Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
"RINASCERE DA VECCHI", DI GIANFRANCO
LAURETANO
(Puntoacapo Editrice)
La rigenerazione è il fil rouge, il filo conduttore, il leit motiv, il nesso che
annoda i vari momenti di questa raccolta poetica di Gianfranco Lauretano. Un momento aurorale incessante che sorge da un
tramonto altrettanto incessante, da un declino perpetuo, infinito. Punto e a capo, tanto per riecheggiare
il titolo dell'Editrice. Un rinnovamento perenne che sgorga da una stagnazione
perenne, da un'eterna crisi. Ci troviamo sempre nel mezzo di una rinascita che
avviene nel cuore di una decadenza infinita. In queste pagine, pertanto, accade
qualcosa di speciale. Di paradossale, se vogliamo. Di inaspettato, forse di
prodigioso: un vero e proprio capovolgimento, un insperato cambio di prospettiva,
dove scopriamo che le cose non sono mai a senso unico e che negazioni e
affermazioni si giovano le une delle altre.
Apocalisse e
palingenesi, potremmo anche dire. Armonia di contrari, comunque. L'esistenza
annoda e riannoda i viventi in smarrimenti e perdite, in angosce e privazioni,
ma ecco, d'incanto, gli ultimi diventare i primi: grande
metafora del trionfo dello spirito, non sulle ingiurie materiali, ma sulle
offese di una materia arbitrariamente scissa dalle proprie radici spirituali.
Non vorrei però venire frainteso: non è di fede religiosa che sto parlando, pur
non volendo, né potendo, celare la matrice cristiana
di questo poeta e della sua scrittura. Qui si parla di poesia ed è solo di
poesia che qui intendo parlare. Ovvero di spiritualità, della disposizione
dell'anima a rinnovarsi, a stupirsi del mondo, a smetterla di trascinarsi passivamente
nell'esistenza per iniziare finalmente a vivere, anziché lasciarsi vivere come
quasi sempre la costringiamo a fare.
Rinascere dalle
proprie ceneri come l'araba fenice. Risorgere
spiritualmente dalle rovine del mondo, senza tuttavia demonizzare questo mondo,
e anzi amandolo per tutto ciò che ci può dare. C'è indubbiamente un momento di
ribellione, di rifiuto del mondo, di liberazione dagli autoritarismi e dai cosiddetti
retaggi, in quanto l'esperienza del vivere pretende giustamente di essere diretta,
di prima mano. "Tutto ciò che ho fatto e volevo dire", scrive
Lauretano, "aspettava la tua approvazione / padre, tutto consisteva in
quella / ma ho sbagliato". I padri vivono nei figli come il seme nel
frutto ("il figlio che vive glorifica il padre", dice Lauretano),
quindi pensiamo a noi, più che a loro, pensiamo alla nostra generazione: è
l'unico modo per continuare a farli vivere, i padri.
Questa ribellione verso
il mondo si addolcisce tuttavia nel testo, mano a mano che cresce e si potenzia
la coscienza spirituale. Non esisterebbe infatti la liberazione dell'anima in
assenza delle catene che ne imbrigliano la spinta propulsiva. Dunque amore a
trecentosessanta gradi: "Riallacciamo rapporto mondo / ... / Tra te e me
non corre sempre buon sangue / le strade del nulla mi distraggono", ma sta
proprio qui, in questo smarrimento, il seme della possibile rigenerazione. Così, all'improvviso,
tutto appare rinnovato e l'amore, dice il poeta, "esce di casa quasi
straripando, il suo profumo mi segue / e io cammino, cammino per la prima volta
/ e i piedi non toccano neppure il selciato".
Nella poesia
intitolata Tramonto assistiamo a un
incredibile evento ("una rivoluzione, un'era nuova"): "Tutto il
mondo vide quella sera // uno spettacolo, anzi due / il sole che tramontava e
me / che sorgevo, fisso all'apparizione". La rinascita di se stessi nel
crepuscolo del mondo, sta qui la poetica di Lauretano. Dove anche la decadenza
ha un ruolo da svolgere: quello di preparare nel suo notturno grembo le nuove
stagioni aurorali dell'uomo e del mito. Nel cuore nero dell'inverno c'è
"qualcosa che da secoli incede / una sollevazione nel gelo" e
"avanza la rivolta, corre da sempre / un'insurrezione. Anche noi /
risorgiamo come il mondo intero / tutto sta levandosi adesso / nell'inverno
reale e apparente / adesso ossa e anime risorgono / adesso arriva la
rivoluzione".
Se è vero che la
città è sempre allo sfascio, in rovina ("Nessuna malattia / sta guarendo,
nessun problema si risolve / nessun dolore viene risarcito"), è pur vero
che il mondo non è mai totalmente dannato. C'è sempre una luce che si accende
nelle tenebre, come quella del piccolo lavavetri maomettano che nessuno
considera e che sorride all'incrocio, beatamente canticchiando il corano nello
squallore di "una Bologna di vecchi condomini / fiume di macchine e camion
/ palazzi popolari parallelepipedi / croste d'intonaco grigio / grigia gente,
grigia fine di giorno / ... / fiumi di cemento sulla terra / sembra cemento
anche il cielo / che vita abbrutita". Ma se è vero che "un manto
d'inchiostro ha intriso la città", è pur vero che qualcuno sfugge sempre,
furbescamente, all'agguato.
L'amore non fa
scalpore, vive nell'anonimato, rifugge dalle ribalte, dal clamore, dai nomi
celebrati. Di un suo viaggio in Russia, il poeta ama ricordare, si, il suo incontro con la patria di Tolstoj, di Cechov,
di Dostoevskij, ma soprattutto ama ricordare la Russia che silenziosamente l'ha
accompagnato "nella passeggiata notturna di Mosca", aiutandolo a
ritrovare la comunione universale, il giusto senso delle cose. E' sempre all'improvviso che l'amore ci sorprende,
facendo nuovo il mondo e risorgendo "dal vocabolario consumato" che
stancamente ripete il nome delle cose senza più saper parlare delle cose stesse.
Questo vuol dire rinascere da vecchi.
E giustamente il pensiero di Gianfranco corre a Nicodemo, il membro del Sinedrio
che - dice Giovanni - chiede a Gesù come sia possibile rinascere da vecchi, non
potendo rientrare una seconda volta nel grembo materno.
L'interrogato non dà
una risposta (sarebbe dogmatismo), ma invita ad "osservare quegli
stupefacenti colori / di cielo con dentro la terra e di terra con dentro il
cielo". Fuor di metafora, la terra
non basta, occorre fondere materia e spirito. Per cui la conclusione è che
"nascere da vecchi / non solo è possibile - è l'unica cosa
possibile". Si deve però stare sul campo di battaglia dell'amore,
accettando ogni sconfitta ed ogni naufragio per ricostruire sempre il battello
ed orientare sempre meglio la prua. Una lotta infinita, come quella della
figlia dell'autore, "diciassette anni e un innamorato / addirittura non
corrisposto", che si trova "al centro della guerra dell'amore / la
più bella e spietata / quella che lascia sul campo / vittime su vittime e
qualche vincitore".
E si è sempre soli
in questa guerra, spinti da un desiderio di assolutezza inappagato, perché la
convulsa vita separa ciascuno nella propria solitudine ed "ognuno va dove
deve e dove / quasi certamente non vuole" andare. Così, ci troviamo
"gettati nel mondo", come dice Sartre, nella deiezione di cui parla Heidegger, immersi nella vita anonima di tutti e di nessuno, in cui nessuno è
se stesso, presi in un moto vorticoso dove paradossalmente non succede mai
nulla, perché tutto è scontato, ripetitivo, seriale, prodotto in fotocopia. C'è
tuttavia, silenzioso, l'agguato dell'anima, capace di trasformare la solitudine
in coro universale e in estrema compagnia. Soltanto lì, in quelle abissali
profondità che attendono di essere risvegliate, tutto si muove e tutto accade realmente.
Solo lì si può realmente rinascere a nuova vita.
Franco Campegiani
Genzano, 01/02/2020
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