEUKANIKà - Rivista di cultura varia, Circolo Culturale ‘Silvio Spaventa Filippi’, Luca-nia.
info@premioletterariobasilicata.it
QUADERNI DEI GIULLARI – Rivista
di cultura generale
SIMMETRIA – Rivista di Studi e Ricerche sulle Tradizioni Spirituali, Associazione Cultura-le ‘Simmetria’, Roma.
XIII
ARCADIA PLATONICA
La Poesia è il fiorire
dell’uomo nella Parola
Giuseppe
Ungaretti
LA
LUNA
Ben presto, verrà la luna,
Il suo sapore antico,
Il suo chiaro di nube,
Dentro quella sua fonda voce:
Adopereremo tutti i nostri sogni
Per salire le valli profonde,
Guardando la notte
Lasciare la sera, incontrare
Un grande sonno,
Nell’ordine dei pensieri.
MARCO LANDO
L’AZZURRO DEL
CIELO
È un pomeriggio degli ultimi
giorni di giugno: il solstizio
d’estate ha già sancito il
diminuire, progressivo, delle
ore occupate dalla luce e
l’aumentare, di giorno in
giorno, del tempo riservato
all’oscurità delle tenebre
notturne. Io sono seduto
sull’aia antistante il
casolare in cui, da decenni,
risiedo insieme ai membri
della mia famiglia. Sto
pensando e riflettendo
sulla bellezza della natura
che mi circonda: un grande
dono che porta l’impronta
del dito divino della Creazione
e della traccia di solerzia e
custodia seminata dal
lavoro costante, appropriato
e conservativo, dell’uomo.
Poi i miei occhi, segno della
misteriosa capacità creativa
di Dio Padre,
spinti dalla ricerca,
si fissano in alto
e puntano il loro sguardo
dentro alla Volta Celeste
che, ad arco, sovrasta
e protegge il globo
delle terre e delle acque.
Ammirano, stupiti e
quasi increduli, l’azzurro
che, terso e trasparente,
colora ed orna tutti gli
spazi del Cielo, regalando
a chi guarda, sensazioni
di serenità acquietante
e di gratitudine verso
l’Assoluto che provvede
a gestire l’intero universo
con saggezza e con sapienza
insuperabili. Il mio Spirito
si commuove e, gratificato,
innalza una lunga preghiera
di lodi ringrazianti
verso la Santissima Trinità
che, ogni giorno, dispensa
cure amorose verso tutti i suoi
Figli e verso il Creato
che circonda, con
benevolenza e con
solidarietà, tutti i
viventi che popolano
l’immensa sfera
che custodisce il
gran Bene della Vita.
L’insostituibile e sommo
Bene della Pace
si insinua dentro
alla mia coscienza profonda
e ad essa rammenta
il dovere morale
di essere riconoscente,
in ogni giornata, verso
le Potenze Divine
che provvedono,
costantemente, a far
dono, a tutti indistintamente,
del sacro alito del
respiro, indispensabile
per continuare la Vita.
Convinto circa la
fondamentale importanza
del richiamo, la mia Fede
si dichiara pronta ad
allearsi con Dio,
Padre eccelso di
tutto ciò che
esiste nel mondo,
Supremo Custode
di ogni essere vivente
e Ineguagliabile
dispensatore
di Bontà e di Amore.
La mia Anima è
pervasa dalla Gioia:
la Speranza dona a
tutto me un supplemento
di vigore e di coraggio
per affrontare, con
accettazione e con pazienza,
gli eventi, per adesso, nascosti
dentro all’incognito
del mio futuro.
NARDINO BENZI
L’ARMISTIZIO
Abbiamo deposto le armi
nascondendole nel labirinto
che la vecchiaia ci propone
Non più riusciremo a trovarle
e a imbracciarle per procurarci
le ferite che più fanno male
Mai più parole come coltelli
lanciate all’altezza del petto
per non far battere il cuore di Amore
Mai più silenzi di abbracci
che stentavano a germogliare
e nei ricordi a metter radici
Mai più ci verrà data la possibilità
di firmare con l’inchiostro indelebile
la pace di un sentimento
Potremo solo stringere
incrociando i nostri stanchi sguardi
il patto per un armistizio
tra una madre e la propria figlia.
PAOLA RICCI
Il CLSD ringrazia
il Comitato di Redazione
e tutti gli Autori
che hanno collaborato
alle Rubriche di questo Numero:
SAGGISTI
Angela
AMBROSINI
Edoardo
BERNKOPF
Stefano
BOTTARELLI
Pier
Giorgio CAVALLINI
Elisabetta
LANDI
Mirco
MANUGUERRA
Norberto
MAZZOLI
Maria
Adelaide PETRILLO
Davide
PUGNANA
POETI
& ARTISTI
Nardino
BENZI
Valerio
P. CREMOLINI
Marco
LANDO
M.
M.
Paola
RICCI
Sede Sociale
c/o Museo
‘Casa
di Dante in Lunigiana’
via P. Signorini 2 Mulazzo (Ms)
Indirizzo
Postale
via
Santa Croce 30
c/o Monastero di
S. Croce del Corvo
19031 – AMEGLIA (SP)
Presidenza
328-387.56.52
Info
Contribuzioni
Iban Bancoposta
IT92 N 07601
13600 001010183604
Conto Corrente Postale
1010183604
Partita IVA
00688820455
[1] M. MANUGUERRA, Misteriose affinità tra poeti liguri, su “La Spezia Oggi”, XIV/3 (1986), pagg. 46-49.
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