Cara Miriam,
lei tocca argomenti veramente stimolanti che coinvolgono uno dei
problemi espressivi principali della contemporaneità: il rapporto
fra arte e economia. Diciamo che la vera rivoluzione nell'arte, la prima nel
senso della parola, l'ha effettuata il Romanticismo: la libertà come condizione
indispensabile dell'atto creativo. Per la prima volta è l'artista a proporre la
sua creazione e non il contrario. Antecedentemente, e soprattutto nel nostro
splendido e fruttuosissimo Rinascimento, il signore assegnava la commissione.
Comandava all'artista il lavoro dandogli anche spunti e precisazioni su cui lo
stesso avrebbe dovuto operare. Quindi mancanza di quella condizione ispirativa
di cui i Romantici faranno il loro cavallo di battaglia. Eppure, paradosso
delle contraddizioni, è proprio il periodo, quello del Rinascimento, in cui
produciamo i più grandi capolavori letterari, figurativi, architettonici... per
i quali l'Italia è e sarà sempre ricordata. Allora come si mette. Eppure sarà
proprio nelle dittature che gli artisti lasceranno, per reazione, i più grandi
capolavori. E’ inutile sciorinare nomi a destra e a manca; è sufficiente citare
un Guernica di Picasso, citazione ovvia e abbastanza scontata, comunque. Sarà
che (nel nostro Rinascimento) c'erano le ricchezze dei principi a incentivare
l'arte? A permettere certe realizzazioni? Sarà che l'artista veniva ben
remunerato e non aveva la preoccupazione di piazzare l'opera, perché già
antecedentemente comandata? Lei, ad esempio, nel suo campo è una notevole
artista. Riesce a miscelare immagini, parole e musica con una maestria che può
scaturire solamente dalla sensibilità di una grande anima. Ma le sue opere è
bene o male che vengano commercializzate? L’artista si sente realizzato non
solo nel produrre, ma anche nel riscontro che trova nel piazzare l’opera. E non
è detto che il raggiungimento di un equilibrio economico non dia forza al convincimento
e all’autostima del creatore. In questo caso creatrice. Credo che la libertà
debba essere certamente il piedistallo su cui basare l'attività creativa. E che
l'artista non si debba assolutamente far condizionare dalla commercializzazione
nella sua attività espressiva. Ma nel mondo in cui viviamo, mi chiedo, non può
essere la stessa commercializzazione motivo e stimolo di produzione, materia da
metabolizzare per lo stesso atto creativo? E se un pittore, ad esempio, crede
fermamente nelle sue opere, ma non riesce a piazzarle, non è che entrando nel
circuito commerciale possa dare inizio alla sua realizzazione? E poi non può
darsi che le sue creazioni possano essere propagandate a fini di lucro? E’
talmente sottile il confine fra libertà, economia e arte che tanti potrebbero
essere gli esempi da addurre come convalida delle diverse posizioni. Invece io
penso che il critico letterario debba assolutamente salvaguardare la sua
dignità. Non elogiare incondizionatamente quando non ci sono i presupposti.
Magari cercare quello che di buono c’è in un opera. E da lì partire. C’è sempre
qualcosa di positivo in ogni scrittore. Solo il fatto di scrivere, di per sé, è
già una grande cosa. Ingentilisce l’animo, che sempre più impreziosito cercherà
di sfogare la sua esistenza o il suo modo di essere. Però alla base del tutto
ci deve essere la parola, il possesso della lingua, la scrittura, come per il
pittore il colore, e l’utilizzo del pastello. Si può essere ricchissimi di
sentimenti, sentire il bisogno di esternarli, ma se la parola non ti prende per
mano e non ti accompagna in questo personalissimo percorso la cosa si fa dura.
Allora studiare, studiare, studiare, leggere, leggere, leggere. Poi sarà la
nostra personalità a setacciare dizionari e sintassi, a sforzare le parole, a
dilatare i percorsi per renderli unici. Perché un buon musicista potrà essere
solamente un buon musicista, ma per divenire artista dovrà andare al di là
delle note stesse, come il poeta al di là dei significati. Tocca al critico
saper leggere e individuare e valorizzare questi al di là. Senza, però, mai
deprimere. La critica non deve mai essere violenta. Semmai dolce, poesia su
poesia, e far capire fra le righe quali parti potrebbero essere più liriche o
meno, più riuscite o meno. E la critica non potrà mai
essere obiettiva, ma un’opera d’arte su un’opera d’arte. Il critico
legge il lavoro, lo fa suo, lo rivive, e lo getta sul foglio “rilucidato” e
zuppato del suo sentire. Vi accosta tutto se stesso, coi suoi gusti,
i suoi intendimenti, e, perché no, le sue memorie..
Cara amica, grazie
dei complimenti, ma io credo che per essere dei veri critici dovremo
mangiare ancora tanto pane.
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