Il
sentiero del Mare
di Maria Rizzi
Carissimi,
voi non lo potete sapere, ma in questo momento stiamo riallacciando, io e Maria
Rizzi, un racconto di vita, iniziato da ragazzini, sospeso e mai interrotto.
Confesso di essere emozionato, oltre che per codesto mio momento personale,
anche per questa prestigiosa location.
Essa
rinnovella in me cari ricordi passati di quando ero ragazzo.
Anche
io, come Maria, ho vissuto la mia giovinezza a Portici.
Diceva
Hercule Poirot: “Per chi ha buona memoria il passato non è mai passato”.
Veniamo
al tecnico.
Posso
racchiudere tutto lo scritto di Maria Rizzi fra due parametri o colonne
fondanti: emozione ed umanità.
Mi
spiego.
“Il sentiero
del mare”.
Nella sua
logica, il titolo del libro suona come una contraddizione dialettica, quasi
un’assurdità, ma essa svanisce non appena si cominciano a scorrere non le prime
pagine del libro, ma già nella prima pagina, dall’ottavo al dodicesimo rigo.
“La ragazza lasciata sul tavolo potrebbe
essere sua figlia. La figlia mai avuta e tanto desiderata. Una belva l’ha
tenuta in ostaggio due giorni, per abusare di lei tante e tante volte e poi
ucciderla nel più assurdo dei modi. Lasciando sui suoi occhi una benda nera.
…..”.
Quattro
righi devastanti, assurdi, spaventosi, raccapriccianti.
Quattro
righi che sospendono il respiro, ma, nel contempo, ti rapiscono e ti stimolano.
Sapete perché?
Perché
è la vita di per sé stessa ad essere più o meno assurda, spaventosa ed
affascinante ad un tempo.
I
protagonisti, vittime e carnefici, complici ed artefici delle vicende,
presentate dalla nostra Maria, sono i giovani.
I
giovani ed il loro mondo, tanto vicino e tanto lontano.
Diceva
Bertrand Russell: “Fortunatamente e sfortunatamente, i giovani non sono una
categoria sociale. Fortunatamente e sfortunatamente, poiché, con la loro spinta
emotiva e la loro forza prorompente, attuerebbero delle riforme sociali in meno
di una generazione, senza, però, dare alla generazione precedente ed a quella
successiva il tempo di adeguarsi”. Un disastro sociale.
I
giovani, dicevamo, e le loro emozioni.
Le
emozioni, che grande motore e carica esistenziale!
Senza
di esse, chiudeva un suo sonetto un poeta napoletano, “…sarriame tanta pupazze ‘e stoppa!”.
Un
antico proverbio indiano recita: “Dimmi
un fatto e apprenderò, dimmi una verità e crederò, ma raccontami una storia e
vivrà nel mio cuore per sempre”.
Gli
“anta” che mi porto sul groppone mi hanno fatto calare in codesta storia con il
mio bagaglio di passato, donandomi delle emozioni, di cui antea.
Ma questo
succede, a seconda del proprio vissuto, in diversa entità, misura, intensità ad
ogni lettore che si cala nelle pagine del libro.
“Il
sentiero del mare” a codeste emozioni dona un volto, un nome, un compito,
un’attività, una ragione, una motivazione, ricoprendo di umanità, ripeto, tutti
i facenti parte del caleidoscopio di vite, racchiuse in esso libro.
Questo
fin dall’esordio, dalle prime battute.
Torno
al capitolo I, al quinto rigo questa volta.
“….Luisa cerca tepore. Accelera il passo,
si stringe nel giaccone di pelle e spera di trovare in casa Roberto. Per
provare a stordire la nausea tra le sue braccia….”. Ciascun
lettore, per le sue vicende personali, il carattere, la cultura, in sintesi,
per tutto il suo pregresso storico, vede e si figura questo o quel personaggio,
e lo immagina in un modo suo, personale e differente da ogni altro lettore.
Codesta
premessa ne richiama un’altra.
Gli
“anta”, come dicevo, che mi porto sul groppone, mi hanno imposto di aver un
angolo di visuale ben preciso e determinato: quello di genitore.
A mano
a mano che o “sorbivo” il caffè con l’anatomopatologa, Luisa, o “mangiavo” un
panino con Segni o “stavo seduto” accanto alla psicologa Laura Perlaghi, mi
sono messo nei panni dei genitori ora di Chiara Lanna, ora di Serena Alletti, ma
anche di Francesco Lonardi, Elisa, Tiziana.
Mi ha
agghiacciato, a pagina 55, l’apparire dei genitori di Chiara e, “…estranei alla vita della
figlia…..barricarsi dietro la fiducia, l’apertura mentale”.
Albert
Einstein metteva in prima posizione, sotto l’aspetto della difficoltà, il
mestiere di genitore.
Codesto
libro ne è un asseverazione e certificazione, nobile e monumentale.
E mi
sono tenuto basso!
Nel
mestiere di “genitore” non si va mai in vacanza e ancor di più in pensione.
Presso
la mia tribù, nel bene o nel male, cascame ultimo di un processo di fusione fra
le lave dell’Etna e le lave del Vesuvio, codesta fusione ha lasciato sempre una
traccia nei nostri modi di essere, di pensare e vivere.
Ci ha
segnati nel cuore e nell’animo.
Eduardo
in “Filumena Marturano” mette in bocca a Filumena, una verità assiomatica per
noi napoletani, frutto del processo, di cui antea.
Filumena
dice: “ ‘E figlie so’ chille ca se teneno
‘mbracce…”. (Sembra una frase che si può facilmente trovare su F/B. Oggi,
grazie a F/B, so’ tutte puete, ma si
domande quaccosa ‘e Boccacio, te portane
‘e mulignane sutt’uoglio! Perdonatemi codesta bizza senile. Grazie).
In
questo libro i figli (per non parlare dei
nipoti, ca coceno cchiù d’’e figlie! Ma questo è un discorso a parte. Mio
personale) i figli, dicevamo, sono presenti nella loro “essenza”.
Sono
presenti per quello che sono o per quello che, a volte, nessun genitore, nel
suo intimo più intimo, vorrebbero fossero: adulti, decisionali, indipendenti,
autonomi. Maria Rizzi ci cala e ci accompagna, nelle vicende, che si sgranano
nel libro, con amore, sensibilità e materna comprensione.
Quasi
tocchiamo con mano quell’umanità, cui accennavo antea e che fa la cifra distintiva e caratterizzante di tutti quegli
investigatori, i quali si ritrovano a scrutare e scavare all’interno della vita,
vuoi delle vittime vuoi dei loro carnefici.
Codesta
umanità smussa, a tratti, la ferocia degli avvenimenti, addolcisce
quell’estrema crudeltà, la quale purtroppo scorre latente.
Quasi
come il fenomeno del “niño”, con
andamento discontinuo, questa ferocia sprofonda, risale ed aggalla, ora nella
dichiarazione di un teste, ora nella scoperta di un nuovo delitto o nel referto
dell’anatomopatologo.
Riusciamo
quasi a vedere codesto manto d’umanità addosso all’Ispettore Segni, in uno ai
suoi collaboratori, e permeare il loro vivere o mentre stanno al bar, a sorbire
un meritato caffè, o in rosticceria a mangiare uno spuntino.
A
cavallo fra fine-pagina 49 e pagina 53, Maria Rizzi delinea uno stupendo
bozzetto di vita familiare. Un meraviglioso cammeo, si direbbe in termine
teatrale, che prende corpo e vita, in modo scoppiettante, generato dalle
pirotecniche asserzioni di principio della mamma di Francesco, la “virago”, dalla
controscena del marito di questa e dalla pacata, quasi serafica,
professionalità dell’Ispettore Stefano Segni.
Va, a latere, solo accennato che l’ottima
Maria già ci ha dato le giuste definizioni e parametrazioni, in ordine alla
professionalità degli organi inquirenti, nella sua “Anime Graffiate”.
All’inizio
di codeste mie poche note, vi ho confessato la mia emozione.
La
ribadisco e la confermo.
Essa
travalica il momento storico, squisitamente personale che attanaglia il mio
vivere a quello di Maria Rizzi, atteso che, purtroppo, ascoltando un
qualsivoglia telegiornale o scorrendo un qualsivoglia quotidiano, la cronaca ci
pone sotto gli occhi delle vicende, che giganteggiano e quasi annullano tutto
quanto partorito dalla fantasia della Nostra.
Mi
sostiene in tale asserzione, ripeto ancora una volta, purtroppo, il saggio
Benedetto Croce, quando dice che tutto
ciò che è pensabile è possibile.
Tornando
alla parte tecnica ed affondando nel plot della vicenda poliziesca, va dato il
giusto riconoscimento ai ritmi incalzanti delle indagini, senza nulla togliere
alla accuratezza degli addetti ai lavori, nonché alla precisione ed alla
padronanza di linguaggio.
Essa
padronanza va ritrovata quando veniamo edotti sulla distribuzione dei compiti
all’interno degli uffici di polizia. Oppure sui rapporti fra il Commissario ed
il Questore. Oppure sulla presenza ed aiuto ora della psicologa o di quel
collega particolare.
A
proposito di tecnicismo.
Va
riconosciuto onore e merito alla prolusione sulla trasmissione e lo sviluppo
dell’AIDS.
Una
decina di righi che di sicuro avrebbero fatto “arreccria’ “ il pisano Galilei, il quale asseriva che “E’ facile parlare difficile, mentre è
difficile parlare facile”.
Mi
avvio alla conclusione.
Un
cenno a parte va fatto alla “poesia” presente nel testo.
Sì,
perché anche se celati tra i “rovi” (si fa per dire) della stesura in prosa, i
fiori stupendi della poesia riescono ad ergersi imponenti e monumentali.
Qui
posso citare a profusione come voglio.
Umilmente
e con il capo cosparso di cenere, chiedo venia se mi sono permesso di apporre
delle “cesure”, dando una veste poetica alla tua prosa.
Ho
peccato di presunzione.
Lo
ammetto e riconosco coram populo et
ceteris.
Pagina
63.
“….Una notte bellissima,
sembra che Dio abbia infilato
un soldino
nella fessura più remota del
cielo
per allestire quella volta
imperlata di stelle…”
Poche
parole che sanno di magia.
Pagina
85.
“…La città è avvolta
in una sottile nebbia
argentea,
una mezza luna
appena sbocciata
sembra dondolare.
Il fiume del tempo trascina le
parole
nel suo vapore bianco….”
La
metafisica si fa musica.
Pagina
151.
“Il fragore delle onde
è l’unica voce rimasta
e le stelle somigliano
a
corde silenziose
di una viola gigante….”
Qui
la musica si fa metafisica.
Chiudo,
per non abusare della vostra pazienza, ma chiudo in bellezza.
Pagina
191.
“….Tutto è immobile nella
notte.
Persino le stelle paiono
essersi smarrite,
solo la luna nuova,
vermiglia,
si staglia nelle tenebre
come tizzone di fuoco….”.
Una
potente forza cromatica che trascina.
Affermava
Pablo Picasso: “Io non cerco, trovo”.
Questo
è quello che succede, avendo tra le mani “Il
sentiero del mare”.
Al
di là degli uomini, dei fatti, dei sogni, nonché dell’età e della storia di
ognuno, ne “Il sentiero del mare” si
trovano dei graditissimi compagni d’avventura, la maggior parte dei quali
rimane invisibile al lettore, ma che assicurano cortesia, conversazione,
ispirazione, sostegno e premura.
Un
lavoro, punto apicale di tante vite, le quali hanno dato il loro apporto per
farne vedere la luce ed a cui vanno di tuoi ringraziamenti finali.
Fra
di esse spicca la figura tuo padre, Nicola Rizzi.
Unisco
ai tuoi i miei ringraziamenti ad una persona, che vedeva lontano, molto
lontano.
Una
persona che ho avuto l’alto onore di conoscere personalmente, anche se, essendo
io in età giovanile, non ho potuto averne piena e compiuta coscienza.
Auguri
di poter vedere e vivere tutte le aspettative, tue e di chi ti ama, ca nun so’ ppoche.
Con
profondo affetto e convinta stima.
Salvatore
Castiello
Ringrazio ancora, commossa, l'amico d'infanzia Salvatore Castiello, l'unica radice che mi resta, insieme ai suoi fratelli, dei primissimi anni di vita. Ritrovarci al Caffè Letterario Le Scuderie della Favorita di Ercolano... mi ha permesso di calarmi nel romanzo, ma soprattutto nell'importanza del passato, di quel passato, che come ha scritto qualcuno, ci sta davanti, non dietro. Ti voglio bene, Sasà e ringrazio infinitamente il Professor Nazario per avermi concesso la gioia di vederti sull'isola più famosa d'Italia!
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