Sulla poesia e sulla
tempesta del nostro sé
Orfeo e Euridice |
Spesso ci illudiamo di
essere dei registi. In realtà siamo coprotagonisti di alcuni spezzoni di un
film. Messi insieme, uno di seguito all’altro, fanno rivivere il romanzo della
nostra vita. Qualcuno prova a trascriverlo, altri ne distillano poesie, singoli
fotogrammi che, se accesi, illuminano tutto il film. Come quando non ricordando
di averne visto uno, ci basta guardare una singola scena per rammentarlo.
Capita nella vita di ciascuno, di vivere un’avversità, una condizione di
disagio o di disturbo che acuisce la percezione del limite, il senso della
precarietà della propria esistenza. Momenti in cui tutto sembra crollarti
intorno, e ti senti solo in un’isola deserta. Perdi tutte le sicurezze e cerchi
un approdo cui aggrapparti, a qualcuno o a qualcosa che ti dia tranquillità.
Da lì inizia una peregrinatio alla ricerca di chi o cosa possa far recuperare
fiducia e speranza. Spesso sei deluso da ciò che ti circonda. Chiudiamo gli
occhi, ma non è il buio. Avviciniamo l'orecchio all’aria e si ascolta il ronzio
di una mosca, o lo sferragliare del treno, lo schiocco di un fulmine, o il
rombo di un tuono lontano. Ci si ritrova a camminare nel labirinto
dell’immaginazione, del soprappensiero, con stupore, con sorriso, con spavento;
a osservare la fragile bellezza della vita, in equilibrio,sospesa sul filo come
quella di un funambolo. Ci si può sentire aggrappati alla parete di un burrone,
la roccia è scivolosa e le dita non sono più in grado di reggere il peso del
corpo. Ma di colpo, la parete a cui eravamo aggrappati si rivela
inconsistente, immateriale, nient'altro che un grumo di timori diventato
pietra, montagna. Anche la distanza abissale appare un'allucinazione. E’
il risveglio della fede, il credere ancora in se stessi, il destarsi da un
brutto sogno e sentirsi leggeri, felici di vivere. In quei momenti viene quasi
naturale esaminarsi, fare un viaggio dentro se stessi in una sorta di verifica
di ciò che abbiamo vissuto, di come siamo stati, o se abbiamo lasciato qualcosa
in sospeso. Il passato ci appare come un grande viale, fino ad allora percorso
quasi con spavalderia, senza rendersi conto della sua ampiezza e di tutte le
opportunità che forse sono andate perdute, per la fretta di andare oltre. In
tal modo perdendo di vista i particolari, la bellezza dei dettagli, le
sfumature, ai quali non abbiamo dato importanza. Mentre il futuro si presenta
come una strada che si restringe sempre di più fino a diventare un sentiero,
poi un crinale lungo il quale ci si muove a passi incerti, un piede dopo
l’altro per non fermarsi, e non rischiare di cadere. Una sorta di equilibrio
fra le due identità che convivono in noi: quella materiale e quella spirituale.
Un incontro con se stessi al crocevia delle dimensioni orizzontale e verticale
dell’esistenza. La pesantezza corporale, col suo carico di malesseri, di
rimpianti e di sensi di colpa e la leggerezza, quella dell’anima, forte della
sua unicità che rende unico e irripetibile anche il corpo, attraverso i dubbi
che aiutano a concepire la verità, a opporre la speranza alla disperazione, la
saggezza alla paura, l’infinito alla caducità, quasi in un volo senza ali.
Infatti la dimensione corporale non dà una visione nitida di ciò che viene
dopo, e la nebbia del dubbio e della paura ci avvolge col suo freddo, per
compensare il quale, spesso non basta nemmeno la coperta degli affetti. E ci si
ripiega su se stessi, ci si avvolge con le bende della propria solitudine. Si
vaga in quella nebbia che riesce quasi a frenare la nostra andatura,
infilandosi come una colla fra le suole delle scarpe e la nostra stessa ombra.
In quei momenti di disagio e di turbamento, l’unica decisione che si prende è
quella di rientrare in se stessi alla ricerca di una luce, di uno squarcio di
cielo che dissipi quella coltre spessa, e permetta di districare il groviglio
dei dubbi e delle paure. Entrare nella coscienza, tempio di Dio dove si può
ascoltare la Sua voce. Il ritrovarsi in contatto con quella misteriosa parte di
sé che da sempre è in umile attesa di essere cercata e che forse avevamo
lasciato inespressa e imbavagliata. In una sorta di abbandono troppo rapido
dell’innocenza, dell’ingenuità dell’infanzia per diventare adulti in fretta e
realizzare presto i nostri sogni, conquistare i successi, e toccare con mano i
desideri ai quali abbiamo legato i nostri progetti e le nostre aspettative.
Ecco che la vita allora appare come una confezione regalo, il cui involucro
degenera presto come ogni esteriorità, mentre l’attenzione si concentra sul
contenuto. E quando la scatola appare vuota, le lunghe dita della speranza
vanno a cercare le briciole rimaste incastrate negli angoli del fondo. Quei
frammenti prima senza importanza ma che portano in sé la stessa sostanza del
tutto e ne danno testimonianza. Un mistero personale che risale dalle sponde
dell’infinito che abita in noi. Basta affacciarsi al davanzale dei giorni per
osservarli, dentro e fuori di noi. Infiniti dettagli, piccole sfumature, mai
notati prima: occhi della creatività con i quali sono stati decisi e formati.
Trasmettono messaggi, secondo una logica materiale e immateriale. Dove niente
avviene per caso. Ecco che la poesia allora, diventa, almeno per me …un camminare sul filo del dire e non dire, è
reggersi in equilibrio tra l’alibi dell’interpretazione e la tentazione di
raccontarsi. E’ salire sul tetto della casa e guardarsi intorno fin dove lo
sguardo si può spingere e ascoltare la voce con cui parlano le immagini. E’ una
voce che viene da dentro, come da dietro una maschera, perché la poesia valica
le frontiere della coscienza. La poesia è fatta di pensieri notturni scritti su
un foglio di luce e dentro ognuna di esse, ci può essere un mondo intero. E’ un
bussare alla porta dell’ignoto, di quel mondo parallelo che il silenzio invade
come un despota e guida la mano come il pittore colora i sentimenti. E’ quello di ogni mattina appena aperti gli occhi.
Quello in cui si riversa il bisogno di scrivere. E’ il silenzio che appartiene
all'ombra più profonda e inesplorata, che spaventa tanto è grande, in
equilibrio sul filo dell'ultimo sogno che s'apre ai cori dell’ora blu, in
attesa del risveglio che s'incocca nelle balestre dei platani e s'amplifica in
megafoni di guazza. Sto seduto ad ascoltare la giostra dei richiami e il frullo
chiassoso degli uccelli, dietro i cancelli lucidi e ancora chiusi. L’anima, qui,
è una fontana di sospiri sgorgati dal petto e versati nel canto soffocato
dalla notte ancora addormentata. Lì, nell'ora in transito sul velluto che
scolora, spuntano i germogli del mio inchiostro. E’ lì, che mi vesto di parole,
e le amo per togliermi di dosso le bende della solitudine. Squame di tristezza,
sabbie di ripostigli in periferie abbandonate, ventri di follia, raspe di rami,
cespugli d’aghi, muri imbrattati di noia, e quella “tempesta del sé” che abbraccia ogni attimo eterno come un niente accoccolato
all'incoscienza. E’ lì che lascio crescere le unghie alle parole per scavare
nell’anima lunghi tunnel entro i quali infilarmi e avanzare piano, per non
perdere i sorsi che possono sedare
l’incessante sete di infinito.
Roberto Benatti
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