Novembre 2021
Giancarlo Baroni: Classicisti, realisti ed ermetici
nella poesia in lingua italiana del Novecento
Il Novecento è un secolo complesso che
ha prodotto linee poetiche assai differenti al punto che è assai difficile
proporre chiare categorie interpretative. Tuttavia, sembra giunto il momento,
secondo le direttive tracciate da «Atelier» fin dalla
fondazione, di organizzare la materia secondo alcuni filoni che non pretendono
di esaurire il problema, ma piuttosto di suscitare un fruttuoso dibattito.
Classicisti, realisti ed ermetici
nella poesia in lingua italiana del Novecento. (Tracce, ipotesi e indizi).
Il lettore comune…differisce dal
critico e dallo studioso…Lo guida, in primo luogo, l’istinto di voler creare
per sé, derivandolo dai vari elementi in cui potrà imbattersi, un qualche
quadro d’insieme…Mentre legge non cessa mai di imbastire una sorta di
costruzione malferma e sgangherata che gli dia anche solo per un momento la
soddisfazione di assomigliare al vero tanto da consentirgli di amarla, riderne
e discuterne.
(Virginia Woolf, Il lettore comune)
I poeti classicisti privilegiano la
grazia, cioè una misurata, armoniosa, delicata e musicale eleganza, mentre
escludono scompostezza ed eccessi principalmente verso il basso; si preoccupano
di rendere belle e piacevoli le cose da dire. Il loro tono prevalente risulta
controllato anche nel dolore, le forme più usate sono quelle della tradizione,
il modello lontano è Petrarca dalla cui poesia, fa notare Francesco De Sanctis,
«è sbandito il rozzo, il disarmonico, il volgare, il grottesco e il gotico».
In loro l’eleganza accompagna dunque
costantemente il messaggio e cerca di coincidere con il contenuto senza però
sostituirli mai completamente, senza annullarli. Li riveste per esempio di
ornamenti formali e di suggestioni sonore: la testimonianza dello scrittore
diventa anche una testimonianza di stile. La maggioranza dei poeti italiani
sembra fare parte di questo primo gruppo, il pericolo di manierismo rimane per
loro sempre presente.
Per i realisti, al contrario, gli
argomenti da dire e soprattutto il bisogno, l’ansia di dirli contano più del
modo in cui vengono riferiti. Se lo stile diventa un ostacolo alla
comunicazione lo mettono da parte. Dato che considerano la vita più importante
della letteratura, l’eleganza del verso viene subordinata alla sua sincerità,
immediatezza, vigore ed efficacia. Tanto che ai più estremisti di loro è
consentito rivolgere l’ammonizione che Papini, ai suoi tempi, fece ai
futuristi: «Il cerchio si chiude. L’arte ritorna realtà».
Gli ermetici sono infine i poeti
oscuri. Nella loro mancanza di chiarezza sta la caratteristica che accomuna
autori differenti fra loro come orfici e sperimentalisti.
La realtà di cui la poesia si deve
occupare è per gli orfici quella delle essenze spirituali e delle verità
ultime, invece che delle esistenze e delle esperienze immediate e concrete come
per i realisti. Essenze e verità destinate a rimanere impenetrabili e
inafferrabili. Le parole poetiche o si limitano a rispecchiare il mistero comunicando
per paradosso la sua inevitabilità, o tentano di rischiararne dei frammenti
alludendo a significati più nascosti e profondi e rinviando continuamente ad un
altrove. La parlata degli orfici, confrontandosi con l’enigma e l’assoluto,
inclina perciò al simbolico, visionario, mitico, sibillino, solenne.
Per gli sperimentalisti invece al
centro della letteratura sta la lingua, che venendo esonerata dall’obbligo di
comunicare può funzionare in modo autonomo e autoreferenziale. Il significante
prevale dunque sul significato, in certi casi addirittura lo sostituisce, e la
poesia si trasforma in una specie di laboratorio di invenzioni e di prove
libere di spingersi sino all’alchimia e all’acrobazia verbali. Anche quando lo
scrittore sperimentalista vuole continuare a trasmettere un messaggio e dei
significati, a mantenere un rapporto con la realtà extra letteraria – rapporto
che ha suggerito allo studioso Walter Siti la formula accattivante di “realismo
dell’avanguardia” – lo fa però di preferenza in maniera indiretta, affidando
fondamentalmente questo compito alle parole riflessive e logiche del commento
critico. Grazie alle quali impariamo ad esempio che l’inspiegabilità e il
disordine del verso sperimentalistico possono essere per esempio interpretati
come rispecchiamento del caos e della complessità, come metafora
dell’insensatezza del mondo, come grammatica dell’inconscio e dell’alienazione
o come contestazione di un sistema sociale e di valori. Sembra derivare da una
propensione all’autosufficienza la scarsa comprensibilità di questa poesia e
non, come per quella orfica, da un’occulta essenza esterna.
È classicistica la poesia
all’apparenza ingenua, colloquiale ma musicale, malinconica ma senza cupezza,
della maggior parte dei poeti di gusto e di sensibilità crepuscolare. Govoni
(«Occupa la mia mente / una dolcezza malinconica…»), Moretti e Gozzano si
lasciano sedurre e rasserenare dalla «Bellezza riposata dei solai», da «…le
buone cose di pessimo gusto…» di quest’ultimo.
Corazzini invece sembra ingaggiare
una specie di corpo a corpo con la morte («Io non so, Dio mio, che morire. /
Amen», dal quale sa di uscire perdente anche come artista: «Io non sono un
poeta», ripete con insistenza, «Io non sono che un piccolo fanciullo che
piange». La sua è forse un’ammissione di sconfitta, non semplicemente di
imbarazzo e di inadeguatezza come il «sì, mi vergogno d’essere un poeta!» di
Gozzano. Corazzini riesce a trasformare la tristezza crepuscolare in
disperazione («disperatamente triste, / in un angolo oscuro»), i riferimenti
autobiografici in una confessione dolente ed esibita, orientando la propria
poesia verso uno sbocco quasi realistico. «Conviene che tu muoia», dice,
«dolcezza, oggi, per me».
Sono classicisti autori eleganti e
nello stesso tempo discorsivi come Cardarelli («Ora passa e declina, / in
quest’autunno che incede / con lentezza indicibile, / il miglior tempo della
nostra vita / e lungamente ci dice addio»), come gli impeccabili Giovanna
Bemporad («L’aria è tutta armonia: sarebbe / dolce svanire in questa immensità
serena;») e Sergio Solmi che dichiara in modo esplicito la propria «dimensione
neoclassica».
Lo sono anche scrittori dotati di
delicatezza e garbo come Gatto («Tutta dolcezza e pianto / vorresti le parole /
che chiudono da sole / la verità del canto»), come l’epigrammatico Sinisgalli
(«La luce era gridata a perdifiato / le sere che il sole basso / arrossava il
petto delle rondini rase»), Antonia Pozzi («Poesia, mi confesso con te / che
sei la mia voce profonda»), Vittorio Sereni («Vienmi vicino, parlami,
tenerezza»), di cui Debenedetti sottolineava la «contaminazione della
narratività e della purezza», e la eccellente Fernanda Romagnoli («…Il mio poco
darei / per un unico verso che resti / testimonio di me, / un attimo passato
sulla terra / – lieve – come un coriandolo»).
Appartengono inoltre ai classicisti
poeti dalla essenzialità incisiva e limpida e dalla raffinatezza non ostentata:
Sandro Penna («…E sopra un tavolaccio / dormiva un ragazzaccio / bellissimo»);
Giorgio Caproni («Per lei voglio rime chiare, / usuali: in – are. / …/ Rime che
a distanza /…/ conservino l’eleganza / povera, ma altrettanto netta»); Bartoli
Cattafi, corrosivo e pungente («Questi piccoli uccelli / vorrebbero in fondo
darti la caccia / con un’unghiata / strapparti la faccia / questa è la loro
tristezza / quando ti guardano / e abbassano le palpebre gialle»); Fernando
Bandini («Ma io quaggiù sono un gracile Atlante, / mi curvo sotto il peso
dell’azzurro. / Le mie cose da sempre / vive nel duro universo / come
inventarne i nomi, come renderle / leggere?»); Paolo Bertolani, dai «versi –
lucertola versi – mandolino» pregevoli tanto in lingua quanto in dialetto;
l’antiretorico, essenziale, preciso e contemporaneamente inafferrabile
Giampiero Neri («Quella casa isolata / quasi nel centro del paese / era passata
indenne / dalla guerra e dopoguerra / come la salamandra nel fuoco, / adesso
sembrava un corpo estraneo / venuto da chissà dove»).
Ne fanno parte infine autori la cui
vocazione per raccontare resta nettamente dentro i limiti della poesia,
rifiutando prosaicità e ruvidezze. È il caso della discorsività «…senza
malizia…» ma permeata di finezza di Gian Carlo Conti («Finalmente / dopo tanto
buio, tanta noia / me ne andrò come una volta / a correre verso il cielo») e di
quella più inquieta e sontuosamente lavorata di Pier Luigi Bacchini («C’è una
minuziosa perizia nello scrivere, un’esperienza / d’acuta tecnica, non tutto è
verità, / ma serve a rivelarla…»). È la situazione inoltre della conversazione
affabile, ironica e colta di Giudici («Tanto giovane e tanto puttana: / ciài la
nomina e forse non è / colpa tua – è la maglia di lana / nera e stretta che
sparla di te»), di Luciano Erba («poesia sei come uno scoiattolo / resti in
letargo per parecchi mesi / quando ti svegli salti in mezzo al verde / vedo
appena la tua coda folta, / prima che scompaia dentro gli abeti»), dello
svizzero di lingua italiana Giorgio Orelli («questo “lombardo” della Svizzera»
lo chiama Anceschi nel saggio Di una possibile poetica lombarda) e
quindi di Raboni con la sua «…sospettosa tenerezza» («Va piano piano alla
finestra / a vedere se nevica ancora, se continua / nel buio luminoso, là fuori
/ l’infantile disastro del mondo»). Soprattutto è il caso dell’aspirazione
mostrata da Bertolucci e Saba di creare, con l’insieme della loro opera, una
specie di romanzo autobiografico in versi. Il primo (dal «…passo…lento e gaio
della provincia.» unito ad un «umore malinconico») definisce La camera
da letto «romanzo in versi» e «romanzo famigliare». Il secondo confida
che «Il Canzoniere è la storia (non avremmo nulla in contrario
a dire il “romanzo”, e ad aggiungere “psicologico”) di una vita, povera
(relativamente) di avvenimenti esterni; ricca, a volte, fino allo spasimo, di
moti e di risonanze interne, e delle persone che il poeta amò nel corso di
quella lunga vita, e delle quali fece le sue “figure”». L’attenzione di Saba
verso una quotidianità umile, privata e dimessa, espressa attraverso un
linguaggio comune, chiaro e colloquiale («Amai trite parole che non uno / osava.
M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo»), si
veste volentieri di compostezza, decoro e gradevolezza («…E in me una verità /
nasce, dolce a ridirsi, che darà / gioia a chi ascolta, gioia da ogni cosa»).
Si veste insomma di una bellezza e di una grazia esibite: «La bellezza
m’innamora, / e la grazia m’incatena». Grazia per niente svenevole per merito
del legame mantenuto dall’autore con la vita di tutti i giorni, quella a lui
più vicina che anima Trieste «La mia città che in ogni parte è viva».
Quest’ultima, definizione estensibile all’intera sua poesia, «…ha una scontrosa
/ grazia. Se piace, / è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi
azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore». Il realismo di Saba, filtrato
costantemente da un’eleganza «onesta» e «schietta» ma contemporaneamente nobile
e classica, va perciò giudicato con cautela ed esattezza, per esempio Carlo
Muscetta lo qualifica «lirico» e Pasolini «sentimentale».
Diluendone tensioni e irregolarità dentro
la compostezza, guardano moderatamente verso il realismo anche Carlo Betocchi e
Franco Fortini. Betocchi nella pratica poetica mitiga parecchio la perentorietà
del titolo della sua raccolta d’esordio Realtà vince il sogno,
Fortini attenua sobrietà ed asciuttezza dello stile con l’uso della «…sublime
lingua borghese…». È attirato invece dall’ermetismo il raffinato Bigongiari.
Visitano con irrequietezza le
frontiere neoclassiche, senza sconfinarne tuttavia in modo definitivo, infine
Quasimodo, Ungaretti e Montale. La propensione naturale di Quasimodo per mito,
simbolo, eloquenza, viene in seguito integrata da acquisizioni neorealistiche:
«Giorno dopo giorno: parole maledette e il sangue / e l’oro. Vi riconosco, miei
simili, mostri / della terra. Al vostro morso è caduta la pietà / e la croce
gentile ci ha lasciati. / E più non posso tornare nel mio eliso». Questa
miscela neorealistica-ermetica finisce per assegnare alla poesia e al poeta un
ruolo e dei compiti enormi: «Rifare l’uomo: questo il problema capitale»,
sostiene Quasimodo in un saggio sulla poesia contemporanea, «…Rifare l’uomo,
questo è l’impegno».
Rifiutandosi di organizzarsi in frase
e discorso per rimanere illuminazione, il verso lapidario e frantumato del più
giovane e famoso Ungaretti oscilla con inquietudine fra assolutezza orfica
(«Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita
/ come un abisso») e asprezza espressionistica («Un’intera nottata / buttato
vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata»).
Un’inquietudine che sembra successivamente pacificarsi nel recupero della
tradizione classica.
Per trent’anni, fino a La
bufera e altro, il linguaggio di Montale si mantiene alto, solenne e
complesso. Adatto per esprimere esigenze metafisiche («C’è stata…, a partire da
Baudelaire e da un certo Browning,…una corrente di poesia non realistica, non
romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all’ingrosso si può dire
metafisica. Io sono nato in quel solco.»), e anche per esprimere propositi di
negazione («Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche
storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò
che non siamo, ciò che non vogliamo»), questo linguaggio impedisce però a
Montale di separarsi con disinvoltura da quei “poeti laureati” che egli da
subito critica poiché «si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati:
bossi ligustri o acanti». A questo riguardo precisa Pier Vincenzo Mengaldo: «È
chiaro…che la lotta contro l’eloquenza aulica di certa tradizione si attua
prevalentemente a un livello e con materiali di tipo schiettamente “letterario”
e “poetico”, fruibili beninteso a scopi di non-eloquenza».
Da Satura in avanti
invece Montale adopera una lingua più colloquiale, diaristica e prosastica che
gli permette di raggiungere in modo più esplicito e diretto di una volta
l’obiettivo antiaulico prefisso. L’affermazione del primo Montale, secondo la
quale «le cose oscure» tendono alla «chiarità», acquista adesso un senso di
chiarezza e di concretezza, non di luminosa dissolvenza come all’inizio. Egli
sembra alla fine quasi avvicinarsi a Saba. «Noi non amiamo…l’ermetismo, perché
sappiamo che esso nasconde un processo (psicologico) involutivo anziché
evolutivo, e il mondo ha più bisogno di chiarezza che di oscurità.», scriveva
nel 1948 il triestino, «Ma», prosegue, «ermetismo o non ermetismo, Montale è un
grande poeta».
Partecipano al gruppo dei realisti
quei poeti che, dice Pasolini in Passione e ideologia, «scrivevano
in nome…della “vita”». Interamente sia la «…poesia di sterco e di fiori» di
Clemente Rebora, vigorosamente comunicativa nonostante le torsioni linguistiche
(«Qui nasce, qui muore il mio canto: / e parrà forse vano / accordo solitario;
/ ma tu che ascolti, recalo / al tuo bene e al tuo male: / e non ti sarà
oscuro»), sia le «…parole sincere», tese («Se le ho dette, vuol dire che avran
traboccato») e antiletterarie di Piero Jahier, per il quale «…la minima buona
azione / vale la più bella poesia». Vi partecipano invece parzialmente Camillo
Sbarbaro e Dino Campana. La voce sobria e delicata del primo conserva un’aerea
grazia («Ora che sei venuta, / che con passo di danza sei entrata / nella mia
vita») e si confessa sempre «…con asciutti occhi…» e «a fior di labbro»;
i Canti orfici del secondo dichiarano già dal titolo la loro
tendenza («Me ne vado per le strade / Strette oscure e misteriose») ma
condividono di certo realismo estremo il gusto per l’invettiva e per la
provocazione: «Io cerco una parola / Una sola parola per: / Sputarvi in viso…».
Realismo e sperimentalismo convivono
perfettamente e senza contraddizioni nei futuristi. I quali, con i propri
versi, vogliono esprimere una ideologia che esalta la macchina (Ardengo
Soffici: «Le automobili sono burrasche primitive di vento e polvere»), che
celebra l’elettricità (Luciano Folgore: «e magnificare / divinamente / la
volontà / che ogni prodigio fa / la libera Elettricità.») e soprattutto che
loda la velocità (Filippo Tommaso Marinetti: «la magnificenza del mondo si è
arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità…un automobile
ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di
Samotracia.»). Alcuni futuristi esprimono questo messaggio-propaganda in
maniera esplicita, immediata e palese, senza preoccuparsi del bello poetico,
altri decidono di svecchiare e sveltire il linguaggio e la sintassi attraverso
l’abolizione per esempio della punteggiatura, degli avverbi e aggettivi senza
escludere scelte ancora più radicali. Parola d’ordine dei futuristi risulta
perciò simultaneamente: «distruggere la sintassi» e «Facciamo coraggiosamente
il brutto in letteratura».
L’autore che in modo più marcato
rappresenta nella prima metà del Novecento il realismo è Palazzeschi. Ironico
fino al sarcasmo (il «ma lasciatemi sognare!» di Guido Gozzano e l’«Io voglio
morire, solamente…» di Sergio Corazzini vengono infatti sostituiti da un
irriverente «e lasciatemi divertire»), e prosastico fino alla scurrilità («-
Smencitissima vacca! / Porcona, puttana; vigliacca»), Palazzeschi afferma della
propria poesia: «Ogni verso che scrivo è un incendio».
Nella seconda metà del secolo
l’autore realista più rappresentativo sarà invece Pasolini. La sua «…disperata
vitalità.», la voglia smaniosa, incontenibile di testimoniare, di parlare di sé
e del mondo ne trasformano la poesia in uno strumento di confessione e di
ideologia: «Oh, fine pratico della mia poesia! / Per esso non so vincere
l’ingenuità / che mi toglie prestigio, per esso la mia // lingua si crepa
nell’ansietà / che io devo soffocare parlando. / Cerco, nel mio cuore, solo ciò
che ha!» Amante dell’eccesso ma capace di conciliare le estremità (sfogo
privato e impegno civile, sgradevolezza ed eloquenza, schiettezza e cultura,
cronaca e mito, passione e intelletto…) il narrare in versi pasoliniano si fa
gradualmente più antipoetico.
Sono portati a straripare sia Dario
Bellezza sia Antonio Delfini. La schietta, un po’ melodrammatica «…smisurata
confessione» del primo genera «…i miei sregolati versi / pieni d’angoscia o
martirio o lussuria»; «…la mala poesia» del secondo genera una polemica sociale
grottesca e oltraggiosa («E’ la gran moda democristiana: / restare vergine e
far la puttana»).
Antepongono a volte ragioni e ritmi
della prosa a quelli del verso gli autori con la vocazione a raccontare e ad
argomentare. Pagliarani con accenti avanguardistici, Volponi e Roversi con
intonazioni invece espressionistiche, sembrano condividere la sensazione,
provata da Pavese mentre componeva Lavorare stanca, «di aver molto
da dire e di non dovermi fermare a una ragione musicale nei miei versi, ma
soddisfarne altresì una logica. E c’ero riuscito e insomma, o bene o male, in
essi narravo».
Si confronta con storia e attualità
(«e lo scrivere è un atto politico»), ma sempre in modo misurato («Ho imparato
a disporre le parole / senza lasciarmi andare…»), in maniera ironica, nitida ed
elegante Nelo Risi, il quale parte dalla convinzione che: «Se occorre arte
perché siano vere / le parole rare / forse più ne occorre / per essere stilisti
dell’usuale». Risi dal versante realistico e Fortini da quello classicistico,
versanti che arrivano con questi due scrittori quasi a toccarsi, interpretano
esemplarmente il bisogno avvertito ai tempi di Satura da
Montale «di una poesia che apparentemente tende alla prosa e nello stesso tempo
la rifiuta».
Il classicismo – scrive Remo
Pagnanelli nel suo Poesia e poeti italiani del secondo Novecento –
«è il gran letto dove dorme la poesia italiana». «Così», aggiunge Alfonso
Berardinelli in un breve saggio intitolato L’eredità latina, «il
meglio del Novecento poetico italiano è forse nella ripresa o nella persistenza
di vecchie forme».
La nostra poesia novecentesca rimane
insomma nella sua maggioranza e nella sua sostanza classicistica; in essa il
contenuto si riveste di grazia, musicalità e decoro, in certe occasioni questo
rivestimento si impreziosisce tanto da mascherare parzialmente il messaggio.
In una intervista con se stesso del
1951 Montale sosteneva che «Da noi l’irrazionale è, nei poeti, un necessario
limite a cui essi tendono, non la materia stessa dell’ispirazione poetica. Da
noi la poesia sfiora l’incomprensibile restando tuttavia comprensibile». Questa
opinione viene ribadita, mentre riflette sulla propria esperienza personale, da
un altro autore ostico come Solmi: «non credo», dice, «di aver mai scritto una
sola poesia logicamente inesplicabile».
Il poeta novecentesco forse più
compiutamente orfico è Mario Luzi. Nei seguenti versi nobili e solenni si
manifesta in maniera cifrata, inghiottita «…dall’oscuro e dall’oscuro
riemergente…», una verità soprasensibile: «Non sempre tace, gorgoglia / a
tratti il messaggio,… / ne porta / il vento ai mortali / qualche brano, /
arriva loro, / strappata, qualche frase… / poi torna / alle sue profonde cavità
/ l’abissale borborigma…». Accordata l’intonazione con altezze metafisiche, la
frase comunica l’impossibilità di esprimersi chiaramente («È difficile,
difficile spiegarti»).
Fra il testo di Luzi e il seguente di
Zanzotto, spiccano più che le affinità i contrasti: «Perché cresca l’oscuro /
perché sia giusto l’oscuro / perché, ad uno ad uno, degli alberi / e dei
rameggiare e fogliare di scuro / venga più scuro – … / Cresci improvviso tu:
l’oscuro gli oscuri:… / Perché cresca, perché s’avveri senza avventarsi / ma
placandosi nell’avverarsi, l’oscuro».
Mentre Luzi si riferiva a una realtà
ineffabile di cui la poesia può essere espressione lacunosa, Zanzotto nomina il
linguaggio principale realtà della poesia. Per il primo il significato resta
nascosto, per il secondo viene oltrepassato dal significante «…che è leader
feroce del mondo».
Sono provvisti di energia
trasgressiva anche i “novissimi” e l’isolato, eccentrico Emilio Villa. Dalle
«…diavolerie fonetiche…» di quest’ultimo; ai nonsense di Balestrini (
«Francesco Petrarca era forse infelice di non avere il caffè?», «Quante volte
me lo / al cavallo che si era avvicinato / al rumore del muro crollato»); alla
enumerazione e registrazione di dati di Antonio Porta ( «Il corpo sullo
scoglio, l’occhio cieco, il sole, / il muro, dormiva, il capo sul libro, la
notte sul mare, / dietro la finestra gli uccelli, il sole nella tenda»); a
Giuliani («La poesia deve consegnarsi nuda al linguaggio», «La sequenza delle
parole ostacola la comprensione della frase»); al Sanguineti labirintico («Un
Gioco Oscuro Non È Scurato Per Oscurare L’Oscurità…»).
Funziona quasi da cerniera fra
sperimentalisti e orfici «…il farneticare in malandati / versi…/» di Amelia
Rosselli, sabotatrice di regole grammaticali e sibilla. «…Ed oltre ogni dire è
il vero / libro da scuola. Sorride l’estate in un dolce frugore di molli /
verdi foglie, ma l’oscuro della sua trama non racconto».
Giancarlo Baroni
.
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