FEDE E SCIENZA
L’avvenimento -che in questi giorni viene commemorato con
la celebrazione della Pasqua – ha indubitabili riscontri storici: Gesù è
realmente vissuto, entrando a far parte della storia dell’umanità in modo
singolarmente sorprendente (cfr. i Vangeli, gli storici: Plinio il giovane
Epist. X, 96; Tacito, Annali XV, 44; Svetonio, De Vita Caesarum, Nero,
16; Eusebio, Historia Ecclesiastica;
Tertulliano, Apologeticum; Flavio
Giuseppe, Antichità Giudaiche). Non sono, pertanto, le sole motivazioni di fede
religiosa a renderci certi della Sua reale presenza nel mondo. Se da un lato
gli storici ci attestano l’esistenza dell’uomo Gesù, per rispondere alle
domande: “Chi era l’Uomo, nato quanto
mai povero, vissuto nascosto per 30 anni, che, successivamente, per 3 anni ha
fatto vita pubblica insegnando cose sublimi e naturalissime ed è morto di un
supplizio il più ignominioso conosciuto e che, dopo più di 2000 anni, ancora è vivo ed
attuale? Chi è l’Uomo che, incidendo così profondamente nella storia, è
considerato il centro dell’umana avventura?” deve entrare in gioco la fede,
fede che l’incontrovertibilità della storia
dovrebbe sostenere, e come cercherò di
illustrare brevemente, la scienza supportare.
La cristianità , a decorrere dal IV secolo, ha avuto nella croce il suo
simbolo principe. Per i primi tre secoli si era cercato di mimetizzarla con immagini che, pur
ricordandone la forma, facessero dimenticare che era uno strumento di morte: un
albero di nave con palo trasversale applicato in alto, un’ancora, un uomo che
prega a braccia aperte, un aratro. La crocifissione, ai tempi di Gesù, era
entrata da molti anni nell’uso del giudaismo palestinese, importatati dal 63 a.C.,
da quando cioè Pompeo Magno aveva espugnato Gerusalemme. A loro volta i Romani
ne avevano assimilato l’uso dalla Grecia, dall’Egitto, dalle regioni
mediterranee che l’avevano conosciuta attraverso i Fenici. L’antica Roma
disprezzava la morte in croce in quanto ad essa venivano condannati
esclusivamente gli schiavi e i ribelli delle province; era quindi evitata ai
cittadini romani, anche se risulta che più volte si sia derogato da tale
principio. Cicerone l’ha definita “supplizio il più crudele e il più tetro” (In Verrem), “estremo e sommo supplizio
della schiavitù”. In Plauto (Miles
gloriosus, 372-373) non manca una punta di rassegnata
consapevolezza nello schiavo che esclama:
“So che la croce sarà il mio sepolcro. Là sono collocati i miei
antenati, padre, nonno, bisnonno, trisnonno”.
Ai tempi di Gesù la croce aveva tre forme: la prima, la classica croce
immissa o capitata, la seconda la croce commissa a tre bracci, la terza la
croce decussata. Nel primo tipo , che è quasi sicuramente quello usato sul
Golgota, il palo verticale, chiamato stipes
o staticulum veniva conficcato in
terra; il palo orizzontale detto patibulum
veniva fissato al palo verticale in un
secondo momento cioè durante l’esecuzione. Il palo verticale non era liscio:
circa a metà della sua altezza (verso i 2,50 metri) c’era uno zoccolo su cui
doveva necessariamente poggiare il corpo del crocifisso: infatti è assurdo
pensare che i quattro chiodi avrebbero da soli potuto sostenere il peso. Emessa
la sentenza, il condannato veniva flagellato e doveva poi raggiungere il luogo
prescelto per l’esecuzione, portando il patibulum
sulle spalle, attraverso strade assai frequentate per essere fatto maggiormente
oggetto di scherno. Si procedeva poi all’inchiodatura delle mani e dei piedi ai
pali e di questi tra loro. Il condannato tra spasmi indescrivibili moriva per
sopraggiunto soffocamento e collasso. I carnefici a volte acceleravano la fine.
Il cadavere rimaneva appeso alla croce a disposizione di cani e avvoltoi.
Augusto pose termine a questa ulteriore barbarie consentendo che il corpo fosse
restituito ai parenti del suppliziato per la sepoltura. Questa, in sintesi, la
procedura della crocifissione. Anche il supplizio di Gesù si svolse secondo
questo schema: quando il procuratore pronunciò la sentenza, il Condannato si
apprestò a percorrere quel tratto di strada che separava la fortezza Antonia
dal luogo prescelto per l’esecuzione, col patibulum
sulle spalle. “Mentre conducevano via
Gesù, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero
addosso la croce, da portare dietro a Gesù”. (Luca, 23, 26). E in Simone di Cirene siamo rappresentati
tutti noi umani a cui capita di tornarcene dai campi, dopo una giornata di
lavoro, e essere colpiti, tra capo e collo, da una pena inaspettata. Se è vero
che siamo chiamati a “portare la croce, dietro a Gesù”, è anche vero che siamo
destinati alla resurrezione. “Se Gesù
non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede, stolta la nostra predicazione”,
dice San Paolo (1 Corinti, 15-14). Certo, potrebbe sembrare irrazionale credere alla resurrezione. Però, a sostegno
della fede, che pur non necessita di
supporto umano, abbiamo due reliquie “parlanti”: il Sudario e la Sindone. Studiosi del Centro Romano di Sindonologia, hanno
accertato che il sangue del Sudario, telo posto sul capo di Cristo morto e che
è conservato ad Oviedo in Spagna, le cui
macchie sono indelebili, è realmente sangue umano e per di più il volto che vi
appare è perfettamente sovrapponibile a quello della Sindone, ma non solo, il
gruppo sanguigno, rilevato dai depositi ematici, in entrambe le reliquie è lo
stesso rarissimo gruppo AB, riscontrabile in appena il 5% della popolazione. L’Uomo del Sudario e l’Uomo della Sindone
presentano le stesse lesioni, le medesime fuoriuscite ematiche e di saliva. Il
racconto evangelico testimonia che sul capo di Cristo fu posto un sudario,
visto poi ben piegato nel sepolcro vuoto da Giovanni e da Pietro. I due panni,
le cui storie iniziano contemporaneamente, in seguito ebbero vicende diverse
tanto che ora il primo è conservato, come detto, nella cattedrale di Oviedo in Spagna e il
secondo a Torino. Il destino sembra ricongiungerli: il Sudario, popolarmente
detto telo della Veronica per una deformazione delle parole “vera icona” (vera
immagine), presenta gli stessi pollini di vegetazione palestinese rinvenuti
nella Sindone e il polline delle palme da dattero, il che confermerebbe il
percorso da Gerusalemme avrebbe portato il panno attraverso l’Africa
settentrionale. In più il telo di Oviedo, seppur ottenuto da un tessuto di
minor pregio, la cui tessitura è ortogonale e non a spiga, è contemporaneo a
quello della Sindone, nonostante il discusso metodo, e conseguente esito, della
prova del Carbonio 14 abbia datato il Sudario all’VIII secolo d.C. e la Sindone
al XIII-XIV. La spiegazione razionale c’è: è accertato che furono presi lembi
di rattoppi medievali e non il tessuto
originario. L’immagine del cadavere si è impressa sui due teli a seguito di una
radiazione protonica proveniente dall’alto al momento della resurrezione. Gesù è risorto e, di conseguenza, la nostra
fede non è vana. L’archeologia, la chimica, la biologia supportano la
veridicità di quella Storia scritta nei Vangeli. Per chi è un irriducibile San
Tommaso, quello del “se non vedo, non credo”, può bastare?
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