Nota critica di GJ Posteraro alla Canzone "Inquietudini"
Maurizio Donte,
collaboratore di Lèucade
Questa canzone di M. Donte è, per diverse ragioni (non solo espressive e
metriche), un esempio significativo del versante specificamente metafisico,
spirituale, religioso e morale della sua poesia lirica. Al pari di altri suoi
testi poetici di ispirazione e di tematica religiose (come, tra gli altri, la
più volte citata canzone-ode rivolta alla Vergine Maria e il sonetto intitolato
'Salmo' e in effetti almeno parzialmente strutturato come tale), anche questa
canzone si presenta conformata come una preghiera, peraltro indirizzata
direttamente a Dio. In essa l'io poetico-lirico istituisce un doloroso e
sofferto dialogo-monologo con Lui, rilevando l'irrimediabile perdita dei
passati e lontani 'giorni amati' e dei 'sogni' (di fatto ormai 'abbandonati')
inseguiti nel tempo antico, l'altrettanto dolente perdita della 'speranza nel
futuro', il rovinoso crollo (nel mondo contemporaneo) delle promesse, delle
speranze e delle illusioni di una volta, la deriva dell'uomo e dei valori
nel presente, la caduta dei 'castelli di sabbia' suoi (ossia relativi al
singolo e individuale io poetico) e (più in generale) dell'intera umanità, la
dolorosa coscienza di avere perduto, smarrito la fede religiosa avuta nel
passato, la presenza costante e schiacciante del male nel mondo... Altrettanto
dolorosamente vengono espressi nel testo il non ritorno e quindi la
scomparsa-eclissi di Dio e la conseguente incapacità-impossibilità per l'io
poetico (e per l'umanità tutta) di ritrovare lui. Proprio l'ansia, la paura e
la sofferenza derivanti all'uomo contemporaneo dalla mancanza-assenza del
Divino e quindi dalla sua solitudine senza Lui vengono qui espresse anche
mediante le vertiginose immagini delle 'galassie' e degli 'abissi insondabili'
del cosmo tra i quali l'io poetico (che rinvia al singolo uomo ma attinge
evidentemente anche a simbolo universale dell'intera umanità contemporanea,
così dolorosamente smarrita nella caproniana - e non solo - 'solitudine senza
Dio') inevitabilmente si ritrova e si vede sperduto,smarrito e solo : immagini cosmiche
che certo più di tutte le altre conferiscono a questa poesia un vertiginoso e
dolente brivido metafisico. In più, con un significativo rovesciamento dello
schema della sofferta, problematica e spesso tragica e assurda 'quête' di Dio
da parte dell'uomo contemporaneo (che ha perso, forse irreversibilmente, il
senso e tutte le serene e fiduciose certezze del Divino e della metafisica
possedute nel passato), ora l'io poetico quasi abbandona questa dolorosa e
folle ricerca di Dio e chiede a Lui di venire a cercarlo, sperando quindi in un
movimento di ricerca che muove non più dall'uomo a Dio ma, appunto, da Dio
all'uomo.
Si conferma dunque uno dei maggiori motivi di novità e di interesse della poesia (in particolare di tematica spirituale, religiosa e morale) di M. Donte, ossia la sua tendenza a esprimere diversi dei più urgenti e dolorosi drammi e problemi dell'uomo contemporaneo mediante un linguaggio poetico e attraverso risorse metriche e ritmiche sostanzialmente tradizionali (ovvero appartenenti perlopiù alla nostra tradizione poetica e versificatoria più aulica e più illustre), anche se l'Autore in ogni caso rielabora in modo personale detti strumenti espressivi. D'altro canto il carattere sofferto, problematico e dolente dei temi e motivi spirituali e religiosi della sua poesia (carattere necessariamente in linea con lo 'spirito del nostro tempo', con lo 'zeitgeist' contemporaneo nonché con la nostra problematica e ipercritica temperie sociale, storica, spirituale, culturale, etica ed epistemologica) collega questi e molti altri suoi versi (ferma restando in Donte una fede religiosa, ancorché appunto dolorosa, problematica e densa di incertezze) agli esiti più sofferti della poesia 'teosofica' del Novecento italiano (è il caso in particolare di autori come il Caproni di 'Il muro della terra', 'Il franco cacciatore',' Il Conte di Kevenhüller' e altre raccolte, e - soprattutto - di un poeta pur sempre credente - anche se in forma parzialmente problematica, al di là del suo essere un sacerdote - come David Maria Turoldo).
GJ Posteraro
Inquietudini
Canzone ABABABABCDEEDC - FFGG
Signore mio lo vedi, vanno incerti
i passi sui sentieri desolati,
smarriti come sempre nei deserti
tra i sassi arsi, sterili, assetati.
Eppure in alto i cieli sono aperti,
ma tacciono da tempo i giorni amati,
e le braccia ricadono, giù, inerti
davanti ai sogni avuti e abbandonati.
Non vedo, nello scorrere i ricordi,
le luci colorate di una volta,
né sento nell'orecchio la parola,
che sola non mi inganna, né desola:
speranza nel futuro mi vien tolta,
perché al tuo dire ormai restiamo sordi.
E vanno alla deriva i continenti
su di un pianeta misero e sperduto
ai margini di tempi promettenti
in cui ingenuamente abbiam creduto.
Immagini di volti sorridenti:
promesse che non hanno mantenuto,
canti di gioia: echi dei credenti
che sospirano un sogno ormai perduto.
E sopra i campi l'anima sorvola
le plaghe desolate della mente:
le promesse smarrite nel futuro.
Così io passo i giorni e non mi curo
di quanto mi rimane del presente,
di quanto la mia anima sia sola.
Di tenebra i pensieri nei miei giorni
che restano davanti alla Tua porta,
dove vorrei trovarti, ma non torni:
qualsiasi speranza è come morta.
Lo Senti, io Ti cerco nei dintorni,
oltre la fiamma in cielo ch'è risorta,
nel crepuscolo spento, nei ritorni
di silenzi smarriti d'ogni sorta.
Così nell'Alto il giorno si scolora,
e cadono nel tempo i miei castelli;
di sabbia la mia vita desolata,
un sogno sulla Terra ancora amata.
E passano i pensieri, sempre quelli:
la fuga dell'istante mi addolora,
e allora Ti rivolgo una preghiera:
Cercami, ché lo vedi, io non posso,
smarrita ho la strada nella sera,
cammino incerto e cado dentro il fosso:
mi è lontana oramai la primavera.
Nell'ultimo orizzonte appare mosso
persino il mio vedere alla frontiera,
là dove il giorno termina, rimosso
dal venire di un tempo sconosciuto,
dal lampo inconsapevole al mistero,
alla mente confusa dal presente.
Lo vedi che mi muovo inutilmente,
fragile come solo il mio pensiero
nella fede che so d'aver perduto.
Non mi lasciare qui, io sono solo,
smarrito tra galassie spaventose
ed abissi Insondabili sorvolo,
dispersi in nubi immense, vaporose,
di stelle che s'illuminano al volo,
ma lo capisci certo, sono cose
osservate da quando, lungo il molo,
pensavo nelle sere silenziose,
a Te che sei lontano all'apparenza,
ma il male è qui presente, lo sai bene,
nel mare che si infrange onnipresente,
con onde ripetute nella mente,
gettando sulla riva nuove pene,
giacché non sento più la Tua presenza.
Soccorso, chiedo o Dio, non mi lasciare
nel mare tempestoso della vita:
speravo almeno allora io d'amare,
ma vedi, quella strada l'ho smarrita.
Amare almeno le persone care,
tenere i loro volti tra le dita,
stretti per sempre a me, da non odiare
neppure chi da noi se n'è fuggita.
Sapessi la stanchezza del presente,
la fuga di ragioni più lontano,
la possibile vita che mi sfugge,
la mente che vacilla e mi distrugge,
l'angoscia che risale piano piano,
lo sguardo che Ti cerca dov'è il niente.
Son qui, mi vedi? Amore, sono solo
e i deserti dell'anima sorvolo,
illuminato da cieli mai aperti,
dallo sconforto, o Dio, di non averti.
Maurizio Donte 20 ottobre 2020
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esprimo la mia immensa gratitudine a Jurij Posteraro e al prof. Pardini, per la nota critica e per l'ospitalità. Cercherò di intervenire a breve, con commenti miei ad altri autori. grazie
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