IL FALCIONE
Nel mezzo ai tanti attrezzi è
lì un po’ triste
il falcione che più profuma
d’erba;
ha perso la sua foga fra le
miste
ferraglie di cantina; anche se
acerba
la verzura del campo nelle
mani
callose di mio padre si
accendeva
dei riflessi del sole, ed i
suoi suoni
sembravano dei canti a
primavera.
Ora è lì, senza voce: una
bestia ferita,
accanto ad una cesta e ad un
barile.
Nemmeno ti risponde se lo
chiami.
La lama arrugginita pare cinta
da un’aria d’abbandono. Nel
cortile
l’ho portato, all’aperto, fra
i richiami
di paperi e galline. Riluceva;
mi sembrava felice; era una
spera.
NATURALE
È LA VALLE
Naturale
è la valle e la scogliera
in
questo luogo sperso tra i roveti:
segreti
riaffiorano dall’anima,
sana è
la vista e tanto largo il mare.
Non
appare che l’onda e l’orizzonte
da
questo monte sopra la città;
la
verità è al di là di quei confini,
oltre
il getto del faro,
il
caro faro che tanto ci dice
dell’umile
portata degli umani.
Vani
gli azzardi per capirne il senso
condannati
alla terra e ai suoi miraggi;
che i
raggi siano giusti a completare
la
voglia degli spazi oltre quel mare.
LA
PIENA DEL SERCHIO
Piove
a dirotto stamani, ed il Serchio
gonfia
il suo letto; è già nelle golene,
tra
gli alberi che invocano l’aiuto
frusciando
melanconici richiami
col
loro ciuffo sopra la corrente;
niente
risparmia l’acqua inferocita,
tutto
porta con sé, alla deriva.
Qui
dall’argine l’occhio si spaventa
a
mirare la potenza che sprigiona:
le
barche sradicate dai pontili
corrono
in grembo al grosso defluire,
e
ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie
si
rincorrono in gara verso il mare.
Mi
sposto, e vado svelto a miscelarmi
alla
furia spaventosa della foce.
Tira
Tramontana, se Dio vuole,
fosse
Libeccio chissà che inondazione.
Qui le
melme del fiume si accavallano
con
l’onde spaventate
che
sembrano opporsi a tanta furia.
Odori
di salmastro e d’acqua smossa,
di
erbe trascinate contro voglia,
mi
invadono narici. E mi confondo
con
tutto quel fracasso naturale:
divento
un ramoscello in mezzo al mare.
LA
SOLITUDINE DEL MARE
Sono
solo e l’inverno mi percuote
coi
suoi venti freddi e burrascosi.
Innalzo
le onde fino al sommo cielo
e le
porto alla strada per sbirciare
gli
addobbi di Natale. Ogni tanto
mi
vengono a trovare dei ragazzi
innamorati:
seduti sul pattìno,
allungano
lo sguardo, incatenati,
tra un
bacio e l’altro, fino all’orizzonte.
Mi
fanno compagnia. La solitudine
mi fa
pensare al mondo, al mio vagare,
mi fa
pensare ai giorni dell’estate,
ai tanti
corpi immersi dentro me,
alle
grazie di giovani fanciulle
che mi
lisciavano il corpo. Ora ricordo;
vivo
nel rievocare quei momenti,
mi
sento triste se mi torna in mente
il
pianto di una madre e il suo inveire
contro
la risacca, e la corrente,
che portarono via un figlio in fiore,
sperso
nei miei fondali. Ma a pensarci
sono
tanti i mortali sprofondati
nelle
mie cavità. Ora son solo;
alzo
le braccia al cielo e mi imburrasco
per la
forza di un vento che d’inverno
mi
assale con frustate. Se m’incontri
di
questi tempi ombrosi e nuvolosi,
quando
il respiro mio si fa più denso,
mi
vedi in piena angoscia. Tiro fuori
tronchi,
detriti, ciocchi e tavoloni,
spurgo
ogni cosa che mi porta il fiume
e
riempio la spiaggia di vestigia;
si
fanno le mie acque intorbidite;
trovo
la pace solo se la luna
frantuma
le sue chiome in tante scaglie.
Allora
mi riposo. Puoi vedermi
quando
arancio le guance e tingo il cielo
degli
amplessi fecondi che dal dentro
fuoriescono
per visualizzare
l’inquieto
stare chiuso dagli scogli
senza
poter sfuggire oltre le sponde.
Senza
poter capire, e mi tormento,
quello
che fuori esiste; e che mi è ignoto.
Vate mio, hai colto quattro perle dalla Silloge "I Dintorni della solitudine" e hai creato una collana di versi così belli che fanno tremare l'anima. "il falcione che più profuma d’erba;", ha assorbito la vita e la fatica di tuo padre, si è umanizzato e riposa abbandonato tra gli utensili da lavoro. Il mare, specchio della tua anima, condannato a vedere "la verità è al di là di quei confini", forse libero di non scorgerla, amico mio, di esistere nell'ebbrezza della libertà assoluta.. La piena del fiume a te caro, " Qui dall’argine l’occhio si spaventa / a mirare la potenza che sprigiona:/ le barche sradicate dai pontili", la forza del suo esondare, della Natura che si ribella e chiede al Serchio di 'bruciare'. E ancora e sempre il nostro mare, nel freddo dell'inverno, vastità azzurra che lascia vibrare l'ulissismo che è in te, pescatore di storie, di viaggi virtuali e reali, di dubbi: "Innalzo le onde fino al sommo cielo /e le porto alla strada per sbirciare /gli addobbi di Natale. Ogni tanto / mi vengono a trovare dei ragazzi /innamorati: seduti sul pattìno,/allungano lo sguardo, incatenati,/tra un bacio e l’altro, fino all’orizzonte." Immagini straordinarie, Nazario mio, echi di Prevért , dei "ragazzi che si baciano in piedi ... / Ed è la loro ombra soltanto che trema nella notte". Hai creato una Raccolta breve e in essa hai racchiuso la poesia del quotidiano, la capacità di superare ogni 'siepe' per inoltrarti nei meandri dell'infinito. Per dare anima agli oggetti, agli elementi del creato, ai gesti d'amore, che sanno nascere tra le bufere per rincuorare, per ricordare che i fanciulli inseguono le visioni con un terzo occhio che non ci è dato comprendere. Il tuo cuore palpita con ritmo di bimbo e conosce antidoti e risposte. Dopo questi versi potrei morire felice... e non ho nessun desiderio di morire. Sei Lirismo e Luce. Grazie di esistere. Ti tengo nel cuore!
RispondiElimina