Maria Grazia Ferraris, collaboratrice di Lèucade |
Maria
Grazia Ferraris. Marina Cvetaeva. Ma non
è forse anche l’amore un sogno?.
Macabor Edizioni. Rende (CS). 2018
Una
preziosa figura quella di Maria Grazia Ferraris che nel panorama esegetico-letterario
attuale occupa un posto di rilievo per numerose
pubblicazioni (poesia, narrativa, saggistica) incise in cartaceo o online. Dai
suoi numerosi interventi sul blog Alla
volta di Lèucade, di cui è assidua collaboratrice, e da quelli su altri
importanti siti, possiamo ricavare una
connotazione precisa dei suoi intendimenti poetici e linguistici. Non è di
certo simpatizzante di una poetica basata sulla riforma prosastica del verso
che avrebbe voluto egemonizzato la poesia
italiana del tardo 900. Né tanto meno del correlativo oggettivo di stampo
eliotiano vòlto alla spersonalizzazione, allo annullamento delle emozioni
memoriali, o a qualsiasi ingresso di natura autobiografica. Il suo mondo ruota
attorno ad una visione panica dell’universo poematico, attorno alla
concretizzazione dei turbamenti soggettivi in figure naturistiche di cui si mostra
e si è mostrata conoscitrice attenta ed esperta. Insomma un mondo contrario a
quello di cui sopra, intriso di soggettivismo e di subbugli esistenziali
cristallizzati in sinestetici allunghi non di rado di classica positura classico-formale.
A conferma credo sia utile riportare qualche stralcio tratto dai suoi scritti
su Lèucade:”… Il vero problema mi pare sia quello di interrogarci sul
tema più sotterraneo, più culturalmente intrigante dell’identità e
dell’autenticità, tema che sta alla base del romanzo, e che si deve pur
affrontare convivendo con le modernità esasperate, mutanti e rutilanti della
globalizzazione…”,”… È proprio la necessità di trovare un senso ai nostri
incubi quotidiani, alle nostre paure, nelle promenade europee, o tra la polvere
dei bombardamenti siriani, che la letteratura scava di nuovo nelle sue origini
per cercare una spiegazione che può essere la ciclicità della storia, o il
fatto che l’umanità è irrimediabilmente piccola, feroce, vendicativa, ma capace
anche di gesti nobili, di amore e sacrificio…”, “… Stanno andando in fumo anche i ricordi, una parte
della giovinezza di ognuno di noi, la memoria di serene camminate nel
bosco, le albe celesti al Forte di Orino, i tramonti dal Sacro Monte, il
fruscio delle chiome dove lo scoiattolo corre felice, i fiori di montagna, le
prime primule, le peonie selvatiche e le centauree dai colori solari… L’inferno
dantesco offrirebbe a costoro una buona varietà di scelta di sistemazione
…invece non so odiare, so solo dolermi, sentire una malinconia infinita, una
tristezza amara per un paesaggio perso, morto, per una solitudine pacificante
ricca e riposante di vita in armonia con l’ambiente che è stata
snaturato.
La natura violentata. Che tristezza!”. E a proposito di una mia
traduzione di LE CIEL EST PAR DESSUS LE TOIT di
Paul Verlaine: “Una splendida analisi che tocca, attraverso la conoscenza
sicura della lingua d’origine, sottigliezze, profondità, ritmicità della
stupita sbigottita disperata voce poetante, e la musica ripetitiva, ossessiva,
ma senza enfasi, della vita che ci sfugge.
Il modello di scrittura dell’Autore è profondamente vicino a quello del Traduttore- è semplice, classicheggiante, limpido e spoglio: è il linguaggio della verità-nuda- in cui si esprimono le ferite di una vita lacerata”. Si potrebbe continuare all’infinito considerando la generosità creativa della Nostra. Perché questa lunga premessa prima di affrontare il nocciolo della questione: la vita, l’arte, l’amore, la storia, l’intima vicenda di una grande scrittrice russa quale Marina Ivanovna Cvetaeva? Conoscere il metodo, lo stile, la direttiva di cui un critico si avvale per un’analisi autoptica credo sia indispensabile. E la Ferraris è senza alcun dubbio il critico più adatto per farlo, prima di tutto perché lei attenta riscopritrice di figure femminili in campo letterario, poi perché la sua scrittura non si perde in rocamboleschi tecnicismi che tendono più a confondere il lettore che ad altro. La sua penna sa cogliere l’essenzialità del personaggio; e lo fa con la sensibilità della poetessa; e penso che se nell’analisi di un testo un esegeta oltre a essere tale è anche poeta i risultati siano sicuramente più rotondi. Veniamo dunque all’opera presa in esame: Maria Grazia Ferraris. Marina Ivanovna Cvetaeva. Ma non è forse anche l’amore un sogno?. Macabor Editore. Rende (CS). 2018. Si legge in quarta: “… Nel saggio si riflette sul grande tema dell’amore che la caratterizza in modo originale, coinvolgente, anticonformista e drammatico, ma anche sul teatro che fu l’interesse dei suoi anni giovanili”.
Il modello di scrittura dell’Autore è profondamente vicino a quello del Traduttore- è semplice, classicheggiante, limpido e spoglio: è il linguaggio della verità-nuda- in cui si esprimono le ferite di una vita lacerata”. Si potrebbe continuare all’infinito considerando la generosità creativa della Nostra. Perché questa lunga premessa prima di affrontare il nocciolo della questione: la vita, l’arte, l’amore, la storia, l’intima vicenda di una grande scrittrice russa quale Marina Ivanovna Cvetaeva? Conoscere il metodo, lo stile, la direttiva di cui un critico si avvale per un’analisi autoptica credo sia indispensabile. E la Ferraris è senza alcun dubbio il critico più adatto per farlo, prima di tutto perché lei attenta riscopritrice di figure femminili in campo letterario, poi perché la sua scrittura non si perde in rocamboleschi tecnicismi che tendono più a confondere il lettore che ad altro. La sua penna sa cogliere l’essenzialità del personaggio; e lo fa con la sensibilità della poetessa; e penso che se nell’analisi di un testo un esegeta oltre a essere tale è anche poeta i risultati siano sicuramente più rotondi. Veniamo dunque all’opera presa in esame: Maria Grazia Ferraris. Marina Ivanovna Cvetaeva. Ma non è forse anche l’amore un sogno?. Macabor Editore. Rende (CS). 2018. Si legge in quarta: “… Nel saggio si riflette sul grande tema dell’amore che la caratterizza in modo originale, coinvolgente, anticonformista e drammatico, ma anche sul teatro che fu l’interesse dei suoi anni giovanili”.
Siamo di fronte ad un’artista che fa della
modernità un campo di battaglia a tutto tondo: a livello linguistico e
ontologico. Personalissima nello stile, nei sentimenti contrastanti, consegna
alla iperbolica metaforicità tutto il malessere esistenziale, il magma di
dicotomica effervescenza. La Ferraris, col suo stile fluente e generoso, con la
sua analisi pervicace e penetrante, riesce a mettere in luce il potente
risvolto emotivo di Marina Ivanovna Cvetaeva che ha vissuto l’amore e la
dittatura col sacrificio della vita. Un vero dramma focalizzato con arguzia esplorativa da un critico che dona il suo
ingegno ad una ricerca attenta e produttiva, volgendo lo sguardo soprattutto al
genio femminile; a quelle scrittrici non di rado dimenticate, pubblicandone sul
nostro blog le vicende umane e letterarie con risvolti di estrema originalità.
Marina
Ivanovna Cvetaeva (1892 – 1941), povertà, giovinezza, dolore, amore, male d’amore;
amore che chiedeva ad ognuno come prova del suo esistere. Un sentimento plurale
e proteiforme come la sua arte autobiografica; esponente di spicco del
movimento simbolista. Dissidente dello stalinismo emigrò a Berlino, Praga,
Parigi, poi tornò a Mosca. Inviata in un campo di lavoro del regime si impiccò.
La sua arte la colloca in un movimento simbolista ma di un simbolismo tutto suo, le cui radici derivano
da contaminazioni Puskiniane, soprattutto nel motivo del nonamore: “e con
questo mi sono condannata al nonamore…”. Un animo complesso articolato fedele e infedele, artista di una
modernità ossessiva che ha fatto del suo messaggio erotico un motivo di vita:
l’assenza, la passione degli assenti: “io posso amare solo la persona che in
una giornata di primavera a me preferirà una betulla”, afferma.
Il critico prende in esame i vari aspetti della
produzione di Marina Ivanovna Cvetaeva nei tempi in cui si è manifestata: La vita intellettuale durante la
Rivoluzione…, Il ragazzo (il Prode, Mòlodec), Il tema d’AMORE. Il “fuoco
gelido” di Marina, Le figure mitologiche femminili di Marina…, “Ma non è forse
anche l’amore un sogno?”, Il cerchio che si chiude: Il Teatro di M. Cvetaeva. Ma
quello che emerge dal saggio è l’amore come punto focale, direttiva, filo rosso
che fa da motivo centrale di tutto un percorso
artistico e umano. E che cosa di più emblematico nella vita che questo
sentimento plurale e polivalente: simpatia, odio, gelosia, vendetta,
sperdimento totale, volo in mondi altri… Insomma tutta la gradazione degli
stati d’animo che fa dell’uomo un essere vivente; un poeta; un narratore; un bohemien… E per dirla
con Platone: “… al tocco dell’amore ognuno diventa poeta”. Si inizia con una
perlustrazione storica sulla vita intellettuale russa durante la Rivoluzione:
Vladimir Ja Propp e i suoi Canti popolari
russi. “… Propp sfata l’idea comune
secondo cui l’universo della fiaba sia il luogo della pura fantasia e della
libera creatività, dimostrando l’esistenza di precisi criteri di composizione
narrativa”, scrive la Ferraris. L’amore di Marina per il folkrore russo. Il
Prode e la favola di Afanas’ev intitolata Il
vampiro. L’autobiografismo di Marina. “Il grande tema dell’amore.
Desiderato, sognato, forse mai vissuto nella sua interezza…”. Poesie e poesie
fino agli apprezzamenti di Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak che la definì
“una donna dall’anima mascolina, risoluta, guerriera, indomabile…”. “Si deve
soprattutto a Josif Brodskij che l’ha indicata al mondo per l’avvenire, se essa
non sarà più pallida eco”. Si prosegue con: Il
racconto di Sonecka, l’attrice nella compagnia del Terzo studio di Mosca:
il rapporto tra donne. Giovinezza, memorie, amicizia. “Il racconto di Sonecka è
la storia di un amore che trae la sua bellezza e grandezza nel non essere mai
compiuto, mai fisicità”. Si disserta sul rapporto tra donne, una sintesi di
anime e corpi perfetti. Il tema è trattato nella sua compiutezza spirituale nell’opera sopra citata
e in Lettera all’Amazzone, con tutta
la forza di immagini e intuizioni “destrutturate dal reale”. A Nathalie
Chifford-Barney, che faceva
dell’abbandono alle passioni un modello estetico di vita, Marina
contrappone l’ineluttabilità della natura procreatrice, dacché per lei il vero
rapporto è ultraterreno: il sogno, la lettera. Nel 1912 Marina sposa Sergej
Efron, vivendo un sentimento romantico e di esasperata sensibilità. Succederà
la sua delusione esistenziale che confesserà all’amica Anna Tesskovà: “un
matrimonio precoce (come il mio) è una vera e propria catastrofe…”. Mentre
rivela a Pasternak che non potrebbe vivere con lui non per le incomprensioni
per la comprensione…”. Un animo di tale complessità esistenziale, il suo, da
fare della vita un serbatoio continuo per l’arte della scrittura. Sempre
rivolgendosi a Pasternak “… Tu sei sepolto dentro di me come l’oro del Reno”.
Nel ’31 lo scrittore lascerà la moglie per un nuovo amore. E Marina si fa da
parte, ma tanti i suoi amori che hanno determinato momenti di vita basilari per
le sue opere. Quello con Kostantin
Rdzevič a cui la Cvetaeva dedicherà molte liriche e soprattutto Poema della montagna e Poema della fine.
Ma quello che alla fine prevarrà nell’animo
della scrittrice sarà una noia divorante; una noia che la porterà ad una
solitudine la cui sola compagnia “il suono della (tua) sua voce stessa”.
Sentimenti, passioni, ricerca spirituale
dell’essere, malum vitae… tante le combinazioni ontologiche che troveranno substantia
in una specie di mito che Ella prova per se stessa; una mitologizzazione
esistenziale che trova posto nel mito classico di Psyche più volte ricorrente nel suo canto; e Teseo, Arianna,
Fedra, Ippolito: l’universo del mito classico fa parte della maturità poetica
della poetessa:
scendo
– stordita – senza ringhiere
scala
infinita.
Arido
sbirro, il sogno rovista
i miei
misteri, spenti,
…
Morfeo misura i cuori…
vigile
aviatore sulla città nemica-
l’anima
sorvola il sogno…
confessione
immortale, il sogno rimesta
tutti
i mei segreti…
Sogno come alcova, come slancio, come riserva
di ideali, di sconfitte, ma anche di voli verso mete impossibili per il potere
della vita. E’ attraverso il sogno che Psyche si reifica.
A
letto vado
come a teatro, per sognare:
per
vedere il paradiso
di
Dante, l’elmo sacro di Achille,
per
non vedere il massacro
della
vita, i muri, il peso…
Anche fuga verso personaggi mitici che
incarnano ideali, nel suo mondo solo e soltanto taciti ideali; solo e soltanto
voglie di un amore impossibile per lei destinata alla sconfitta e alla gloria.
Nella stessa attività teatrale è sempre l’amore
a tirare le fila della sua arte. Casanova è la formula del XVII secolo, un
parallelismo tra la distruzione di un’epoca per la Rivoluzione francese e di
quella russa per il neonato potere rivoluzionario sovietico. La tormenta, Un’avventura, Il fante di
cuori, L’angelo di pietra, un racconto del ciclo romantico. Fino al lamento
di Casanova : la vecchiaia, la perdita dell’amore e della vita… E ci
si accosta così all’epilogo di un dramma umano e psicologico di una scrittrice
che del rifiuto di eros ha fatto un motivo di vita. La parabola si chiude
proprio con l’ultima poesia dedicata al poeta Arsenij A. Tarkovskij:
Ho apparecchiato la tavola per sei…”
uno
hai dimenticato: il settimo.
Sui
volti rivoli di pioggia.
Come
hai potuto dimenticare il settimo
-la
settima invitata?...
Non si
divertono al tuo tavolo.
E’
oziosa la caraffa di cristallo.
Loro
imbronciati, tu pieno di mestizia,
ma più
di tutti io-
non
invitata!...
Hai
apparecchiato il tavolo per sei:
con
solo sei- sei solo al mondo…
Non
sei nessuno tu: marito, amico, figlio,
né
fratello, ma non ti perdono:
al tuo
tavolo pronto per sei anime
non mi
hai lasciato neanche un angolino.
D’altronde non si poteva chiudere che con il
messaggio di epigrammatica tensione, di autobiografica intrusione di una
scrittrice che ha fatto della sua arte la narrazione di un dramma esistenziale.
Nazario
Pardini
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