Il colloquio con Thanatos. Il poeta
toscano Nazario Pardini nell’ultimo volume della trilogia dell’approccio “ai
dintorni” della vita
Articolo di Lorenzo Spurio
Il nome di Nazario Pardini, poeta, scrittore e
critico letterario, docente di Letteratura Italiana, ben noto anche sulle
pagine digitali da anni, meriterebbe una descrizione che forse un pamphlet non
sarebbe sufficiente, tanto è estesa e prolifica la sua produzione letteraria.
Non solo di poesia, per la quale ha pubblicato decine di titoli, tra sillogi
più o meno ampie, veri e propri repertori dell’anima che condensano esperienze
e fasi del suo vissuto, canzonieri, poemetti, raccolte meticolose, elogi,
canti, e tanto altro ancora. Senza dimenticare il suo costante e fondamentale contributo alla critica letteraria mediante
lo studio attento, approfondito e umano – in una sola parola “dotto” – che ha
riversato verso autori più o meno noti della scena letteraria nazionale e non
solo. I suoi contributi critici, oltre a permettere a vari autori di fregiarsi
delle sue considerazioni ermeneutiche in opere proprie nella forma di
prefazioni, postfazioni e note di lettura, sono diffusi un po’ ovunque ma anche
ben raccolti nella nutrita vetrina online di scritti, Alla volta di Lèucade,
(che porta il titolo di un suo fortunato libro di poesia edito nel 1999,
arricchito da una prefazione di Vittorio Vettori)[1]
dove il professore, con cadenza quasi giornaliera, dà diffusione ai suoi
scritti, vere e proprie esegesi sempre così ricche e particolareggiate,
attentissime allo stile e ai linguaggi adoperati, alle segnalazioni dei volumi
e tanto altro ancora.
Se è vero che la
rete consente di abbattere tempi, distanze e qualsiasi altro tipo di barriera
tra un emittente e un ricevente, è anche vero che spesso può risultare
dispersiva nel poter fornire una corretta
e utile table of contents, per andare a ripescare testi, far riemergere
saggi (magari per trarne una citazione e renderne merito nella bibliografia) o,
in qualche modo, recuperare in forma agevole e sicura quel materiale critico
che nel tempo, come la stratificazione di una roccia sedimentaria, si è andato
accumulando descrivendo striature cromatiche diverse e, al contempo, a rendere
ancor più inscalfibile la materia. A favorire questo approccio sono giunti, in
tempi recenti, quattro mastodontici
volumi editi da The Writer Edizioni rispettivamente nel 2014, 2016, 2018 e
2019 dal titolo Lettura di testi di autori contemporanei, seguiti dalla loro
normale numerazione dei tomi, nei quali il professor Pardini ha convogliato la
gran parte dei suoi scritti – vere e proprie gemme – tra recensioni, saggi,
interviste a lui fatte e concesse ad altri, note di lettura, approfondimenti e
tanto altro ancora. Dei cataloghi ricchissimi non solo nei loro contenuti (vale
a dire le opere contemplate, gli autori letti, approfonditi, analizzati con
onestà e grande scavo nel loro lessico) ma anche negli approcci di
approfondimento al punto che possono di certo essere considerati come dei testi
fondativi, immancabili, di lettura e avvicinamento al testo per chi,
scantonando il lettore qualunquista, voglia davvero poter impiegare gli arnesi
del critico, scoprendone quella che è senz’altro un arte del mestiere. Testi di critica, dunque, ma anche sulla
critica, che possono indirizzare degnamente chi, amante dei libri, abbia
esigenza di immergersi in quel panorama magmatico che è il campo dei
significati, delle allusioni, dei segni nascosti, dei richiami, delle (epidermicamente)
insondabili forme con le quali si può dire senza svelare né determinare in
maniera perentoria.
Numerosi e costanti
anche i suoi contributi sulla rivista di
poesia e critica letteraria Euterpe
nel corso dei suoi quasi dieci anni di attività continuativa tra i quali mi
piace ricordare alcune poesie di grande impatto comunicativo i cui motivi si
dispiegano nelle oscure trame di una memoria dai contenuti ignobili e dolorosi
come in “Carso” (n°14, dicembre 2014) e “In memoria delle foibe” (n°29, luglio
2019) o, di contro, improntate a seguire liberamente di volta in volta i
possibili temi di rimando proposti dai vari numeri come il saggio “Puccini o il
tempo della Turandot” (n°16, giugno 2015) e “Percy Bysshe Shelley e i suoi
peregrinaggi marini” (n°22, febbraio 2017) a testimonianza della vastità degli
interessi e della completa e approfondita padronanza di una materia non solo
classica e letteraria, bensì di ordine sociale e riferita a ogni possibile
campo dello scibile, tra umanismo e tematiche di attualità. Senza dimenticare,
tra i contributi più incisivi, utili e di alto pregio, gli approfondimenti
critici sulla poesia propriamente detta, motivo trainante della sua intera
esistenza, ravvisabili, ad esempio, in “Lingua, linguaggi e poeti” (n°24,
agosto 2017) e nell’avvincente “Società, filosofia dell’utile, ruolo dei
personaggi e difesa della poesia in Chatterton
di Alfred De Vigny” (n°23, giugno 2017).[2]
Alcune note
bio-bibliografiche, però, prima di poter parlare della sua ultima opera poetica, I dintorni della solitudine (2019),
risultano necessarie. Nazario Pardini
(Arena Metato, Pisa, 1937) si è laureato in
Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia, è stato ordinario
di Letteratura Italiana. Prolifica e di
alto livello la sua attività di instancabile poeta, saggista e critico
letterario, per la poesia ha pubblicato Foglie
di campo. Aghi di pino. Scaglie di
mare (1993), Le voci della sera
(1995), Il fatto di esistere (1996), La vita
scampata (1996), L’ultimo respiro dei
gerani (1997), La cenere calda dei
falò (1997), Sonetti all’aria aperta
(1999), Paesi da sempre (1999), Alla volta di Lèucade (1999), Radici (2000), D’Autunno (2001), Dal lago al
fiume (2005), L’azzardo dei confini
(2011), A colloquio con il mare e con la
vita (2012), Dicotomie (2013), I simboli del mito (2013), I canti
dell’assenza (2015), Cantici
(2017), Di mare e di vita (2017), Cronaca di un soggiorno (2018), I dintorni della solitudine (2019), I dintorni dell’amore ricordando Catullo
(2019) e I dintorni della vita.
Conversazione con Thanatos (2019). Molti
i premi vinti fra cui il “Città di Pisa” (2000) nella terna Baudino,
Mussapi, Pardini con Alla volta di Lèucade,
i premi alla Carriera (“Le
Regioni” di Pisa nel 2000, “CinqueTerre” di Portovenere nel 2012; “Portus Lunae”
di La Spezia nel 2012, “Ponte Vecchio” di Firenze nel 2014) e la prestigiosa “Laurea Apollinaris” nel
2013 conferita dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale
dell’Università Pontificia Salesiana. Su di lui hanno scritto, tra gli altri, Mario Luzi, Vittorio Vettori, Paolo Ruffilli, Ninnj Di Stefano Busà, Giuseppe Giacalone, Luigi Filippo Accrocca, Antonio Piromalli, Silvio Ramat, Vittorio Esposito, Antonio Nazzaro, Antonio Spagnuolo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Neuro Bonifazi, Franco Campegiani, Fulvio Castellani, Pasquale Balestriere, Giuseppe Vetromile, Rodolfo Vettorello, Carmelo Consoli, Umberto Vicaretti, Ugo Piscopo, Liana De Luca, Floriano Romboli.
Poeta legato alla tradizione classica e alla poetica
naturalistica (inesauribile nel suo panismo
vegetale e nella comunione con le acque) ma anche alla tradizione decadente e simbolista (poeti maledetti, D’Annunzio, gli
scapigliati[3]) non può non essere
avvicinato, per alcuni suoi componimenti, anche all’esperienza crepuscolare, così distante dalla prosa
lirica o dal frammentismo d’inizio secolo
scorso essendo il suo poetare sempre
sorretto da un estetismo metrico, da
una ricerca di costruzione formale attenta e con richiamo della classicità.
Se si prendono in
esame i titoli delle ultime opere poetiche pubblicate dal Nostro ci si rende
conto di un continuo e progressivo avvicinamento a temi pervasi da
introspezione, considerazione filosofica, finanche melanconia e ripiegamento
emotivo. Non si allude a nessun tipo di pietismo, vittimismo e pessimismo dal
momento che l’intera produzione di Pardini è tesa a innalzare il bello, a
celebrare la vita, a focalizzarsi sugli aspetti di luce piuttosto che nelle
normali e ineliminabili zone d’ombra, asperità, situazioni angosciose e di vero
e proprio derelizione. Tuttavia, come dimostra il lavoro del 2015 incentrato
sul tema dell’assenza, ci rendiamo
conto di una progressivo avvicinamento a un colloquio con un’alterità indistinta perché nelle sue vesti immateriali,
incorporei e vacue. Sono “dialoghi della
possibilità”, vale a dire forme comunicative impiegate dal Nostro con le
quali, di rimando e indirettamente, interroga
se stesso, permettendo a noi lettori di appropriarci delle sue riflessioni
sulla vita, delle considerazioni, inquietudini, perplessità che il poeta, dopo
aver attraversato un’esistenza ricca di episodi, è in grado di porre perché,
diversamente, con molta probabilità, non riuscirebbe a vivere. Sono i dilemmi comuni che, in diversa forma e
in fasi diverse della nostra vita, siamo portati a porci, eppure in questi
interrogativi o labili convincimenti nei quali viene a ritrovarsi, il Nostro
esplica se stesso: dà senso alla poesia che è forma di vita per mezzo della
confessione intima con il suo cosciente. In queste circostanze hanno trovato la
loro concettualizzazione i tre volumi della fortunata e filosofica trilogia poetica del 2019 pubblicata in
rigorosa e autentica veste grafica dallo storico – una delle ultime poche
garanzie editoriali italiane – Guido
Miano Editore di Milano, uscita dopo la speziata Cronaca di un soggiorno nel 2018.
Primo volume della
trilogia è I dintorni della solitudine alla quale ha fatto seguito I
dintorni dell’amore ricordando Catullo e, infine, I dintorni della vita.
Conversazione con Thanatos che è oggetto di studio di questa analisi.
Si dovrebbe partire dalla spiegazione – o dal tentativo di avvicinamento – al
lemma impiegato nei tre titoli di questa trilogia ovvero “i dintorni”.[4]
Il poeta di lungo corso – classicista, ma anche estimatore degli ermetici – sa
bene che compito della poesia non è parlare della noce, semmai del mallo
screpolato che la ricopre. Vale a dire non è un discorso illustrativo né
argomentativo l’impegno poematico, l’atto ispirativo che dà seguito a una creazione
lirica, ma allusivo, collettaneo, approssimativo, cangiante, multiforme e
polisemico, stratificato. Impossibile cercare di intuire certezze e verità
inoppugnabili, il linguaggio poetico adombra un concetto, lo circoscrive in
nebulosa, lo vaporizza, ne estende i principi rendendoli in diffusione – per
quanto la letteratura sia figlia e specchio della vita (sugli insegnamenti di
Sciascia, Calvino e tanti altri ancora, citerei anche la dissociata Sylvia
Plath de La campana di vetro) esse
non potranno mai essere eguagliate. Ecco perché Pardini parla dei “dintorni
della solitudine” vale a dire affronta il tema della solitudine cercando di
approcciarla, di avvicinarsi ad essa, fornendone forse dei tratti che la
distinguono secondo la sua inclinazione, un’approssimazione, una possibile
lettura, formula: non ne dà mai il ragionamento esatto, la lettura sillogica
inconfutabile. Non è un discorso “su” ma “circa”, “attorno”, che lambisce, percorre,
si aggira, conduce un periplo attorno alla materia, la osserva, se ne occupa,
la fa sua come tema, senza mai fagocitarla con la razionalità perigliosa
dell’uomo. In tutto ciò – e se così non fosse non darebbe gli alti esiti che,
invece, riscontriamo – non può venire meno quel senso di “chiarezza, [quella]
capacità espressiva [ricca] di indizi, lemmi straordinariamente efficaci per
stabilire variazioni sul tema, evoluzioni di una cifra ermeneutica di sicura
originalità”[5] come ebbe ad osservare
Ninnj Di Stefano Busà.
De I
dintorni dell’amore ricordando Catullo, con prefazione di Rossella
Cerniglia, il critico romano Cinzia Baldazzi aveva riferito con particolare
attenzione alla “Lettera ad una amica mai conosciuta”, testo incipitario della
silloge, sostenendo che Pardini “dichiara
che il dolore – il tormento – può purificare, però l’appello non coincide con
il sopportare o gestire un’assorta, inerte contemplazione. Al contrario, nella
guerra perpetua, nell’ostinato conflitto dei contrari al cui interno viviamo,
il ruolo a noi destinato è comunque di combattere”.[6]
E questo può essere utile, quale trait d’union, per collegarci al tema e ai
motivi che muovono alla costruzione del volume successivo di Pardini,
interamente dedicato alle conversazioni con Thanatos. Pardini non manca di mostrarsi, anche
nella complicatezza del tema del quale ha deciso di occuparsi, di essere “così
effusivo e così straripante”[7]
per dirla con Vittorio Vettori. Il volume si apre con una precipua e utilissima
nota critica del docente pisano Floriano Romboli (assiduo commentatore
dell’opera poetica di Pardini) che anticipa la trattazione del volume attorno
alla “insistenza e sistematicità alla “Morte” […] L’antitesi vita/morte pervade da sempre il pensiero
e le forme dell’arte degli uomini […] Seneca raccomandava di familiarizzarsi
[con la morte] progressivamente […] Nazario Pardini non ignora di certo la
presenza dolorosa e disorientante della morte, la sua azione distruttiva e
deprivante” (9-11).
Le poesie di Pardini
sono colloqui con “la sagoma di Thanatos
protesa/ come l'ombra di sera” (15)[8],
la signora con la falce che nel
corso della silloge è simbolo della fine delle illusioni, del dolore, della
bieca cattiveria (“ci furono sottratti
dalle fauci/ di un essere insaziabile”, 15) che in senso generale prende la
forma delle più aberranti violenze (“ovunque
sei/ c'è male e distruzione”, in “Morte”, 65), crudeltà, catastrofi e
le stragi che concernono l'uomo: “terremoti,/
guerre fratricide senza fine,/ barche sperdute in mari indifferenti,/ innocenti
caduti in primavera”, 15). Dal primo componimento si evidenzia l'intenzione
del poeta di non voler rendere il tema della morte in forma generale, come
concetto al quale riferirsi, bensì di darne nome e foggia: di distinguerla, di
rappresentarla nelle sue tante forme e voluttuosità. Significativo il
riferimento – che ritorna nella lirica “E quella imbarcazione?”[9]
– alle ecatombe nel Mediterraneo che
fanno seguito ai tanti naufragi di disperati in cerca di un futuro migliore.
Squarci di
conversazione con l'Eterna compagna che
prendono la forma di avvertimento: “E anche tu, morte,/ non tentare l'accesso,
non ti è concesso” (in “È ingolfata la strada”, 17), di reproba denuncia: “Menefreghista,/ insaziabile carnivoro volatile/ si prende il meglio
della mia giornata,/ della mia storia. Senza alcun rispetto” (in “Il
tempo”, 22) con eco shakespeariano:
“Quando penso che ogni cosa che nasce/
resta perfetta solo per brevi istanti,/ che questa immensa scena ci offre sol
fantasmi/ […]/ mentre il Tempo distruttore cospira con la Morte/ per cambiare
il tuo fresco giorno in fetida notte” (Sonetto n°15)[10];
di vero scherno: “E maledetta pure tu, morte” (in “Morte
bianca”, 30); “Vai al diavolo!”[11]
(in “Vai al diavolo!”, 40), c'è anche il tentativo
di riconciliazione: “Non essermi
nemica/ […]/ Tu che sei grande, eccelsa, immarcescibile,/ tu che tutto puoi”
(in “Conversazione con la morte”, 32), e l'accoglimento
della proposta: “Spero che tu mi
colga nel momento/ che sto guardando il mare;/ […]/ meno duro sarà,/ meno
pesante il giorno dell'addio” (in “Conversazione con la morte”, 35),
continuamento di un dialogo ininterrotto:
“Mi è presa la mania di parlare/ con te”
(in “Conversazione con la morte”, 37).
E poi la serie di poesie dedicate, a partire da quella
che ha come destinatario il “Fratello scomparso” deceduto così giovane, che il
poeta anela a rincontrare (“Spero che la
fortuna mi sia amica/ e che mi faccia avere il tuo sorriso/ quando verrò a
trovarti, ad abbracciarti,/ caro fratello mio” in “Lettera al fratello
scomparso”, 18), quella dedicata a un'anziana madre che regge a malapena la
sedia a rotelle per portare in giro la figlia malata: “t'immagini morisse quella donna,/ che fine mai farebbe quell´inferma./
Perché, trucida morte, non le assisti:/ […]/ questo è il caso/ che tu
intervenga ed io sono d'accordo./ Ma tutte e due insieme in un bel volo/ a sorseggiare
il blu; a respirare/ aria di libertà; assieme unite/ in un abbraccio eterno,
meritato” (in “Ogni giorno”, 25), lirica angosciante e di grande attualità
come tema: quando è (umanamente, eticamente, civilmente,
giurisdizionalmente) giusto porre fine
alla propria esistenza, in uno stato di letargia e di impossibile cura? Temi
che ritornano, quelli della legittimità
e del diritto alla morte, in “Oggi ti approvo, morte” in cui si legge: “sono d'accordo con te, questa volta./
Soffriva da tant'anni; il male lo rodeva./ […] senz'altro/ ha smesso di patire”
(41). Una poesia è dedicata a due genitori che hanno perso prematuramente il
proprio figlio (“Ai suoi lati/ padre e
madre abbracciati disperati”, in “Ho visto”, 36) e un'altra a un uomo che è
rimasto ucciso dal trattore che “ha
sbranato l'uomo” (in “Senza rimorso”, 39), finanche la lirica dedicata a
Dante, “uno dei pochi/ a vincere la morte”
(in “A Dante”, 51) sulla sua tomba a Ravenna. In “Dialogo con la morte”, quest'ultima
contraddistinta per essere “macilenta,
scheletrita” (26), senza tergiversare Pardini annuncia il tragico appello “Lo sai che prima o poi faremo i conti/ […] preparati alla fine/ […] fissa
bene/ quello che ti è dintorno” (26), parole alle quale l'io lirico
risponde con dignità e fermezza implorando di lasciarlo stare: “Lasciatemi in pace!/ È inutile tu venga
anguicrinita/ a disturbare i giorni che mi restano./ Voglio viverli senza
pensamenti” (27).
Questo volume di
Pardini fa venire alla mente ad alcune delle opere più struggenti e
affascinanti della letteratura mondiale che hanno posto il tema della morte al
centro delle disquisizioni dell’io lirico: dalla debolezza e inettitudine dei
crepuscolari immersi in tanto grigiore e aria malata che li porta di continuo a
riflettere sulla morte, al decesso dei romantici e alla mania cimiteriale,
finanche alla morte come slancio, dei ribelli d’animo, dei bohémien, dei
maledetti, degli scapigliati, di coloro che non hanno mancato di progettare un
volo ardimentoso. Più propriamente, però, sembra di respirare il linguaggio
cauto e investigativo di Leopardi del Dialogo
della Moda e della Morte dove rifletteva attorno – nei dintorni, appunto – alla Morte che – personificata – così
esordiva nella conversazione: “Aspetta
che sia l'ora, e verrò senza che tu mi chiami”.
C’è, indirettamente
il Pavese straziato di “Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi”, poesia scritta il 22 marzo 1950[12],
(“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi/
questa morte che ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/ sorda, come un
vecchio rimorso/ o un vizio assurdo.// […]/ Per tutti la morte ha uno
sguardo.// Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”) e, nell’humus di questa
poesia di Pardini che battaglia con la morte facendo prevalere la vita, il
desiderio e l’amore, anche Emily Dickinson, Federico García Lorca, Pablo
Neruda, solo per citarne alcuni. Si rivela anche Giovanni Testori che, nell’opera teatrale Conversazione con la morte, dialoga con la “cara, dolce ed eterna
ombra” che di volta in volta assume sembianze diverse, a volte fascinose altre
terrificanti. Nelle trame della poesia di Pardini che affronta in siffatta
forma il tema della morte, la transitorietà dell’umano, la spavalderia del
tempo assassino e la denuncia del male, c’è anche la presenza massiccia della
poesia elisabettiana: la dark lady di
shakespeariana memoria e la sfida beffarda alla morte (che si ritroverà in S.T.
Coleridge) nella poesia “Morte, non essere orgogliosa”[13]
del metafisico John Donne. Qui si
legge: “Morte, non andare fiera, se anche
qualcuno/ ti ha chiamata terribile e potente- tu non lo sei;/perché quelli che
tu pensi di travolgere, non muoiono/ povera morte, né tu puoi uccidere me./
[…]/ Tu sei schiava del fato, del caso, di re e di disperati,/e dimori col
veleno, la guerra e le malattie,/ […]; Morte tu morrai”.
La morte – inquietudine e controversia interiore –
viene a suo modo esorcizzata e allontanata dall'ordinario come il poeta fa in
“Non scriverò di certo, morte” dove si legge: “Scriverò, al contrario, della gioia/ che zampilla dattorno per
i prati/ […]/ Mi piace tutto quello che si oppone/ all'impertinenza della tua
presenza,/ morte” (23).
La morte si offusca con la supremazia del bene e il dominio della luce; il
Bardo inglese scrive: “Al tempo
contrasterai la tua eternità:/ finché ci sarà un respiro od occhi per vedere/
questi versi avranno luce e ti daranno vita” (Sonetto n°18) e l'americana
Emily Dickinson “Chi è amato non conosce morte…”. A loro fa eco Pardini che
annota “Amare è quello che faremo,/ senza
indugi e senza reticenze,/ sarà la nostra fiamma,/ il fuoco che ci incendia/ a
tradire la foga dell'eterno,/ dell'eterno mistero della morte” (in “Andiamo
insieme, Delia”, 31); “Ma la natura vuole
che l'amore/ vinca su tutto a costo di morire” (in “Un ramo secco a terra”,
49). Questa via salvifica di luce e di completa comprensione dell'umana natura,
nel rispetto del limite della Creazione e nella fiducia in una alterità eterna,
sono ben custoditi nella lirica di chiusura del volume, così ricca di bagliori e di riflessi: “La luce incoronò valli ed abissi,/ e tutto
fu chiarore./ […] Si aprirono le tombe,/ la morte si redense in cherubino./
Dovunque fu un abbraccio/ di fratelli, madri, padri;/ […]/ nacquero fiori/ […]/
ci furono romanze/ […]/ E tutto fu sereno,/ e tutto illuminato dalla luce del
cielo./ […]/ non fu più notte/ […] Fu gioia. Fu luce attorno, accecante,/[… ]/
fu luce nelle anime/ che vollero l'amore/ […]/ Tutto fu largo, immenso/ […]/
Vinse l'amore, e nella notte/ si accese la lampada divina,/ grande, enormemente
forte,/ più che d'agosto la calura estiva./ Più che di giorno la gloria del
Signore” (67-68). Ed è proprio in
questo percorso di auto-rassicurazione e di rinata speranza che si procede nel
vivere ordinario, scantonando impervie vie e ombre che s'allargano a macchia d'olio
perché, proprio lì dove, come sostiene il Nostro, “I dintorni riprendono il colore,/ aprendosi in segno di speranza”
(in “Mi sembra che il vento”, 20).
Lorenzo Spurio
Jesi, 27-01-2020
[1] Particolarmente bella la risposta
datami in un’intervista di qualche anno fa nella quale chiedevo al professore
il motivo di questo titolo per uno dei suoi libri e poi per il blog letterario.
Anche se un po’ lunga mi piace riportarla per intero per permettere ai lettori
di apprezzare questo testo così sapiente, ricco, persuasivo, degno della più
alta critica letteraria: “Leucade è l’isola del sogno. Della dimenticanza.
Della rupe da cui si gettavano, in mitologia, i grandi, compresa Saffo
abbandonata dal suo Faone, per dimenticare appunto le pene d’amore. Ma qui
rappresenta il culmine di una ascesa lirica e formale. Il viaggio tormentato di
una memoria che dal ventre della terra riesce a proiettarsi in mondi di onirica
bellezza non per dimenticare, ma per rivivere i grandi e i piccoli fatti della
vita. Ed io ne sono uscito dal salto con tutto il mio bagaglio esistenziale.
Potrei riportare citazioni di tutto il mondo classico, ma una in particolare [(Dum loquimur fugerit invida aetas
(Quinto Orazio Flacco)], credo sia la più vicina al senso di fragilità della
vita, terriccio fertile per la poesia. A cosa mi sono rifatto? Alle memorie di
quella cultura assorbita al liceo, e decantata nell’anima fino a farsi attuale,
esistenziale, autobiografica, e decisa ad uscire a nuova vita. Mi sono rifatto
alla mia storia, alla realtà di ieri e di oggi, aiutato da una natura fattasi
simbolo coi suoi squarci di luce, colle sue corse di dune e ginestre, con le
sue fughe e i suoi ritorni, coi suoi profumi e le sue ombre, a concretizzare
segmenti d’anima. Leucade riguarda il mio credo poetico. Che cosa sia la poesia
è certamente uno degli interrogativi più annosi della storia dell’uomo. La sola
certezza comunque è che necessita, volenti o nolenti, di realtà individuali, di
singole esperienze, di vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal
memoriale all’immaginario, dalla vita al gran senso. E questo volume io credo
trovi la sua compattezza partendo dal sapore della realtà, da ciò che conserva
di primitivo per ampliarsi sempre più verso prospettive di largo respiro, tese
a farci aspirare a qualcosa che svincoli, sleghi. E si fanno avanti il sogno,
la fantasia, l’immaginario che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto
dal bagaglio del memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico,
ma vera vita, vita che resta, filtrata dal tempo, scampata e per questo degna
di esistere in noi nel bene e nel male. E quello che ci tormenta è proprio il
pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro
sogno, chi ad una fede poetica e chi laicamente ad un’isola quale potrebbe
essere quella di Leucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del
dubbio. E Leucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola
dell’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra
problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole.
È Ulisse che riprende la sua navigazione: “Ancora
salperemo / oltre colonne, questa volta mitiche / d’impedimento ai sogni. Là
più lucido / e più eguale all’eterno sarà il liquido / dell’Oceano aperto”
(Il ritorno di Ulisse, vv 43-47). Il linguaggio stesso subisce un’evoluzione di
adeguatezza diacronica. Si insaporisce di termini arcaici, tende sempre più
alla plasticità del distacco marmoreo. Ed è sullo scoglio di Leucade
che si raggiunge il colmo di una scalata lirica che permette sia la
dimenticanza degli affanni esistenziali, la ripulitura per così dire del
vissuto, che l’amore del tutto, ora veduto con altra dimensione umana,
direi quasi ebrietudine dell’immagine che si fa poesia. La circolarità si
compie nei canti arcaici. Dove tutto il mondo prepericleo, in cui secondo me
immensi erano i presupposti immaginativi e creativi, irripetibili per liricità
poetica, dipana una visione superlativa di amor vitae che si fa plenitudine di
canto e di filosofia laica dell’esistenza”, in Lorenzo
Spurio, La parola di seta.
Interviste ai poeti d’oggi (2012-2015), PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016.
[2] Tutti i numeri della rivista di poesia
e critica letteraria Euterpe possono essere letti e scaricati liberamente in
formato pdf cliccando qui: https://associazioneeuterpe.com/leggi-i-numeri-della-rivista/
[3] Non a caso come ha rivelato in
un’intervista da me fatta alcuni anni fa il libro da lui maggiormente amato è Fosca di Igino Ugo Tarchetti da lui
descritto in questi termini: “È un libro della Scapigliatura lombarda. E parla
dell’amore per il brutto, per ciò che si differenzia da quello che comunemente
appare bello. Mi piace soprattutto l’arte della parola dell’autore. La capacità
di rendere semplici certi concetti di per sé astrusi. E poi ci ho trovato,
nella sua contrapposizione al Romanticismo, all’ultimo Romanticismo
piagnucolone del Prati e Aleardi, una forza di reazione letteraria che
sa tanto di nuovo. […] Quel libro l’ho letto, la prima volta, assieme alla mia
ragazza nei tempi dell’università. Magari in quei tempi tutto poteva apparire
affascinante”, in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti
d’oggi (2012-2015), PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016.
[4] Floriano Romboli nella prefazione a I dintorni della vita. Conversazione con
Thanatos (2019) scrive: “[Il poeta] concentra l’attenzione sui “dintorni”
di determinate, capitali situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti
problematici, ne sonda la profondità sentimentale e intellettuale” (7).
[5] Prefazione a Nazario Pardini, L’ultimo
respiro dei gerani, Lineacultura, Milano, 1997.
[6] “Cinzia Baldazzi legge I dintorni dell’amore ricordando Catullo
di Nazario Pardini, Alla volta di Lèucade,
1 settembre 2019.
[7] Prefazione a Nazario Pardini, Si
aggirava nei boschi una fanciulla, ETS, Pisa, 2000.
[8] La poesia che apre il volume, senz'altro
una delle più incisive, s'intitola “Doloroso il viaggio”.
[9] Qui si legge: “E il mare è grande,/ immenso quanto te che tieni addosso/ le vite dei
mortali./ […] ha inghiottito senza alcuna pena/ le cento e più persone alla
ricerca/ di una terra fraterna/ […]/ Ora son li distese in un salone/ le cento
bare; fra tante mi ha commosso/ quella in legno bianco di un bambino/ che
conosceva il mare dell'estate,/ magari quello azzurro di una fuga” (60-61).
[10] Le citazioni dai Sonetti shakespeariani sono tratti dalla edizione di Garzanti anno
2003.
[11] Sono le stesse parole che la Morte
consegna alla “sorella” Moda in Dialogo
della Moda e della Morte di Giacomo Leopardi: “Vattene col diavolo. Verrò
quando tu non vorrai”.
[12] Si sarebbe suicidato qualche mese
dopo, esattamente il 27 agosto 1950.
Sono profondamente grato e molto contento per la pubblicazione anche su questo importante spazio culturale. Grazie, caro Nazario, e buona lettura!
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