mercoledì 10 febbraio 2021

NAZARIO PARDINI: "IN MEMORIA DELLE FOIBE"




Per ricordare la Giornata in memoria delle foibe che ricorre oggi propongo a continuazione una poesia drammaticamente bella, profondamente espressiva dedicata proprio al massacro che riguardò gli esuli istriani sotto il regime comunista di Tito.

Carso

di NAZARIO PARDINI

Sopra i suoli dei declivi

del Carso, ci apparve poi una donna

novantenne, coi fiori nelle mani

tremolanti. Sopra quella neve

(rossa neve di morte fu il suo dire

del quale noi restammo assai perplessi

e certamente avvinti) rovistava

per dissodare un varco. Poi si aprì

ai nostri occhi una voragine di un

cunicolo di monte. Sono tipiche,

in quei pianori carsici, le foibe.

Pochi i raggi di sole incastonati

in quei tepali brevi di stagione

tra la neve macchiata dal livore

delle rocce supreme. Con la voce

rotta dall’emozione volse l’occhio

al nascosto strapiombo: “Inverne fosse

che contenete i resti di mio figlio

in fondo al ventre buio, ricevete

questi colori memori di luce.

Fate che questi sprazzi di giardino

che vide i nudi piedi barcollanti

di lui che fu bambino,gli ricoprano

i resti mescolati assieme a tanti

di cui conosco i nomi. Il solo cippo

al quale posso dire una preghiera

è questa nuda pietra, silenziosa

compagna di due legni messi in croce

che solo io conobbi e solo io

ne eressi l’esistenza. Troppe voci

non si udirono più, troppo potere

si scordò di quel sangue”. La mia anima

si rivolse alla donna che in silenzio

chiedeva solamente

rispetto del dolore. Ripeteva 

le solite parole un po’ sconnesse

tra di sé. “Coi camion, mi dicevano,

li portano al lavoro. Camion zeppi

di giovani, di vecchi. Ma tornavano

vuoti. E vuoti ritornavano dai lividi

sentieri. Mi dicevano che i camion

li avrebbero portati sul lavoro

in cima al monte. E muti ritornavano,

ritornavano vuoti verso il piano”.


Poesia estratta da NAZARIO PARDINI, “Si aggirava nei boschi una fanciulla”, ETS, Pisa, 2000, pp. 43-44.

 

5 commenti:

  1. Nazario, tu non potevi rimanere in silenzio. Non conosci la vergogna del silenzio. Ricordi con una lirica che ruba i pensieri, li oscura, li restituisce poi affranti e indegni di perdono. Per aver dimenticato quella madre, che indicava una delle foibe dell'altopiano del Carso. Un terreno simile a una grande groviera dal suolo costellato di voragini, che sprofondano nelle viscere della terra. Quelle viscere inghiottirono il figlio e migliaia di altri esseri umani. Il pathos che emana dai tuoi versi impone pudore. Si respira lo strazio, non sempre ricordato, il martirio di troppi innocenti destinati a una fine mostruosa: denudati, legati, seviziati e sottoposti a un volo di 200 metri. 'I camion che portavano al lavoro' evocano atrocemente i treni che partivano diretti ai lager. Quante creature hanno pagato il prezzo di essere nati altrove? Come se esistesse un posto giusto... Scossa dalla lirica e dal senso di colpa m'inchino alla tua sensibilità e alla tua arte e ti stringo grata.

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  2. Credo di averla letta molto tempo fa questa poesia che trasuda di tristezza e acutezza del male che l'uomo, quando non è se stesso, è capace di fare. Caino è sempre dietro l'angolo,sempre presente quando la sua coscienza è ammantata da quella voglia nera che lo rende meno di una bestia demoniaca e non c'è verso, neppure oggi, ravvedersi perchè dimentico del passato. Solo l'amore di una vecchia madre (dei congiunti)ricorda e torna fino alla fine dei propri giorni a portare/buttare fiori dentro la voragine dove un figlio senza colpa fu spinto. Triste, veramente triste il dettato poetico che compartecipa il lettore nella speranza di un perenne ricordo che ammonisce. Pasqualino Cinnirella

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  3. Mi unisco a Maria, alle sue parole parche ed essenziali come la tua meravigliosa poesia, Nazario carissimo. Sì, quei camion portavano via giovani e vecchi, innocenti con la sola colpa di essere italiani. Fascisti o comunisti che fossero o semplici contadini o pescatori, l'odio li uccise barbaramente. La vendetta li uccise, e chi non morì fu stroncato nel cuore. Io non posso dimenticare i canti di mia madre, la sua tristezza, la sua durezza e la paura. Il desiderio di una cantina piena di conserve, per i momenti inattesi in cui una catastrofe può giungere a distruggere la superficie, a togliere la libertà costringendoci a vivere come topi quando si è leoni. Le pietre del Carso, le pietre di Pola, di un sentiero, della propria campagna, questo portavano nelle tasche, come macigni per non dimenticare mai. Un abbraccio e grazie.

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  4. Nazario Pardini, in questo suo "Carso", ci ricorda una drammatica memoria di particolare suggestività storica.
    La "memoria delle foibe" qui viene incentrata in un'immergere struggente (una donna novantenne con i fiori nelle mani...) dove la Natura perde la sua mutevole vitalità-carismatica per incunearsi in una oscura voragine di morte, dove il Sole non dardeggia ma sembra inchinarsi fiocamente alle feritoie orribili che stravolgono emozioni e sentimenti, dove i fiori si consumano e confondono nell'evocarsi di un cippo e di una croce silenziosi.
    Da questa lirica del "rispetto" per l'immensità del dolore, il Poeta si trasforma anche in (virtuale) osservatore di un'atroce promessa ingannevole che camion pieni e vuoti di umanità (muti) condannano ad una memoria lacerata dall'oblio.
    "Oblio" testimonaito dai numerosi "dettagli" composti in questa elevata liricità pardiniana: cunicoli di buio, neve livida, fosse invernali, pietre nude, silenzi nascosti...
    Una "proposta" dedicata agli esuli istriani nel giorno del ricordo da un Poeta autentico che soffre la "sofferenza" individuale e collettiva.

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