Maria Luisa Daniele Toffanin
PROSIMETRO
Prosimetro.
Una storia, una vita, una preziosa avventura di canto e meditazione; di affetti
e incontri; di vicissitudini di rara valenza memoriale. Sarebbe lungo
dissertare su questo antico genere letterario che affonda le radici nei
primordi della nostra letteratura e
vanta nomi di grande prestigio: da Severino Boezio a Brunetto Latini, da Dante a
Boccaccio…fino a Dino Campana (Canti orici), e a John Ronald Tolkien (Il
signore degli Anelli). Insomma un
equilibrato connubio di prosa e poesia. E qui c’è proprio questo ensemble
misurato e compatto; proporzionato e lirico di una scrittrice che ha fatto
della vita un serbatoio da donare alle richieste del canto. La Toffanin si
narra a vele spiegate; racconta un mondo di episodi da storicizzare; da donare
ad una poesia fresca e cristallina, maturata su abbrivi di intima valenza; su
valori che sempre l’hanno distinta: fede, amore, gioie e melanconie, naturali
messaggi di simbolica struttura esistenziale; il suo canto è di una euritmia avvolgente
e convincente, di una sonorità che fa da
appoggio a tanta esplosione umana. D’altronde molte sono le connessioni
epigrammatiche che vengono a galla e chiedono di tornare a vivere: la Nostra dà
loro la forza della narrazione e della poesia. Quello che si ripropone è di
tramandare ai figli, ai nipoti, alla storia fatti e vicende succedutisi nel
corso degli anni, tormentata dal fatto che così importanti avvenimenti possano
essere ingoiati dalla insaziabilità dell’oblio. LA STANZA ALTA DELL’ATTESA FRA
MITO E STORIA, il titolo di questa miscellanea. Si inizia da una splendida
lirica dedicata alla sua Padova:
Mia
città dell’utopia
mondo
limpido di gente fida
il
sentire sincero umile
pur
d’interiore spessore
gli
occhi non baluginavano
ancora
d’arroganza.
“Nacqui nella stanza alta sotto l’ala della Madonna
azzurra, non quella di Antonello ma opera di anonimo ceramista, dono di nozze
ai miei genitori per la camera degli sposi, non di Mantova, del Mantegna, ma di
Padova, centro storico, via Aristide Gabelli 15. Nacqui nel letto grande ove si
compie il rito dell’amore, nasce la vita nuova e l’ultimo respiro si spegne…”,
confessa la Toffanin. La prosa si fa lirica, poeticamente intrisa di un’intimità acchiappante, per lasciare spazio a La madre vestale della casa, dove
rispende la calda voce di un’anima tutta volta a ritrovare se stessa e il mondo
primigenio di antiche figure familiari. Sacre
lettere scrigno, bombe mortali, casa
gomitolo di speranza, sollievo di amicizie, la vita di via Gabelli,
stanze amicali, luoghi mitici, presenze sbiadite dal tempo, zii Leone e Nino…
tutto si muta in immagine; una realtà vissuta che, col tempo, ha assunto lo
stato di grazia per fioriture liriche.
(…)
E nel periodo magro
postbellico
era già festa
l’andare insieme uniti
sostare in sincere
parole e saluti
in slarghi
d’amicizia sempre allargati.
Ancora all’ombra dei
portici nelle piazze patavine
alitano echi di voci
autentiche riverberi
di questo ardore
riacceso dal ritrovarsi vivi
nella vita rinata a
un’aria frizzante di attese.
Vagare nel travaglio
della memoria
non è poeta ricerca
del tempo perduto
sofferta nostalgia
del passato fioritura non più rifiorente
ma ricupero di
calchi da calcare, cifra di un vivere altro
per quelle presenze,
oggi conforto al dopo
cum-divisione di
gioia e dolore
per una nuova umana
dimensione.
Persino
le cose negative, trafitte dalle frecce di un ritorno memoriale, assumono
connotati di poetica valenza; di ontologica commistione scaldata da una saudade
che si impadronisce della mente dell’Autrice. Un nostos di empito umano che
attraverso un mare non sempre liscio riesce ad approdare ad un porto di luce e
di speranza: “… Ci
ritrovammo in un’altra Stanza bassa a
raccontarci ancora la vita in un cratere indicibile di attese, con un
patrimonio già consolidato di amicizia, cultura, bellezza, accumulato in tempi
non facili. Inevitabili le nuove difficoltà, superate poi nel tempo che sempre
tutto leviga e risana. Però è vero, facevano bene loro, i grandi, a credere nei
miracoli!”. Quei miracoli che fanno della vita un patrimonio unico e prezioso
di cui la Toffanin è cosciente e di cui si convince sempre più a mano a mano
che la narrazione si fa zeppa di fatti e di emozioni; di raccolte intimità
familiari che il tempo con le sue fauci a poco a poco ci sottrarrebbe se non
cristallizzate in pagine di storia:
(…)
La
Befana! Fu esplosione muta del gruppo.
Apparizione
solo di un attimo
infinito
poi scomparsa.
Un
sogno? Un’emozione unica
intima
e corale
che
per i cugini smaliziati
fu
segreta domanda sulla realtà.
Ma non
conta risposta
fu il
vissuto insieme nell’ora più tarda
fu
l’inatteso di un’attesa rituale
che
lasciò dentro per sempre
un
insieme di gioia e turbamento.
Tanta poesia, tanta storia e tanta confessione emotiva
fanno di quest’opera un approdo di forte connotazione umana e artistica a cui
la Nostra è pervenuta dopo anni di lavoro e di creatività; pagine di vera
intuizione dove la memoria si fa protagonista sfornando episodi da conservare;
da tramandare per la loro epicità: (Nazario Pardini)
L’AMICIZIA SCORREVA PER LE ANTICHE VIE
L’amicizia scorreva come luce
per le vie antiche più oscure della
città
e riaccendeva le piazze ariose e
luminose
ove gli incontri più frequenti
s’allargavano
per desiderio così vivo dell’insieme
per quell’aria lì di famiglia respirata
nobilitata dal palazzo della Ragione.
S’innalzava come faro nell’abside di
Santa Sofia
ove l’amicizia si faceva preghiera
intorno al monsignore Pierobon
don Pietro e la sorella Letizia
stretti a tutti noi parrocchiani.
Lì al vento di guerra
si erano sposati i miei genitori
lì il mio fonte battesimale
la mia prima comunione
i miei giochi piccini bambini
sotto l’occhio esperto della Letizia
che sulle nostre orme sempre nel grande
giardino all’ombra dell’immenso noce.
Ma il legame più forte fra tutti noi e
monsignore
fu il nipote Luigi giovane cattolico
universitario
anima della resistenza fucilato con
altri partigiani
fu quel mito ancestrale del dolore
che abbraccia gli uomini per sempre
e si fa memoria eterna più del nome
dato ad una caserma.
DAL TESTO
La silloge è così
divisa:
1-
Rituali in cui si formò un’anima
2-
L’attesa
3-
Luoghi-persone
4-
Giochi e stupori
LA STANZA ALTA DELL’ATTESA
FRA MITO E STORIA
A mia madre Lia e a mio padre Gino
in Padova la mia città natale
Grazie, Paola, ho
ascoltato i tuoi consigli. Allora, nel lontano novembre del 2009 al palazzo
Panciatichi a Firenze, mi avevi sollecitato a raccontare l’origine della mia
creatività. Con me presentavano le loro esperienze anche Isabella Horn
Baldelli, Cristina Morandi e Laurana Barra. Ed io a dire con entusiasmo e
verità a voi di Sguardo e Sogno alcuni squarci del mio passato evidenziato in
alcune poesie lette in quel momento. E voi a seguirmi con simpatia e
partecipazione tradotte, cara Paola, nel
tuo invito a continuare quel racconto per iscritto. Ora, sulle orme di quell’intenso
pomeriggio e delle tue parole, ho tentato qui l’impresa, iniziando dalla Stanza
Alta, luogo della mia nascita in via Gabelli 15 a Padova.Sono andata così a
ritroso nel tempo mitico dell’infanzia e ho ritrovato la mia minuta vicenda
inserita tra le pagine del secondo conflitto mondiale proprio nel carteggio fra
mio padre e mia madre risalente a quel periodo. Ho sentito allora di
appartenere all’universa famiglia nelle mie prime attese sospese fra mito e
storia.
I
parte
RITUALI
NELLA GRANDE ATTESA IN CUI SI FORMÒ UN’ANIMA
PADOVA
Mia
città dell’utopia
mondo
limpido di gente fida
il
sentire sincero umile
pur
d’interiore spessore
gli
occhi non baluginavano
ancora
d’arroganza.
Nacqui
nella stanza alta sotto l’ala della Madonna azzurra, non quella di Antonello ma
opera di anonimo ceramista, dono di nozze ai miei genitori per la camera degli
sposi, non di Mantova, del Mantegna, ma di Padova, centro storico, via Aristide
Gabelli 15. Nacqui nel letto grande ove si compie il rito dell’amore, nasce la
vita nuova e l’ultimo respiro si spegne. Letto custode di memorie delle nonne,
delle mamme, della vita e della morte. In quel letto spirò mia madre in una
dimensione ancora estetica, se si può
dire con Raboni della morte, fra le braccia figliali, le mani strette in quelle
del nipote, il cuore gelido come il torrente d’inverno. Mio padre morì ogni
giorno un poco in un letto altro chiuso in una morsa tecnologica quando solo
gli occhi parlano e la parola non ha più fiato. La vita e la morte strette
insieme anche per chi cavalca ogni giorno destrieri d’invenzioni non per
sentirsi vivi ma per sfuggire la morte stessa. Bene, nacqui forse alla luce del
mattino, ora meno grata alla mia vista ma ricercata per tutta la vita, fra le
premure di donne amiche, la Jolanda per prima, e l’ostetrica più famosa. Nacqui
all’ombra sacra della romanica chiesa di Santa Sofia, in una casa aperta
all’attesa ancor più in quel periodo bellico quando l’assenza paterna si dilata
per ore e giorni, anni di sofferta speranza che stringe tutta la famiglia in un
cerchio di preghiera, conforto, aiuto. E l’amicizia si erge come un grande
albero che dà ossigeno e rifugio.
MADRE MIRACOLOSA MADRE
La madre vestale della
casa
tenuta viva dalla sua
speranza
la mia vivace presenza
piccina
da antiche figure familiari
succhiava attimo per attimo
l’attesa del paterno ritorno
nel salotto buono ricuperato
rifiorito da interiore
sua linfa
dopo la fuga nella
campagna veneta
alla bellica urgenza
l’attesa dello sposo dai campi
imici
a lei stretto da un rosario epistolare
d’amore dolore premura
a me, stella piccina
che accendevo il vuoto
dell’ abbraccio
ispiravo al padre
tenerezza quale
una bambola in dono il
giorno compleanno.
Madre miracolosa madre
col padre assente
universo di luce riflesso
nella mia vita Sempre.
In sillabe ambrate d’eterea grafia
da devote mani serbate
in sacrari di memoria
si riconferma, padre, altro tuo tempo
sotto quei cieli plumbei
solo
da neri corvi solcati
per magia d’amore
mutati
in candide colombe
rassicurante voce del
tuo esserci là
alla sposa-madre. Sola.
In sillabe riemerse oggi, 29 marzo
palpita di tenerezza
il tuo sogno-dono dal segreto spazio
di una bambola coperta di baci
per me piccina ancora
nata al vento marzolino oggi, allora.
L’anima
in altra età
brivida
ora all’emotiva visione e
subito
s’addensa in stupore
suonando
note meditanti.
La vita piccina fra voi rinsaldava
nel vuoto dell’amplesso
la melagrana succosa dell’amore
quella stagione felice dei fiori
sacro profumo sull’altare di Dio
radicava quale tenace virgulto
nella passiva resistenza imica.
La
vita piccina-comune linfa interiore
stringe
avvicina oltre l’umano confine
nell’orizzonte
infinito del cuore
in
albe tramonti odorosi di primule e viole.
Campo di Benjaminow n. 5437- 1944
(...)
“Ti scrivo questo mio grazie commosso per affermare ancora una volta il tuo spessore di uomo, poeta e critico. Caro Nazario, amico unico, sincero e premuroso ti devo gratitudine per il tempo, l’impegno, la fatica di cui mi hai fatto prezioso dono. Hai espresso la tua testimonianza al mio Prosimetro con tale coinvolgimento e competenza come solo i grandi critici e gli animi puri sanno fare. Ti sono grata per la tua amicizia e presenza sempre nella mia poesia. Maria Luisa Toffanin”
RispondiEliminaCon affetto