Emanuele Aloisi, collaboratore di Lèucade |
Emanuele
Aloisi. Il mare nell’anima. Gnasso
Editore. 2019
E se fermandomi sulla riva, lo
ascoltassi
il mare, ascolterei le nuvole
mentre s’incarnano
nel volo bianco dei gabbiani,
nel pianto rosso all’orizzonte
che mi ostino
a non vedere, oppure illudermi
che sia lontano
quando pian piano si avvicina
ai piedi
toccando asciutta la mia
pelle, un altro battito di ciglia.
Questo
è Aloisi, e di questo è capace; per lui sperdersi e ritrovarsi in un mare di
poesia, dare l’anima ad un quadro che lo reifichi, significa sfogare il suo
pathos in un lirismo che ti prende e ti
avvolge per la sua fluidità emotiva.
Scrivere sulla sua poesia è come penetrare in quelli che sono gli angoli
più nascosti del suo essere. Per lui la vita è poesia e la poesia è vita. Mi
viene in mente una affermazione di Leone D’Ambrosio: “Dire che il mare sia
parte integrante della vita di un poeta è come rimandare il nostro pensiero ad
Alfredo Panzini che definisce i Poeti (quelli veri e Aloisi lo è) simili al faro
del mare”. E quale potrebbe essere simbolo più vicino alla vita dell’uomo, al
suo eterno viaggiare in cerca di una
verità che gli è negata. Affacciarsi all’immensità del mare significa proprio
cercare quella apertura che va al di là della nostra staticità: “L’invisibile
si materializza/nell’espressione di una percezione/al di là delle parole/ come
fa il sangue nella pietra,/quando respira dalle vene/ e tumultuoso scorre/nella
paralisi di eterno” (Al di là). D’altronde noi umani siamo destinati ad ambire
a quella totalità, a sorpassare i limiti che ci circondano, il fatto è che la
nostra misura mortale non ci permette di estendere lo sguardo oltre il nostro
orizzonte, il faro che illumina una parte del mare rappresenta un po’ l’àmbito
ristretto della nostra perlustrazione emotiva e razionale. Oltre quel fascio di
luce c’è il buio, l’ombra, il chiarore lunare
limitato dai gorghi della tenebra.
Eccolo
il nostro viaggio, il nostro peregrinare in cerca di un riposo irraggiungibile.
Da lì la nostra inquietudine, il nostro disagio di fronte alla grandezza dei
cieli, o alla profondità del mare, o alla imperscrutabilità della morte. Quella
inquietudine che ci fa umani, che ci fa veri, con tutte le nostre insofferenze
del fatto di esistere: “… Dimmi che sei tu/a consolare il giorno/la notte di
una lampada stellata/ il mare di una barca alla deriva/ il tempo di un abisso
senza fondo/ il cielo di una nuvola smarrita./ Dimmi che sei tu/ a conficcarmi
nella carne/ salsedini di chiodi e di germogli” (Dimmi che sei tu). Tanti dubbi, altrettanti interrogativi
infiocchettano pacchi di insoluzioni terrene. Il linguismo si fa aperto,
apodittico, più esteso e meno per seguire le impennare emotive. Ma la parola
non sempre è sufficiente a reificare gli stadi emotivi: la parola è un frutto
terreno, l’animo tende ad andare alle sue origini, alle sue dimensioni celesti.
Per questo il poeta ricorre a stratagemmi stilistici per dare all’animo una
carica superlativa, iperbolico- sinestetica. Si ricorre a congegni prosodici, a
figure significanti per scavalcare i limiti del linguaggio. E il poeta ci
riesce con tutta la sua forza creativa: inventa, si sorprende, si illude, si
disillude, insomma si fa umanamente insofferente, umanamente labile, umanamente dubbioso per rendersi vero. Ci chiediamo spesso chi siamo, dove andiamo,
quale sarà il nostro destino: tanti perché irrisolvibili a cui non possiamo
dare risposta. Forse è l’amore, la cosa più vicina al cielo, che ci permette di
sfiorare l’impossibile, forse è l’immaginazione che ci permette con tutta la
riserva onirica di andare oltre le vele che spariscono all’orizzonte. Amare e
sognare non è poi tanto difficile soprattutto di fronte alla estensione dei
gorghi che si rompono sugli scogli: “… Non
mi capacito potessi farlo,/ potessimo, tuoi figli, dimenticare il lutto/
-nel muro del silenzio seppellirlo-/ lasciando liberi i capelli, gli ulivi
liberi di piangere,/ all’ombra mettere una madre vera/ e sulla testa un
fazzoletto nero” (Un fazzoletto). A meno che il poeta non sia distratto da una
visione paradisiaca che assume una funzione medicatrix: “Quando s’inchinano/ la
terra e il mare/ germoglia un‘ostia/ nel calice dell’orizzonte” (Calice). E’ lì, in tali occasioni che
Aloisi si perde, si annulla; la bellezza dell’universo gli gioca scherzi riparatori, e, per un attimo, la
contemplazione lo rapina facendogli dimenticare il fatto di esistere. Come
d’altronde per il poeta non è normale vivere senza credere: “Credere che sia
normale vivere/ senza sperare, senza credere,/è sopravvivere senz’anima:/
sarebbe inutile pensare eterna/ la carne che marcisce senza terra,/senza una
pietra accanto/ un rivolo di pianto, e di orgoglioso canto” (Credere). Ma è il mare, alfine, quell’immenso
piano azzurro che lo sovrasta, a dargli un input simbolico: vita, fede, amore,
quiete, e sperdimento: “… Parlami d’amore/ tu che sei il legno dell’amore/tu
che sei un velo senza pianto/ all’occorrenza mare/e levami l’arpione dal mio
collo. (Parlami d’amore, dal Cristo velato).
Nazario
Pardini
Meravigliosa analisi del libro di Aloisi e della sua anima
RispondiEliminaGrazie professore Pardini per le parole, per la lettura dell'anima, come ha osservato l'amica Claudia, e ringrazio anche lei. Ma soprattutto grazie, e lei non può immaginarlo, perché ho letto queste parole, oggi, in un momento particolare, difficile. Quanto è straordinariamente bello l'effetto della poesia. Emanuele
RispondiEliminaNazario mette in evidenza con la sua nota, magistrale capacità esegetica le capacità di Emanuele, che sembra fatto della materia stessa della poesia. Un lirismo il suo che avvolge, incanta, incatena e convince che si può nascere con il Dono nel DNA. Un Autore superbo presentato da chi naviga tra i flutti poetici e ha deciso di abitare l'isola dai flutti magici. Un abbraccio a entrambi.
RispondiEliminaMaria Rizzi