BREVI RIFLESSIONI
SU QUALCHE LIRICA TRATTA DA
I DINTORNI DELLA VITA.
CONVERSAZIONI CON THANATOS
DI
NAZARIO PARDINI.
Affrontare la Poesia di un
grande Maestro, che nel vasto e complesso panorama della poesia contemporanea
gode un posto di assoluto rilievo, provoca non poche perplessità soprattutto in
chi non è aduso a trattare e analizzare stilemi, che non si lasciano facilmente
imbrigliare in schemi predefiniti e categorie generalizzanti. Per cercar
affrontare e di penetrare nel labirintico e pur lineare dettato poetico di
Nazario Pardini, occorre, innanzitutto, volgere lo sguardo e fermare
l’attenzione sulle due bisettrici fondamentali, che costituiscono i saldi
piloni della sua solida e complessa poetica. Se da una parte emerge in tutta la
sua granitica potenza la formazione classica, dall’altra non si può tacere la
presenza della Religione, intesa unicamente nel suo aspetto spirituale e
trascendente, come meta, cui l’uomo, finito il percorso terreno, irresistibilmente
tende. Considerare come questi due cardini con tutta la loro complessità interagiscano
nell’animo del Poeta e sollecitino l’uomo a una profonda analisi del suo essere
può spianare la strada a una lettura più proficua e a una meditazione più ampia
su quanto costituisce il tema fondamentale della dotta e raffinata espressione
poetica.
Con una tanto ridotta quanto
meditata trilogia, costituita da I sintorni della solitudine, da I
dintorni dell’amore ricordando Catullo e I dintorni della vita.
Conversazioni con Thanatos, Nazario presenta al lettore contemporaneo riflessioni,
che prendono l’abbrivio da temi e suggestioni lontani nel tempo e nello spazio.
Se non mancano allusioni o richiami espliciti ad autori contemporanei, presente
e fecondo è il dettato degli autori classici nei temi, nei ritmi, nella
scansione del verso, nella scelta di pregnanti lessemi e di ben torniti sintagmi,
che hanno di volta in volta richiesto un intenso e faticoso labor limae.
Questo impegno pone, e giustamente, Pardini al fianco dei più grandi poeti
latini dell’epoca augustea e lo collega alla dotta ed esemplare poesia alessandrina.
Ogni lirica, al contrario di quanto anche un incallito e attento lettore possa
immaginare, rivela un ricco e fecondo retroterra culturale e lunghi momenti di
riflessione spirituale, che difficilmente traspaiono dalla semplice, e pur
profonda, linearità del dettato poetico.
In questa breve riflessione
non prendo in considerazione tutta la trilogia, che richiama alla mente la
produzione tragica greca, ma solo l’ultimo volume,dal titolo I dintorni della
vita. Conversazione con Thanatos. Non a caso ho, per inciso, richiamato
alla mente la struttura degli agoni tragici, che hanno caratterizzato la stagione
letterariamente più bella e feconda della Grecia antica. Nella trilogia, anche
se ogni tragedia può essere considerata opera a sé stante, piena luce e
grandezza d’ispirazione e di concezione sono date dall’insieme delle tre
tragedie. Devo con rammarico dire che le antiche trilogie sono andate tutte
perdute al di fuori dell’Orestea di Eschilo, costituita dall’Agamennone,
dalle Coefore e dalle Eumenidi. L’Orestea è, oggi, di particolare
importanza, perché consente al lettore moderno di avere piena conoscenza di
questa istituzione, che fu la forma normale, e originaria, della drammaturgia
eschilea e dei suoi grandi contemporanei. L’Orestea per la grandiosità
della concezione, per la potenza drammaturgica, per lo splendore della poesia,
costituisce una creazione di assoluta originalità e grandezza, che sfuggono a
qualsiasi schema.
Anche l’opera di Pardini va
letta per intero, nel suo lungo e complesso svolgimento poetico, per poter
penetrare nelle più riposte pieghe di una psiche ricca e complessa, semplice e
meditabonda, classica e moderna a un tempo. Essa, almeno per la produzione
letteraria odierna, costituisce un unicum di estremo interesse per la
bellezza e la profondità della poesia, per la semplicità e la compostezza della
concezione, per la potenza e la linearità dell’espressione lirica.
Prima di addentrarmi nella
lettura dell’opera e considerare le liriche sia nella loro singolarità che nel
loro insieme, sarebbe opportuno che il lettore fermasse per un istante
l’attenzione sulla seconda parte del titolo: Conversazione con Thanatos.
Thanatos,
divinità della mitologia greca, è figlio della Notte per partenogenesi e
fratello del sonno; amante del sangue, ha carattere arrogante, violento,
impulsivo; inflessibile e inevitabile; si rivela nemico implacabile del genere
umano, perché impietoso e dotato di un cuore di ferro, e nulla sfugge al suo
vigile controllo.
In questa parte della trilogia
frequente è il richiamo a Thanatos, diverse le conversazioni con Thanatos,
che sempre, e comunque, è in contrapposizione con Bios, la vita. Ogni
giorno morte e vita si affrontano e si sfidano. Nella lunga e assidua riflessione
su questa lotta perenne, lunga, senza esclusione di colpi, il poeta ha
certamente presente il canto, che la Chiesa, a conforto dei fedeli alle prese
con le contingenze della vita, innalza il giorno della Resurrezione: mors et
uita duello conflixere mirando. Dux uitae, mortuus, regnat uiuus, la vita e
la morte si affrontarono in un duello mirabile. Il duce della vita, che pur era
morto, ora regna, perché vivo.
Nell’intessere volume della trilogia si avverte
l’afflato mistico di questo canto di vittoria, che bios athanatos,
insito nell’uomo, innalza nei confronti di Thanatos, il dio del
passaggio, della fine. Anche se il poeta insiste molto, e giustamente,
sull’incombente presenza di Thanatos, che con la sua potenza travolge
tutto, sottende abilmente ciò che si cela sotto bios, e che costituisce
il motore del mondo poetico con tutta la sua varietà di toni e di temi: eros.
Nella poesia di Pardini non esiste, non si può concepire bios senza eros,
come non si può immaginare eros con tutta la sua potenza creatrice senza
bios. Il fermento creativo nell’anima del poeta è dato alimentato
confortato dall’assidua presenza di eros, che, in questo caso
particolare, perde la materialità, insita e intesa nel senso dell’appagamento
fisico e materiale dell’atto generativo, innato nella natura di tutti gli esseri
viventi. Eros intride nel profondo, a livello inconscio, il
bios del poeta e genera, mediante un impercettibile movimento dei sensi,
un’idea spirituale, successivamente, con la stesura su foglio diventa poesia,
creatura viva, palpitante di vita autonoma. Alla fine di questo processo all’eros,
motore impercettibile della creazione, subentra thanatos, perché, con la
sua fissità, possa permettere al fruitore esterno di captare i segreti moti
d’un animo aperto e proiettato verso l’infinto.
Spinto da un’inimmaginabile uis
interiore, mossa e continuamente alimentata da eros, il poeta è spinto a
fissare sulla carta quanto questi suggerisce, propone, impone, perché
nell’aspetto di thanatos possa giungere là, dove conduce e trova essenza
e appagamento l’atto erotico della poiesis. E tutto ciò è estrinseco
a un atto essenzialmente carnale, insito non nella materialità ma nella immaterialità
dell’ens cogitans, nella persona del poietes. E solo in questo
caso si assiste al miracolo, al mirandum duellum tra bios-eros
da una parta e thanatos-poiesis dall’altra.
Nessun poeta, almeno fino ad
ora, aveva considerato, e proposto, in questo modo le due realtà insite
nell’animo dell’uomo. Si potrebbe chiamare in causa Euripide, che con l’Alcesti,
tra l’altro un dramma satiresco, ha posto a confronto l’eros di Admeto
con l’ineluttabilità della morte, di Thanatos, che viene sconfitto con
l’aiuto di Eracle. In questo caso non si tratta di un processo creativo, ma
della lotta continua tra il bios e Thanatos, in continua costante
tensione nella loro fisicità.
A questa riflessione in
Pardini classicista e cultore dell’antica sophia non manca la presenza
di Lucio Anneo Seneca, il quale ammonisce di aver sempre presente la mors:
l’uomo saggio, infatti, è consapevole che muore giorno dopo giorno. Seneca,
però, indurrebbe a parlare del tempo, che nella produzione lirica di
Pardini diviene una componente imprescindibile, soprattutto se si considera la
poesia un’accurata e puntuale effemeride spirituale. Il poeta siede sul
faldistorio e, mentre attinge alle esperienze del passato, con la riflessione
sul presente si proietta nel futuro. Il tempo, con la fecondità dell’humus,
che l’alimenta, nella lirica del Nostro non ispira pessimismo, ma solo una
cosciente e sensibile riflessione sullo scorrere della vita, che porta con sé,
immancabilmente, gioie e dolori.
Pardini
non considera la vita nel suo tragico svolgimento, in attesa della catarsi, ma
nella lirica contemplazione di quanto, giorno dopo giorno, presenta nel suo
continuo scorrere. Il momento più amaro è costituito dall’allontanamento delle
persone care, che, finito il ciclo temporale, transitano in un’altra dimensione,
consapevoli che uita mutatur, non tollitur: la vita non viene tolta, ma
cambia il suo stato, che da sensibile diventa metasensibile, non più percettibile
dai sensi. Questa nuova dimensione, a una lettura frettolosa, sembra che
spaventi il poeta. Dietro le normali paure, insieme con i naturali timori del
trapasso, si avverte l’animo dell’uomo, che con la sua presenza cosciente e, in
modo particolare, con la sua opera sfida il tempo e permette di intuire
l’oraziano, Car, III, 30, 1: exegi munumentum aere perennius, ho
eretto un monumento ben più duraturo del bronzo. Di Nazario, che dialoga con Thanatos,
il quale, come dice Lucrezio, I, 65-57:
horribili super aspectu mortlibus instans,
primum Graius homo moralis
tollere contra
est
oculos ausus, primusque obsistere contra.
«(Thanatos)
incombeva dall’alto sugli uomini con aspetto minaccioso, e la prima volta un uomo
greco osò levare contro di lui gli occhi mortali e per primo resistergli
contro».
Al
greco Epicuro Pardini sostituisce timidamente se stesso; e, accompagnato dal
magistero senecano, può con serenità dialogare con la Morte, della quale riconosce
il potere, e consapevole lascia intravedere la presenza di Ep., I, 1, 2:
In
hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeteriit;
quidquid aetatis retro est mors tenet.
«in
questo ci inganniamo, perché vediamo la morte davanti a noi, come un avvenimento
futuro, quando gran parte di essa è già passata. Tutto il nostro passato è
ormai sotto il dominio della morte».
Ma è proprio Thanatos,
il quale, come opposizione e negazione estreme di eros-bios, permette al
poeta di innalzarsi alto ed esplorare, non senza mestizia, dall’interno,
l’accidentato percorso dell’uomo, vivente in perenne ricerca di felicità e di
serenità.
A
differenza di Eracle, che si batte con Thanatos, lo vince e gli strappa Alcesti;
in modo del tutto diverso da Orfeo, che scende nell’Ade, commuove con la pietà
del suo canto la regina degli inferi e porta con sé sulla terra Euridice, Nazario
dialoga con l’avversario, cerca di dilazionarne gli effetti laceranti con
pacatezza, nonostante sia cosciente della sua sconfitta. Dalla perdita degli aequales
prova dispiacere, non abbattimento; amarezza, non disperazione; trepidazione
non timore, perché sulle tracce dell’insegnamento cattolico una voce amica gli
susurra: hodie mecum eris in paradiso, oggi sarai con me in paradiso. E
Nazario è pienamente convinto di questa verità, attinta dal battesimo, quando,
in seguito all’immersione nell’acqua purificatrice, è morto a questo mondo e
risuscitato in quello eterno della luce. Nonostante ciò, perdura nella carne
l’inconscio timore del trapasso e manifesta tutta la sua umanità sofferente,
angosciata, abbattuta dall’incertezza d’un viaggio, al quale nessuno è
preparato. Perciò da uomo sereno e cosciente, in un dialogo umanamente sereno
può dire:
-Per dir la verità mi fai
paura,
così macilenta, scheletrita,
coi denti radi in fuori, e le
pupille
che come palloncini si
dilatano
oltre il tuo viso scarno e
sfigurato.
Ma cosa vuoi da me, non ti
aspettavo,
nemica dei miei sogni, infido
scheletro
che
urbi e le mie notti. Cosa vuoi-
In questa strofa, nella quale
la Morte è rappresentata, secondo l’iconografia comune dei secoli di maggior
fervore religioso, come una donna coperta con un lenzuolo bianco, macilenta,
con gli occhi incavati e i denti di fuori, pronta a portar via il prescelto.
Alle masse poco acculturate e incapaci di sottili ragionamenti filosofici e
teologici la Morte doveva apparire bieca, minacciosa, pronta a portar via, prima
o poi, tutti. Con questo atteggiamento lugubre doveva incutere timore soprattutto
nei gaudenti, in quei cristiani, che si abbandonavano ai piaceri, soprattutto
della carne.
Nella presentazione di
Pardini, però, manca l’elemento caratterizzante, perennemente presente
nell’iconografia ufficiale: la falce fienaia, comunemente detta falcione, che,
simbolo di giustizia e di eguaglianza, richiama alla mente la caducità della
vita terrena. All’attento lettore, che forse ignora costumanze di vita
agricola, mi permetto di osservare che la morte è rappresentata sempre armata
non di falce adoperata per mietere il grano, ma di fienaia, più impressionante.
Questa non pochi esperti d’arte, incorrendo in un errore piuttosto grossolano,
chiamano impropriamente falce. Tra i due strumenti agricoli corre una notevole
differenza, che balza agli occhi se si considera la differente struttura: la
falce, di ferro e a forma di mezza luna con impugnatura di legno, si adopera
solo per mietere il grano; la falce fienaio, o falcione, fissato all’estremità
di un lungo manico, è costituito da una lama lunga circa un metro, spessa,
ricurva. Là dove è fissata al manico la lama è larga una quindicina di centimetri
e termina a punta. Con questo attrezzo i contadini tagliano il foraggio per gli
animali con tutto quello che vi cresce, indistintamente.
Anche Pardini, ma solo per
motivi di metrica e di ritmo, mette in bocca alla Morte, a pag. 33 chi volle
la mia falce è la Natura. In questo endecasillabo, come ho appena
osservato, il poeta avrebbe dovuto usare falcione, che, ovviamente, avrebbe
snaturato, irrimediabilmente deturpato il verso.
All’apparire della morte il
poeta per nulla sbigottito, psicologicamente sereno, ha paura solo della sua
presenza: è brutta d’aspetto, ripugnante, scheletrica. Nella breve, intensa,
pregnante prosopografia Pardini riporta il minimo indispensabile, il
necessario, quanto appare all’occhio sorpreso, colto all’improvviso. Il tutto
distribuito in otto versi congegnati con estrema maestria. Allevato nel culto
della misura classica, Pardine apre con un endecasillabo, cui fa seguire un decasillabo,
per poi continuare con l’endecasillabo nella maggior parte dei versi piano.
L’endecasillabo sdrucciolo, invece, è non a caso adoperato solo due volte là
dove il verso, mediante l’enjambenent, si estende, si prolunga nel successivo,
sciogliendosi in una sequenza fonica e immaginifica di rara potenza.
Il poeta affronta la presenza
della Morte da sapiens, conscio della sua venuta, anche se colto quasi
alla provvista le dice: non ti aspettavo, per concludere, senza interrogazione
con cosa vuoi.
La
Morte col suo arrivo pone fine ai sogni dell’uomo e al tempo della sua
permanenza sulla terra. Alle scaturigini della poetica pardiniana va necessariamente
posto, e considerato in tutta la sua portata, il concetto di tempo, in stretto
legame con quello agostiniano, che, mediante la tradizione scolastica, è giunto
fino a noi. In questa categoria, puramente umana, all’uomo, tra il suo inizio e
la fine, è dato di realizzare il suo bios-eros, secondo il pregnante monito
dell’Ulisse dantesco, Inf., XXVI, 118-120:
considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come
bruti,
ma
per seguir virtute e canoscenza.
La
Morte, Thanatos, col suo arrivo improvviso, inatteso, interrompe in modo
inesorabile il seppur limitato continuum, necessario per portare a
compimento quanto l’uomo, ignaro del futuro, progetta. Nell’accorato sintagma: non
t’aspettavo, / nemica dei miei sogni, il poeta, pur cosciente del memento
mori, impresso nella natura umana al momento della nascita, evoca una bella
e attuale osservazione di Seneca, Bev., I,1:
Maior pars mortalium … de naturae malignitate
conqueritur, quod in exiguum aeui gignimur, quod haec tam uelociter, tam rapide
dati nobis temporis spatia decurrunt, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros
in ipso uitae apparatu uita destituat.
«La maggior parte degli uomini … si lamenta per
la scarsa generosità della natura, nasciamo destinati a vivere un periodo
troppo breve di tempo, e questi pochi intervalli di tempo a noi concessi scorrono
così veloci, così rapidi, che, se si fa eccezione per pochissimi, la vita abbandona
gli altri proprio al momento, nel quale si preparano a vivere».
Nonostante
Pardini tenga bene a mente che uita breuis et ars longa, non esita a
ribadire che la Morte tronca i sogni, per la realizzazione dei quali l’uomo
giorno dopo giorno lotta spera soccombe. Ma la morte, con la sua incombente e
ingombrante presenza, gli ricorda che non exiguum temporis habemus, sed
multum perdidimus: non è poco il tempo concessoci, ma ne sciupiamo molto.
In questo dissennato sciupio, Pardini con velate
allusioni richiama alla mente la considerazione, che si legge in eccl.,
1,2 uanitas uanitatum, omnia uanita, vanità
delle vanità, tutto è vanità. Consapevole che tutto quanto è intorno all’uomo è
terreno, contingente, destinato immancabilmente a perire. Perciò, e non a caso,
mette in bocca alla Morte l’agghiacciante verità, che lascia sconvolto anche il
più scettico:
Verrò
da te, da anima negletta,
ti
toglierò gli affetti, le memorie,
ti
toglierò la vista, e quel che è peggio
ti toglierò il pensiero.
Alla uanitas, cui appartiene
anche il pensiero, che caratterizza l’Uomo in quanto ens rationale,
Pardini è intimamente consapevole che, come Orazio del citato carme, ai vv.
6-7, può dire: non omnis moriar multaque pars mei / uitabit Libitinam,
non morirò del tutto, perché di me alla morte sfuggirà la gran parte e, oserei
aggiungere, la migliore. Ciò avviene, perché Pardini con la sua intensa e magistrale
produzione poetica ha eretto un monumentum aere perennius / regalique situ
pyramidum altius, monumento ben più duraturo del bronzo, ben più famoso
dello squallore regale, che ammanta e annienta le piramidi.
Le parole della Morte sono
nude, scarne, essenziali, ritmate, scandite senza tentennamenti, senza i
lenocini della retorica. Dal tessuto narrativo della breve pericope si evince
la scaltrita tecnica della versificazione mediante una sapiente alternanza di
versi di varia estensione metrica. Al decasillabo seguono due endecasillabi
sdruccioli, chiusi dal settenario.
La Morte, secca nella sua
immobile fissità, dice: verrò da te, da anima negletta, per proseguire
con il poliptoto del pronome, posto all’inizio dei tre versi successivi e
seguito dalla ritmata anafora dello stesso, seguito dal medesimo verbo, al
futuro: ti toglierò. Con questa anafora martellante, e vera, studiata e,
per efficacia, non dissimile da Inf., II, 1-3, ricorda al poeta in particolare,
e all’Uomo in generale, il terrificante potere di Thanatos, che lo
sottrae agli affetti, al ricordo e alla vista dei cari. Ma ciò che spaventa di
più è la perdita del pensiero e, con questo, il senso della propria identità
ontologica: con la morte, infatti, l’uomo, privo della facoltà raziocinante,
cessa di essere ens rationale, ens cogitans e l’uomo, sinolo di
anima e corpo, privo di bios viene ridotto alla stregua di qualsiasi
altro animale: e non è più nessuno, non è più nulla.
Questi versi, però, pur
considerati nella loro crudezza, ricalcano molto da vicino il testamento
spirituale di Seneca e quello, ancor più pregnante della mistica francescana: vive
moriturus, perché, come già detto e Pardini ribadisce, a pag. 27, tutta
la vita ti ho tenuta dentro, l’uomo muore non giorno dopo giorno, ma ora
dopo ora. Essi conducono il lettore ad affrontare con coraggio l’incontro con sora
nostra morte corporale, come il Poverello d’Assisi chiamò quel mostro, che
col suo strumento di morte spaventa non pochi, anche saggi. In questi versi non
c’è il trionfo del laicismo, né una becera rappresentazione del destino
riservato agli uomini, ma la presa di coscienza e la piena consapevolezza di ens
cogitans, pronto ad affrontare anche l’ultimo viaggio e a ciò, cui
ineluttabilmente va incontro. E proprio in questa presa di coscienza, la riflessione
su questa nuova e, per molti aspetti, disarmante realtà, sulla scia di Pascal,
l’Uomo può innalzare il trofeo della sua vittoria.
L’Uomo,
come ripetutamente accennato, contrappone a Thanatos soprattutto il suo bios,
il suo profondo sentire, l’eros, che lo immette all’interno della comunità
come ens cogitans e creans. Prendendo le mosse da questa convinzione,
per cantare l’altro aspetto, quello decisamente più bello se colto nella sua
essenzialità e nella sua portata universale, Pardini classicista si allaccia a
Tibullo, gli sottrae Delia e immagina, con le pregnanti suggestioni catulliane,
una lunga e bella stagione d’amore. All’accorto lettore non sfugge, a pag. 31,
la breve e intensa lirica Andiamo insieme, Delia:
Andiamo insieme, Delia,
corriamo a perdifiato,
fino alla fine!
Prendiamo dalla luce solo il
sole,
lasciamo l’ombra ai gorghi
della notte.
Guarda, laggiù in disparte
C’è la falce
Che aspetta di recidere
i
raggi dell’amore.
Su
questi versi è bene soffermare l’attenzione per una breve pausa la riflessione.
In questi scorre lento, cadenzato, meditabondo nella ben calcolata alternanza
di vari metri, ciò che Tibullo, I, 3, 49-54, lontano dalla sua Delia e preso
dall’angosciosa febbre dell’amore, scrive:
tunc
ueniam subito, nec quisquam nuntiet ante,
sed uidear caelo
missus adesse tibi.
Tunc mihi qualis eras longos turbata capillos,
obuia nudato, Delia,
curre, pede.
Hoc precor, hunc illum
nobis Aurora nitentem
Luciferum roseis candida poret
equis.
«In
quel mentre, all’improvviso, senza che nessuno prima mi annunzi, vorrei ritornare
da te e comparirti davanti come un messo venuto da cielo. Allora tu vienimi
incontro, Delia, a piedi nudi, con i lunghi capelli scomposti. E questo io
chiedo: un giorno così radioso a noi l’Aurora porti con i suoi cavalli».
Delia nella poesia elegiaca è simbolo
dell’amore carnale, di Eros, il dio dell’Amore sensualmente inteso, in
tutte le sue sfumature semantiche, e della bellezza. All’idilliaca dolcezza di
Tibullo, che invita Delia a corrergli incontro, all’improvviso, insperato e
inaspettato ritorno, Pardini invita la sua donna a respirare a pieni polmoni il
fremito della natura, che li circonda, dopo una lunga corsa verso i boschi,
lungo i ruscelli, all’ombra delle querce. Il dettato classico si inserisce
nella malinconica distesa del paesaggio toscano, vi rivive in tutti i suoi
aspetti più teneri e lievi e inonda intride vivifica la lirica di un sottile,
appena percettibile erotismo. Se l’evocazione di Delia riporta necessariamente
a Tibullo, Nazario, con un’abile trasposizione attribuisce alla donna del suo bios
fisico quanto appartiene al sommo lirico dell’età repubblicana romana, Catullo,
che ha profondamente segnato l’afflato e il dettato poetico del carme.
La breve e densa pericope del
Pardini, però, non riesce a fuorviare il lettore più accorto, il quale nei compassati versi del poeta toscano rintraccia
il più bello e immediato Catullo, il giovane innamorato mantovano. Il quale si
rivolge alla sua donna e, senza rossore, la invita a godere le gioie dell’amore
più tenero e travolgente con parole di fuoco:
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum seueriorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit breuis lux,
nox est perpetua una dormienda.
«In questa vita, Lesbia, godiamoci l’amore, senza curarci dei
biasimi di questi vecchi barbogi! I giorni tramontano e spuntano, ma noi, una
volta finita questa breve vita, siamo costretti a dormire immobili una notte
senza fine».
Catullo invita la sua Lesbia a
unire alla gioia spensierata della vita e l’ebbrezza spensierata dell’amore, a
non tener conto dei biasimi provenienti dal brontolio di vecchi e arcigni moralisti:
breve è il giorno dell’esistenza sulla terra e, una volta giunti al tramonto,
cadrà su ciascuno di noi il sonno eterno della morte.
All’esuberante slancio
sentimentale dei versi catulliani, che animano il breve componimento,
all’irruenza del ritmo, in Pardini subentra un contenuto, ma altrettanto
vigoroso slancio lirico, col quale incita la sua Delia a mietere le gioie più belle che Eros,
con la sua bellezza perenne, somministra nel tenero abbraccio d’una natura
incontaminata. L’appena percettibile ardenza passionale si traduce in un
ponderato slancio di intima ebbrezza. Pardini, a differenza di Catullo,
sottende allude sfuma in modo mirabile l’irruente gioia dei sensi, che avverte
e comunica con un linguaggio criptico, finemente allusivo. Manca in Pardini,
almeno in apparenza, l’esplosivo e travolgente sentimento, che Eros
infonde nell’anima e anima la poesia del Veronese. Anche se smorza la veemenza
del primo impatto erotico, evidente, invece, il richiamo alla gioia
esistenziale finché la falce, come dirà un po' più avanti, non scenderà a recidere/
i raggi dell’amore.
La metafora pardiniana si
contrappone all’iperbole catulliana e dell’amore e dell’infinita moltitudine di
baci, che infiammano il sublime atto della donazione. Al ritmo vertiginoso e travolgente
del giovane autore latino in Pardini subentra la matura e amara riflessione
della fine troppo vicina, che non permette di assaporare fino in fondo e in maniera
duratura quanto Eros, la misteriosa divinità dell’intramontabile
bellezza, immette, e in maniera prepotente, nel bios di ogni uomo. La fusione
psico-fisica assoggetta Eros alla percezione dei sensi e innalza il bios
al di sopra dei limiti imposti dalle contingenze terrene, sensuali, sensoriali.
Al lieve e spensierato tema
dello scherzo, tipico della poesia neoterica, che non dissolve la sincerità
della gioia, l’impeto dell’immediatezza, l’irruenza sfrenata di cogliere quanto
la physis suscita in quei momenti di incanto sublime, in Pardini si stempera,
almeno nell’apparenza, in un invito quasi anodino a catturare quanto di più bello
possa offrire la luce del sole, la vita, bios, in tutta la sua
poliedrica dimensione.
In questa densa lirica Pardini
eleva alla sincerità della gioia un canto denso di reminiscenze, pregno di
speranze, soffuso d’una serenità panica, che invita a guardare verso il sole,
per coglierne il calore, la luce, la luminosità. Con questa lirica il poeta
avvolge il lettore con un’atmosfera di incanto spirituale, che parte di sensi
per trascenderli col dominio del più bello e più tenero di Eros. La consapevolezza
di questo impercettibile e graduale trapasso permette al poeta, al di là di
ogni contrasto, di stemperare il canto in un dolce ed elegiaco rimpianto della
brevità e della caducità della vita:
saremo nell’oblio della passione
nella latebra dei nostri incantamenti
quando verrà lo scheletro
a coprire di nebbia il breve
viaggio.
Orazio Antonio Bologna
È bello poter apprezzare la colta lettura del Prof. Orazio Antonio Bologna per la poetica pardiniana. Sono entrambi docenti e amici carissimi che ho la fortuna di avere accanto. Quando leggo Orazio, ho la sua voce nella testa e sento le sue pause, i suoi ritorni, la sua tecnica affabulatoria in grado di far comprendere a chiunque ogni suo insegnamento. Spesso ritorna a riprendere un dato, un lessema, un qualcosa che non desidera passi inosservato. Non si smetterebbe mai di ascoltarlo perché spiega per collegamenti ipertestuali. Accenna, infatti, alle antiche trilogie greche (in particolare all’Orestea di Eschilo) per la grandezza con cui sfuggono agli schemi, paragonandoli al trittico di Nazario Pardini costituito da I dintorni della solitudine, I dintorni dell’amore ricordando Catullo e I dintorni della vita. Conversazioni con Thanatos. Perfino della fienaia ci parla, di come quest’attrezzo, usato dalla Morte nella sua iconica rappresentazione, sia diverso dalla falce di ferro usata solo per il grano. Come ben scrive il Nostro recensore, Nazario avrebbe potuto scrivere usando la parola “falcione” (l’endecasillabo, infatti, sarebbe rimasto perfetto): chi volle il mio falcione è la Natura ma tale parola avrebbe deturpato il verso e, anzi, avrebbe fatto pensare a un intento satirico di ben altro significato.
RispondiEliminaIl Pardini, non dimentichiamo mai, è Poeta e Maestro di bottega per tutti noi apprendisti. Un Maestro di bottega sa coniugare etica del lavoro e dignità delle persone perché l’impresa cresca e valorizzi il capitale umano. E qui di capitale ce n’è tanto, forte dell’onestà intellettuale che lo contraddistingue. Del trittico, di cui Orazio ci parla, ho letto e trattato modestamente “I dintorni della solitudine”, ma vorrò leggere anche gli altri due, soprattutto dell’amore. L’amore = Eros: energia della vita! Nazario Pardini è innamorato dell’amore poiché esso è Ente supremo; è sempre presente nella natura mitica dei suoi versi in cui, come ben rileva Orazio Antonio Bologna, è bella l’alternanza:
Andiamo insieme, Delia, corriamo a perdifiato,
fino alla fine!
Prendiamo dalla luce solo il sole,
lasciamo l’ombra ai gorghi della notte.
Guarda, laggiù in disparte
c’è la falce
che aspetta di recidere
i raggi dell’amore.
Qui, dopo il martelliano iniziale, il secondo verso riprende l’accento in quarta sillaba e l’endecasillabo anapestico dissimulato con rima imperfetta interna(disparte-falce): c’è la falce che aspetta di recidere, porta in velocità alla conclusione della strofa. Ma queste in verità sono sottigliezze d’autore, spontanee in Pardini, che possono interessare poco il lettore che empaticamente accoglie e fa risuonare i versi dell’Arenese.
È filosofo coltissimo il Pardini, forgia ogni suo evento poetico con una religiosità intesa come sostanza e tessuto della vita. Non poteva non cogliere questo aspetto il Prof. Bologna filologo, latinista e grecista tra i più grandi viventi che ci riporta i richiami al mito di Thanatos e l’essenza di Tibullo e Catullo.
(…) un invito quasi anodino, dice Orazio Antonio Bologna, a catturare quanto di più bello possa offrire la luce del sole, la vita, bios, in tutta la sua poliedrica dimensione. Perfetto. Che altro si può chiedere a una poesia? Credo nella poesia in quanto etica di relazioni. Non il poeta e il lettore ma l’opera quale frutto della relazione tra i due. Viene meno così l’egotico pensiero di voler comunicare i propri sentimenti e il tutto va a favore dell’idea di raccogliere quelli altrui. Tra la fonesi che viene dai versi e il discorso poetico c’è la noesi propria alla poesia. La poesia esercita il suo potere testuale attraverso la sovrapposizione di ogni atto intuitivo. L’atto intuitivo del Poeta Pardini accoglie il segno che poi risuona nel lettore il quale lo attiva producendo l’atto poetico. In questo sta il “fare” e la potenza divina della creazione poetica che nasce dalla conoscenza intima, primordiale, antecedente a ogni ragionamento ma pur sempre consapevole delle qualità necessarie al suo realizzarsi.