Poesie forti, incisive, apodittiche,
essenziali, che coi loro verbi significanti abbracciano l’amore e il dolore,
l’illusione e la delusione, le emozioni e le sconfitte di una vita che volge le
sue vele verso porti misteriosi e inspiegabili. La natura non fa solo da
cornice a questo tripudio di estasi, a questo rinnovo di empatie e solitudini,
a questo tentativo di vincere una realtà che tutto consuma e ingoia. Anzi, coi
suoi odori, primizie, vegetazioni, caos, frenesie, mari, fiumi e laghi si fa
interprete e corpo di vicende inquietanti e personali. Sembra che il mare con
la sua voce ampia e rumorosa, coi suoi
orizzonti senza fine, si faccia verbo dominante nella poesia del Nostro. Forse
è proprio in quella immensità misteriosa e eterna che vede la possibilità di
spegnere le sue malinconie; le sue disperazioni; in un’alcova in cui ritrovare
immagini care e insostituibili con cui poter rinnovare antiche primavere. Per
cui porsi domande su questa vita che di risposte ne dà poche non è certo cosa
disumana:
La disperazione è un angelo istrione?
Mistero
guazzabuglio.
Un
esercito
serrato nei
ranghi,
eremo
di armi per
combattere.
Questa,
la mia mente
balzana.
Anche se le magre e dolorose risposte si
possono trovare in tramonti che tanto sanno di fine, di soglie che l’Autore non
osa oltrepassare:
Sentieri
aspri
baratri
celesti,
seguo
imperterrito
un malinconico
tramonto.
Pozzi di
fuoco
attorniati da
iene schiumanti,
ahimè
l’angoscia del
cuore
ha stremato le
restanti forze del mio spirito.
Apro
immobile
fermo
non oso
oltrepassare,
non voglio
guardare oltre
mi
soffermo,
dietro la
porta.
Nazario Pardini
Figli loquaci
L’odore dell’aurora ancora alto,
primizie di stagione.
Sotto al promontorio la vegetazione.
Vedo mare, gente, caos e frenesia.
Dermatite costante.
La madre guarda il suo bambino,
gli chiede cos’ha sulla guancia...
una pustola.
La guancia si ingrossa
si screpola e schiude.
Dalla cicatrice si intravede
un terzo occhio...
laido.
Inghiottiti da una tempesta.
I corpi oscillano
indirizzati verso sud,
dove il tepore si incanala nelle falde più
arcane.
Il sole brucia la terra,
la notte schiaccia la città.
Oh oh figli loquaci
continuate a giocare
con le vostre immaginazioni.
Il vostro eco
arriverà all’udito dei fenomeni
naturali.
Tramutate in pianta vostra madre,
in albero vostro padre.
Annaffiate le loro radici ad ogni
crepuscolo,
correte a casaccio
affrontate minacce e paure,
il vostro unico conflitto
è stato di aver chiesto troppo dal
tramonto.
Il sole illumina per istanti
le vostre schiene curve.
Esaurite il vostro oblio.
L’iride
Quante lacrime versate,
mescolate con la pioggia
per nascondermi,
non volevo che mi vedessero.
Falde acquifere sgorganti,
liquido salato.
Le lacrime hanno accarezzato mari, fiumi e
laghi
fino all’accampamento
la desolazione.
Vestito nei panni delle labbra del
maragià,
bagnate da un sorso di vino
dopo aver attraversato il deserto.
Pozzanghere prosciugate
dai raggi del sole,
come lame di pugnale luccicanti.
Faticoso il cammino del Sole
per compiere la sua missione,
terra fertile e madida
acclama calore.
Un canto non udito,
solo dopo la morte sarà considerato.
A caduta libera
prendetemi vivo,
affogo per alitare.
Finitimo a me
visibile nel cielo,
una visione
di archi colorati.
Urto frontale
Urto frontale,
convoglio in corsa
penetra
nella mente sgombra,
sconvolgimento dei sensi.
La felicità è un angelo serioso?
Urlo prolungato,
tepore proveniente dall’ignoto.
Privo di conoscenza,
arti mutilati
occhi spiritati,
spavento intramontabile.
La disperazione è un angelo
istrione?
Mistero guazzabuglio.
Un esercito
serrato nei ranghi,
eremo
di armi per combattere.
Questa,
la mia mente balzana.
L’uomo dietro la porta
L’idea della rinascita ancora viva,
occhi puntati sulla nudità del mare.
Onde eremi di vascelli.
Egloghe indossano sontuose vesti,
tacchi riposti
danzano sullo specchio del mare.
Alla soglia della fusione porta
chiusa,
cielo e mare
color smeraldo.
Una leggenda dice che dall’altra
parte
sia dispotico l’estremo.
Il cuore in petto
come un fiore di cemento piantato.
Privo di odore e colore,
reso curvo
dalla troppa rivendicazione
per le mie esili spalle.
Sono il guardiano
posseggo le chiavi,
accompagnato da una segreta paura.
Finitimo alla porta,
luci e ombre
nuvole si ammassano
a ridosso del mare.
Sentieri aspri
baratri celesti,
seguo imperterrito
un malinconico tramonto.
Pozzi di fuoco
attorniati da iene schiumanti,
ahimè
l’angoscia del cuore
ha stremato le restanti forze del mio
spirito.
Apro
immobile fermo
non oso oltrepassare,
non voglio guardare oltre
mi soffermo,
dietro la porta.
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