Carissimo
Prof. Pardini
È
stato un privilegio, per me, leggere i suoi tre libri “Le simulazioni
dell’azzurro”, “Scampoli serali di un venditore di arazzi”, “Dicotomie”. Una
preziosa testimonianza di arte e di vita.
Mi
hanno colpito la vastità della sua produzione poetica, la grande vitalità
creativa, l’ancoraggio alla memoria personale. La capacità di parlare all’anima
del lettore.
In un
tempo in cui proliferano poesie-prosa e testi senz’anima, ove la parola si
smarca dal soggetto e diviene fine a se stessa, la sua è una poesia sincera, diffonde
valori e significati, si attualizza e si rinnova nel cuore di chi legge.
Strada
facendo, ho sentito vicini alla mia sensibilità il fascino e “la ricchezza
della sera”, l’amore per le stagioni
(soprattutto l’autunno) e per quella natura che ci parla in mille modi. E’
stato un percorso intenso, volto a scoprire “l’ultima rosetta”, “i girasoli in
processione”, il verde che “esplode … poi a settembre … si concede all’ultimo tremore”, “l’antico
profumo di gramigna”, “il respiro acutissimo del mare”.
Molte
sono le poesie che mi sono rimaste nel cuore. Nel volume “Le simulazioni
dell’azzurro” ho letto liriche di straordinaria intensità. Cito “Piazza
Belvedere”, “Gente di casa mia”, “Giovinezza”, “Certe volte”: “Io fui con la
mia storia questa gente: / mi adirai soffrii amai percorsi lunghi tratti / con
lo sguardo rivolto a indagare”. Sempre porterò con me “Non è mestiere”: “Stare
a predare nella notte da soli / luminescenze a lampade di frodo / non è
mestiere per chi ama la vita”. Tra questi versi si coglie tutto lo spessore di un uomo e di un poeta.
Nel
libro “Scampoli serali di un venditore di arazzi” ho molto apprezzato gli
spunti meditativi in “Dichiaro di esistere”, “Vorrei tanto leggere il profilo”,
“Se l’aria ci è propizia”, vibrante colloquio con l’anima al cospetto del tempo
che scorre, oltre al ricordo vivo dei suoi genitori nelle liriche “La voce” e
“Per la morte di mio padre”.
“Dicotomie”
mi ha regalato gli interrogativi di “Esisto?”, la bellezza struggente di
“Testamento” e ancora sulle orme di quella memoria che s’apre al presente e al
futuro “Il potere dell’immagine”, forse la più bella poesia della raccolta.
“…Rinati / andremo contro il tempo. Torneremo / sul colle delle acacie, quando
l’astro / fermerà la caduta all’orizzonte”. Come a ritrovare il filo d’una
storia, il senso dell’esistere.
Di
grande impatto lirico ed emozionale i testi dedicati al mare: “Sul mare di
settembre”, “Colloquio con il mare” (“Dimmi, quindi, anche stamani / qualcosa
del colore / che ti frantuma a sera / qualcosa del tramonto, / per te solo
bellezza, forse / per me giorno che fugge”), “La stagione del mare”.
Ancora
in “Dicotomie” mi ha colpito il realismo vivo di “Beppe”, la sua storia, il
sogno infranto, la terra riabbracciata prima di morire.
Se il
poeta chiede alla morte “ritarda la meta di un attimo solo / che finisca i miei
versi” e lei acconsente, vuol dire che la poesia non muore, varca i confini,
congiunge questa terra e l’infinito.
Il suo
poetare, caro Pardini, merita i riconoscimenti che ha avuto per tanti motivi: è
umano, radicato nella terra e rivolto verso il cielo, riunisce mille aspetti:
ricordi, episodi del presente, elementi del mito, dolori e speranze. Nel segno
di una vita vissuta e amata.
Rieti,
3 novembre 2014
Anna
Santarelli
La ricchezza della sera
Sono di
nuovo da te dopo il viaggio. Lungo
viaggio tra
sirene e scogli
su mari in
bonaccia o gonfi di venti
che una sorte
ostile scagliò sulle vele
spesso
errabonde. Sono tornato alle tue mura
città che
mi contieni. Ti ricordi? Alla partenza
vibrava
d’incoscienza e voglia di conoscere il mio animo.
Le vele
profumavano di seta e le sartie
sapevano di
nuovo. Ora che torno vorrei tanto il tempo
per dirti
le mie gioie i miei tormenti:
naufragi,
ninfe maliziose, anfratti
ribollenti
di furie incastonate
nelle
schiume all’apparenza troppo chiare.
Tutto
questo vorrei dirti; tante storie:
incontri
con giganti, con fanciulle
allettanti
che tenevano il sapere
e per
quello avrei dato anche la vita. Torno
senza la
barca che spesso mi vide
combattere
nembi scompigliati.
Accompagna
i miei resti la nave pacifica
di un re
che mi fu amico. A lui narrai
le storie e
le leggende di quel corso
che prese
nei gorghi la mia gente.
Ritorno con
nell’anima lo sguardo
di una
fanciulla intenta al corredo
che giocava
spensierata a palla
sorridendo
con le ancelle. Torno a sera
zeppo di
vita, arricchito di genti di mari e città
che
colmarono in parte le mie voglie. E questa è la mia sera:
è un’ora
che lascia all’incoscienza del mattino
la ricchezza e i dubbi del
ritorno.
Gioia
eguale
è
l’ultima rosetta. Affaccia il volto,
selvatica e indifesa, lungo il viale
di foglie grigie, tumorose e spente.
Uno schizzo di rubino sull’incolto
e brunastro sentiero. Gioia eguale
sulla vita che scorre indifferente.
I girasoli in processione
In
processione i girasoli con le teste
coperte di
nero rapinano l’ombra.
Rattrappiti
dal sole, stanchi di luce,
respirano
il passire della terra
frugando
tra l’umore del settembre.
Erano acuti
i loro lampi,
sfidavano i
furti della calura.
Si
contraggono in autunno i girasoli. Borbottano
preghiere
in ampie schiere
a meditare
sull’aria che passa leggera.
Piazza Belvedere
Piazza
Belvedere, a sera, sul gradino
stavo
disteso immaginando il cielo
e i sogni
con voli fittizi senza esito
rischiavano
sconfini,
gli stessi
che fuggivo da bambino
nascosto
nell’ombra di notte
per paura
dei grovigli dell’azzurro.
Ficcavo la
testa nell’erba
che
ricordava profumi:
l’odore
stridente del grano,
delle
pesche giallo-luna appese al blu,
degli aghi
di un pino sopra la cimasa.
Ronzava in
sordina la fiaba
di un eroe
che sconfiggeva le distanze.
Stasera mi
sono disteso
sul gradino
di piazza Belvedere;
ho sperso
lo sguardo tra le stelle
annusando
l’odore di gramigna:
strade
bianche di polvere tra i cipressi,
chicchi di
maggio a gonfiare le spighe,
spolveri
perla dai rami degli ulivi
a spiovere
sull’ocra di giunchiglie.
Ho
ritrovato i brividi del vuoto
sillabando
una fiaba nella mente.
Gente di casa mia
Vanno alle
mèssi insieme i paesani
della mia
terra e dalle falci
percosse
dal sole che si leva
zampillano
schizzi di luce. Portano sulle spalle
il peso
delle case e non conoscono
letarghi
nei loro pensieri né sanno dei riposi,
ma a volte si soffermano alle brine
e le
guardano distratti che attendono il sole
per
svariarlo in brillanti prima di morire.
Poi, se c’è
gramigna all’aria dei pioppeti,
ci lasciano
le bestie a brucare
col fiato
azzurro attorno alle narici.
è questa la mia gente; è
senza nome,
risponde
solo se la chiami a soprannome;
lo senti
rimbombare in mezzo ai campi
gridato
dagli amici in un saluto
se tagliano
i viottoli tra i grani aperti al cielo.
Sono come
puntini tra il fiottare
del giallo
ricamato in modo tale
che
abbaglia a guardarlo.
Conosco i
loro pigli, i loro gesti,
conosco i
passi svelti del mattino
e quelli di
un ritorno che si attarda
calamitato addietro da un fisso pensiero.
Resta
sempre qualcosa da finire.
Se lo portano a casa,
nella testa;
ne parlano
a un tavolo di quercio
padrone di
una stanza che balena.
E con la
mente predicono il giorno
che
immancabile profuma di recisa.*
* Pastura
di fieno e erba fresca recisi insieme per le bestie da stalla.
Giovinezza
Una storia
indolente mi ovatta l’anima,
si adagia
sulle cose, ci si insinua pigramente
e avvolge
le strade giovanili
tra le
penombre della mia mente.
Mi riporta
le immagini delle ali
con cui
volasti per fuggire via
dall’inverno
incalzante. Io sono qui
Non ho più
il tempo di falcare i cieli
oltre gli
stretti spazi. Ora mi basta
che una
storia indolente mi accompagni
tra gli
alberi, le piane, i verdi prati
nell’ora
che si oscura. è sufficiente
mi parli
con il vento dell’erranza
ai margini
dell’ansia che ingrossavi
alle mie
attese. E forse non è detto
che non si
compia il miracolo. Riviverti
per me sarà
reale. E certamente uguale a farti mia.
Alla tua
immagine,
giovinezza,
perfino le petraie
avranno le
ali in questo gioco breve,
e la foglia
paziente
lascerà che
tutto accada,
prima che
il vento se la porti via.
Certe volte
Certe volte
sui nostri brevi spazi ho visto gente
indagare
sui misteri delle stelle;
altre volte
ho visto gente andare in cerca
di una luce
una speranza
sui
percorsi macchiati dalla rabbia;
e ne ho
vista delusa
da storie
di stagioni di promesse
o rinchiusa
nel sacco della notte
a ripetersi
il perché di tante storie.
Fame dolori
sofferenze. E gioie
sui volti
non segnati dalla vita.
Io fui con
la mia storia questa gente:
mi adirai
soffrii amai percorsi lunghi tratti
con lo
sguardo rivolto a indagare. Forse
dal sacco
della notte la mia mente
si smarrì
troppo lontano. Quanto meglio
sarebbe
stato accendere la luce
dentro di me a illuminare
l’anima.
Non è mestiere
Chiedo
soltanto che il sole
sciori
sulle cime dei monti
e che
l’aria appesantita dal buiore
si
ricarichi di lampi di luce.
Stare a
predare nella notte da soli
luminescenze
a lampade di frodo
non è
mestiere per chi ama la vita.
Se l’aria ci è propizia
Se
l’aria ci è propizia e se ridesta
il piano canti e zampilli di
luce
dalle sparute chiome; se la
mèsta
e madida campagna riconduce
il ricordo solare dell’estate
passata; se le foglie
penzolanti
e secche tornano a farsi
argentate
di un sole sfolgorante,
andremo avanti,
mia anima, avanti per mano;
andremo
tra l’ombre che non sanno di
sfumati
ricordi, ma di vita, vita
nuova,
anima mia. E sarà un estremo
fulgore di luce la nostra
alcova
a essere insieme rinati.
La voce
Rompevano
i crepuscoli il silenzio
di una stanza gremita di
persone:
giungeva dalla corte un dolce
assenzio
di brine e aromi erbosi di
falcione.
Mirare
mi era caro oltre quei boschi
il nascere di soli agli
orizzonti
ed il raccoglimento di quei
chioschi
conduceva il mio seno fino ai
fonti
di un fiume che scendeva lento
a valle.
Mi destava fragranza di pan
fritto
e la voce silente di mia
madre.
Rumori dalle greppie delle
stalle,
battere d’ali dal prunaio
fitto,
e verso il cielo il vólto di
mio padre.
Per la morte di mio padre
L’ultimo
respiro desti all’alba
stringendo nel palmo la mia
mano,
dopo gli stenti di una vita
scialba.
Erano desti i suoni del tuo
piano
e tu morivi in un grande
silenzio
come era nel tuo stile,
inosservato;
l’odore le mie nari
dell’incenso
mischiavano al profumo del tuo
prato.
Per
un’intera vita mi hai lasciato
della pelle il calore sulla
mia,
padre! Per fiumi, monti,
coste, e mari
ho corso, riposato, navigato,
tenendoti con me tutta la via,
togliendo il tuo silenzio dal
sagrato.
Esisto?
Ti ho
posto la questione tante volte!
Questa
mia vita,
questa
mia vita mia che cosa è mai?
Lo so
che vivo.
So
perfino
che
questo è proprio il tempo in cui esisto.
Ma è
casuale? o forse programmato fino a me?
Il
pensiero mi tormenta.
Perciò
dammi speranza, dammi luce,
perché
non è ch’io nutra gran fiducia
in
questa mia esistenza; è di un mortale.
Confonde
anche il fittizio col reale.
Io la
vorrei da Te, dall’Alto Cielo
la
conferma che esisto per davvero.
Testamento
Non voglio
il nome mio su una via,
o in una
piazza, oppure sulla casa
dove
abitai per anni come accade
quando
un poeta muore. Io voglio solo
l’effigi
di mio padre e di mia madre
su un
cortile povero e dimesso,
con una
falce in mano,
mentre
tagliano l’erba in mezzo a un prato
o
recidono il grano per il pane.
E quelli
di mia moglie e di mio figlio
li
voglio in alto, in cima a un grande tiglio
o a una
betulla o in cima a un grande pino,
perché
guardando in alto sopra il mare
pensino
sempre ch’io possa tornare.
Il
potere dell’immagine
Ritornerò
senz’altro in quel paese
dove
sciacquai la fronte,
dove la
vita scorre lentamente
fra
gesta paesane. Ove la gente
si ferma
ad ore a un tavolo di marmo
a
giocarsi il quartuccio. Tu sarai
ad
attendermi là su quella via
che ci
portava dritto a una collina
profumata
di acacie. Rifaremo
quelle
discese pazze tra papaveri
e code
cavalline. Siederemo
sul
prato d’erbe nuove a contemplare
i giochi
del tramonto mentre sfrasca
fra i
tremiti dei tigli. E pregheremo
il sole
che ritardi la caduta
e che ci
tinga l’animo ed il volto
del
sapore di sera. Sai!, la vita
è tutta
nell’immagine. È allora
che il
reale si tinge di emozioni;
gonfia
in petto, fino a implodere dentro.
L’esistenza
è tutta qui, se il presente
può
sfuggire al momento, quando immagine
si
attornia di un sentire che lo rende
struggente
e duraturo. È il suo potere:
assume
una gran forza se permane
cocente
dentro l’anima. Rinati
andremo
contro il tempo. Torneremo
sul
colle delle acacie, quando l’astro
fermerà
la caduta all’orizzonte
per noi
che tradurremo quell’immagine
in nuova
realtà. Tu aspetterai
su
quella via; saremo ancora insieme:
il
profumo di acacie,
il prato
d’erbe nuove,
e il
sole furibondo di colori
a
esplodere per noi dopo l’attesa.
Colloquio
con il mare
Mi trovo
qui davanti alla tua piana
frammentata
da scaglie ed azzannata
da
becchi di uccelli voraci
ed
insaziabili. Mare! Mio mare!
Quanto
mi sei vicino!
Tu che
vivi di rivoli di cielo
tormentato
e irrequieto.
Chiederti
qualcosa è sempre poco.
Ma
parlare con te dell’immenso
forse mi
è più caro. E stamani
la mia
voglia è quella di ammirarti;
tu,
eternamente instabile,
umano e
disumano.
Lo sai?
Se ti sono lontano,
ti sogno
come amico;
ti vedo,
alla mia assenza,
come
assenza di amore
della
donna che amo.
Ma torno
sempre eguale, quando torno,
sempre
poco,
davanti
a te che immenso mi rapini
e porti
via il mio seno.
Tu l’accarezzi,
lo invogli
a
sfiorare l’eterno.
Ma
quando scende a terra,
ancora
più ne soffre
di
questa sua miseria;
se torna
a rimirarti,
ancora
più ne soffre,
misurando
col giorno il tuo cammino.
Ed io ti
chiedo,
ti
chiedo del mistero,
ti
chiedo della vita,
tu che
contieni anni
che
ancora non parlavano:
di
quando la tua nascita?
da
quando il mio destino?
A volte
mi rispondi
ed io ti
ascolto
disposto
a fuggir via col tuo salmastro.
Dimmi,
quindi, anche stamani,
qualcosa
del colore
che ti
frantuma a sera,
qualcosa
del tramonto,
per te
solo bellezza, forse,
per me
giorno che fugge.
“I miei
pensieri, uomo, sono eguali
a quelli
che tu provi quando tenti
di
misurarti a Dio. Anch’io
vado da
un mondo a un altro senza pace,
né mai
tace
la
voglia né si appaga
di
copularmi al cielo. Solo a sera
mi
quieto in esplosioni
di luci
e di colori;
arancio
le mie guance
e mi
sprofondo
in un
riposo umano:
sogno
inquieto per te,
per me
solo riflesso di una luna
nel mio
perpetuo moto.”.
La
stagione del mare
Imbionda
l’elicriso sulle dune
tra l’arsa
tamerice ed il salmastro
brontolìo
della bàttima. Mi accosto
all’agave
fiorita. Di novembre
s’infiggono
campanule di latte
nell’azzurro
del cielo. A simulare
spavaldi
guizzi estivi c’è una vela:
taglia l’immenso
e scivola leggera
sull’acqua
color lauro. Manca Venere:
non esce
il suo fulgore incastonato
nel mare
di Zacinto. Vieni Adone!
Chiama
la dea audace in questo quadro
profumato
d’elleniche memorie.
Ma tu
non hai potere che in anemone
puoi
solo ricordare il pianto sacro
sulle
tue spoglie fattesi divine.
Questo
novembre pregno di marina
mi
avvolge e mi trascina in ricordanze
evase
dall’oblio. E ti respiro
mare mio
mare, autore di fuggiaschi
abbracci
giovanili. Non è l’ora
di
stagioni diverse. È una sola
la
stagione del mare. E se d’inverno
lo vivi
ancor di più il suo profumo,
lo senti
più vicino il suo colloquio:
ti parla
quando è solo.
Ancor di
più la sua parola incide
l’animo
mio disposto ad assorbire
la sua
voce profonda ed il suo grido.
Beppe
Amava
quella terra. La campagna
lo
riempiva di gioia. Era la vita.
Quand’era
solo in mezzo ai suoi raccolti
non
chiedeva di più. La mattina
indossava
i suoi stracci e al primo sole
prendeva
lo stradone per i campi.
L’accompagnava
un’alba d’erba nuova
che
usciva in fondo al monte a discoprire
la
vastità del cielo. Sprigionava
il
nascere fecondo della vita
collo
sfrecciare d’ali già veloci
al primo
accenno di luce, e diffondeva
il
sentore dei campi
che si
sposava al vento. E lavorava
ora col
maglio, ora con l’aratro;
e
lavorava fino a tarda sera
senza
sentir fatica. Era il tramonto
con i
colori spersi fra i cipressi
e i rami
degli ulivi a riportarlo
al
riposo di casa. E nella sporta
aveva
sempre un po’ della sua terra.
Il
figlio era operaio in una fabbrica.
Ed un
giorno
trasmise
al padre, per necessità,
il
grande cambiamento:
trasferirsi
in città.
Una
stradetta cupa dove a stento
penetrava
la luce.
In
quella strada l’alba non riusciva
a
scoprire il suo rosa. Né il tramonto
riusciva
a rivelare i suoi bei giochi.
Così la
sera Beppe andava in piazza;
da là
vedeva il cielo che gli dava
l’idea
della campagna
con
quello spazio vasto in mezzo ai platani.
Seduto
sulla panca
fissava
il giallo e il rosso del semaforo,
ricordando
la luna sulle mèssi.
Ne aveva
una gran voglia. Ritornare una volta,
anche
una volta sola a quei profumi.
E il
coraggio gli dette una gran forza:
zitto,
zitto inforcò la bicicletta e via di corsa…
(Era un
gran rischio. E lui ben lo sapeva).
Stanco e
col cuore peso, iniziò a fremere
quando
imboccò il viale. Sui riverti (*)
le gazze
becchicchiavano gli insetti,
e l’egrette
seguivano l’aratro
nell’attesa
del pasto. Fino al monte
s’apriva
l’orizzonte. Finalmente
rivide
la sua terra. Si sedette
sul
ciglio che per anni aveva visto
quell’uomo
sperso in cielo; si smarrì
fra i
frutti e gli uliveti, e perse l’ora.
Gli
stanziavano attorno quei piccioni
che
aveva in altri tempi custodito,
e lui
come saluto
simulava
di spargere granaglie.
Forse,
chissà, l’avevano aspettato.
Beppe
guardò la luna che di giorno
era
uscita per lui, di certo ben diversa
dal
semaforo seppur ben colorato;
e stanco
s’accasciò, portandosi nel cuore
tocchi,
profumi, e spazi
che
sempre aveva amato.
Era là
che morì. E non da solo,
era
riuscito a farlo sul suo suolo
in
compagnia degli alberi
e degli
uccelli in volo.
(*) Le due strisce di terra lasciate ai bordi dall'aratro
Questo è un tardo pomeriggio che si illumina, sugli scogli di Lèucade.
RispondiEliminaSi fa presto a dire pensiamo di meno al passato! Il passato, quando viene riproposto da una poesia che apre la luce, ci prende, ci imprigiona nel fascino di un "romanzo" in versi di un nuovo Odisseo, che non si vede, di cui non si fa il nome, di una leggenda di vita e di una vita che si fa leggenda, di un personaggio che però ti respira vicino, del quale "senti" il viaggio, l'approdo, il ritorno alla sposa abbandonata per anni e ritrovata, le "fanciulle allettanti", "ninfe maliziose" come Circe e Calipso, l'incontro coi giganti, il dolore arrecato a Polifemo in cambio della propria vita,un re amico e la figlia Nausicaa che gioca a palla gioiosamente sulla spiaggia, non puoi dimenticare che ciò che hai già vissuto ritorna con la forza non della leggenda, ma con la forza della vita vera. Ed ancora: " a lui ( "al re che mi fu amico narrai / le storie e le leggende di quel corso / che prese nel gorgo la mia gente") : non solo il tono raccolto quasi di un'elegia, ma anche quello quasi epico di una narrazione rivissuta sul filo delle memorie.
E' "La ricchezza della sera", della saggezza dell'approdo ad una "età" che ha raggiunto il senso ed il possesso della saggezza della vita, che ha conosciuto " il profumo della vela" e il ribollire dei marosi, l'urlo della bufera e l'ira degli Dei avversi! Quale sapienza compositiva e quale fascino coinvolgente nell'avventura di un'anima vivono in questa "ricchezza della sera", che non è solo la ricchezza della vita, ma la sera che chiede giusto ristoro dopo le traversie di un'esistenza piena e avventurosa per l'amore e la sete del sapere. Ogni volta, sullo scoglio di Léucade, rivivo di riflesso la bellezza e il fascino della poesia di Nazario Pardini. Ogni volta devo notare come il mito rivive in noi, oggi e sempre. Complimenti, dunque a Nazario Pardini e ad Anna Santarelli, che ha saputo mirabilmente selezionare e fondere i versi fascinosi di Nazario.
Umberto Cerio
Carissimo amico, grandissimo poeta, e saggio scrutatore delle vicissitudini umane, incarnate in miti di freschi ricami. Come competere con tanta generosità esplorativa, con tanta sapientia vitae. La tua vis creativa e la tua parola, intrecciate in nessi che non possono mai estraniarsi dal dire poetico, fanno impallidire i miei umili canti. Da brividi il tuo commento. Uno di quelli che agguanta la presa e non la molla come il morso di un dobermann, o meglio ancora, come l'abbraccio di una terra che ti ha visto nascere, crescere e volare.
EliminaGrazie, amico, delle tue ineguagliabili vertigini verbali, che arrivano, come pallottole, a spaccare il cuore.
Nazario
Grazie al Prof. Umberto Cerio, il suo pensiero è sempre incisivo e delinea grandi orizzonti.
RispondiEliminaAnna Santarelli
Trovo, con vero piacere, pubblicato sul blog questo scritto della mia concittadina e amica, Anna Santarelli, con la quale in più d'una occasione abbiamo condiviso incontri poetici.
RispondiEliminaOra, sono lieto di leggere le sue belle parole sui tre libri di Nazario (li conosco molto bene, e "Dicotomie" ha anche la mia prefazione); parole che fanno chiaramente intendere quanto coinvolga la poesia di Pardini e quanto la stessa sia profondamente penetrata nel cuore di una poetessa sicuramente autentica.
Grazie, allora, Anna: anche per far sapere che Rieti (perdonino i lettori la nota campanilistica) può dare il suo apporto alla causa della poesia.
Sandro Angelucci
Grazie, Sandro. La poesia è un filo sottile e tenace che unisce gli uomini, un sogno che veicola speranza, al tempo stesso un punto di partenza e di ritorno.
EliminaGrazie al Prof. Pardini, poeta sensibile e generoso.
Anna Santarelli
grazie a Sandro per il suo generoso commento e a Anna Santarelli per la sua profonda esegesi alla mie poesie che ho riunite antologicamente per dedicargliele.
RispondiEliminaNazario