IL
NONNO E LA BAMBINA
All’improvviso
l’immagine di una bambina. È vicina alla gabbia dei conigli in una grande
terrazza. Ogni tanto ne prende qualcuno dei più piccoli e lo stringe tra le
mani; lo accarezza. È un po’ il suo baloccarsi di bambina sola. Silenzio
intorno. Dovrebbe a poco venire il suo nonno, compagno di giochi. Si affaccia
alla finestra e lo vede spuntare. Piccolo, con pochi capelli e grossi baffi
ancora un po’ rossicci. Lo saluta di lontano con la mano e il sorriso prende
l’intero viso. Si rintanano in una stanza per giocare. “Nonno, tu eri ingegnere
vero? Me la fai una casina? La vorrei per le mie bambole”. Gli occhi azzurri
sorridono alla bambina. Inizia a disegnare su un grande foglio una casa; poi
ritaglia le porte e le finestre. La casa c’è; ora ci vuole la fantasia per
animarla. Il contatto e la visione scompaiono. Fuga nel tempo di ricordi. Lo
scoppio del carro a Firenze e lei che grida: “Andiamo via, c’è di nuovo la
guerra”. Scappa serrando la mano del nonno e non aspetta l’arrivo della
colombina.
Era
una particolare simbiosi quella che li legava. Una bimba di nove anni
e un
nonno di novanta. Gli fu preparata una grande festa al Forte dei Marmi; profumo
di mare, di legno delle grandi cabine, quasi casette dove rifugiarsi nelle ore
più calde. Tutto ha una fine. Il nonno Antonio muore a novantadue anni. Per la
bambina, la scoperta della morte: un bacio sulla fronte del nonno e quel senso
tragico di gelo sulla pelle indurita. Da allora ricercherà sempre una lampada
nel buio della stanza e nella notte, nel dormiveglia, assaporerà tutti i
ricordi legati a quel tenero amore. Gli anni ricchi di eventi, passioni,
abbandoni, riempiono la sua vita. Rimpiange l’infanzia ormai lontana,
reprimendo i singhiozzi per un amore finito. Una voce lontana chilometri che
vorresti accanto, una voce che ti martella dentro ma che non udrai più. Ma è la
volontà dell’uomo spesso e non la morte a privarti di una presenza. La vita
però è attraversata da spazi aperti: apprezzi il fulgore dorato del grano sui
campi prima della mietitura, e una fuga di nuvole in un cielo che si confonde
con l’azzurro avvolgente di mari diversi ma sempre percossi da spume
boccheggianti. C’è ugualmente solitudine ma è una solitudine amica. C’è intorno
a te una moltitudine di attimi, ora belli, ora tristi. Ti accorgi del
passerotto che beccheggia qualche briciola tra le auto in sosta e i luoghi
esotici, puoi immaginarli a te vicini, vedendo la domenica pomeriggio
Kilimangiaro. La vita è tante cose. Basta saper guardare e ascoltare. Confortare
con la parola chi ha meno di te. Scrivere su un foglio le emozioni provate e
dirsi: “Sono sola ma ho…” e soffermarsi sul frusciare del vento tra gli alberi,
oppure la corsa del fiume nel suo fluire fino a quella piccola cascata tra le
pietre. Punto di arrivo di una passeggiata e la sosta di qualche attimo davanti
ad un altarino con una madonna sbiadita, qualche fiore secco e il ricordo di un
nome.
Quanti
una volta erano e più non sono; quanti ancora varcheranno la
soglia
misteriosa dell’oltre. Sono ormai tanti i giorni sempre eguali ma diversi nel
susseguirsi di notizie angoscianti. Siamo tutti preda di un nemico senza volto,
non possiamo percepirne il contatto ma siamo tutti vittime potenziali e
propagatori di questo male ignoto che uccide. Paura, rabbia, impotenza, ma
anche attenta consapevolezza perché non c’è distinzioni di classi sociali e di
etnia. Nell’ora del terrore con qualche ritardo, il pensiero si volge
all’epidemia di tubercolosi e di malaria con milioni di vittime: erano soltanto
bambini che non potranno più crescere nella carezza del sole. Andare col
pensiero alle guerre in Iraq, Afghanistan, alla enorme povertà dell’India ma
con distacco, come davanti alla proiezione di un film impegnato in una comoda
sala cinematografica. Opprimente la costrizione che limita le sacrosante
libertà dell’uomo ma, almeno, molti di noi sono in case riscaldate con
televisione, musica e cibo. I meno anziani non hanno vissuto la guerra ma forse
adesso ascolteranno con maggior attenzione i racconti dei nonni allora bambini,
terrorizzati dai topi nei rifugi, enormi nella loro memoria e dai proiettili
traccianti che attraversavano le case. Donne eroiche che per salvare i loro
uomini in casa per sfuggire al nemico, trainavano pesanti carretti con sopra
damigiane di acqua. Quella bambina che giocava col nonno, credeva, vedendo la
mamma con le ginocchia piagate, che – i grandi – non sentissero male. Solo i
bambini. Beata sprovveduta innocenza!
Adesso
non ci sono bombe ma squillano le sirene delle ambulanze
assieme
al suono delle campane. Piazze immense deserte nel loro splendore; penombre che
anticipano un numero indefinito di morti. C’è un risveglio di sensibilità; ora
lo sguardo avvolge con tenerezza quelle teste bianche per strada che avanzano
con passo insicuro e il carrello della spesa. Qualcuno ripenserà a qualche mese
avanti quando il nonno era definito un rompipalle che ripeteva vecchi fatti.
Qualche altro, invece, con occhi umidi è consapevole che quel nonno o nonna non
c’è più. Senza risposta il telefono e al letto saranno levate le lenzuola.
Resta però nell’uomo una speranza: nella pioggia di un venerdì, gocce come
lacrime bagnavano la maestà di un Cristo antico (1622 – la peste di Roma –), e
un uomo vestito di bianco, sfidava il vento e la pioggia in una lunga accorata
preghiera di misericordia. Siamo con Te, Francesco e, forse, se avremo un po’
di fede, potremo accettare la solitudine e aspettare che si rinnovi la vita. È
sera: le ombre calano attenuate dalle luci che brillano nelle case. È pur
sempre vita in una dimensione diversa che potremo accettare se non si spegnerà
in noi la speranza.
Firenze,
29 marzo 2020
Anna
Vincitorio
Superbo racconto, questo di Anna Vincitorio. Si parte dalle dolcissime fantasie di una bimba, assecondate da un nonno novantenne la cui dipartita lascia nella fanciulla un vuoto apparentemente incolmabile. Perché "apparentemente"? perché, dice la scrittrice, "è la volontà dell'uomo spesso e non la morte a privarti di una presenza". E a questo punto la riflessione si amplia, giungendo all'oggi, al coronavirus in particolare, ma anche alle guerre, alle povertà e alle tante altre aberrazioni purtroppo esistenti nel mondo. Oggi come sempre, con la differenza tuttavia che la soglia del dolore sembra oramai essersi abbassata vertiginosamente, fino a rasentare lo zero. Molto bella la chiusa, che insiste sull'enorme importanza della fede: "forse, se avremo un po' di fede, potremo accettare la solitudine e aspettare che si rinnovi la vita". Riflessione che faccio mia nel profondo, pur non essendo io un religioso.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Intenso, ispiratissimo e ricco di pathos il racconto chiaramente autobiografico di Anna Vincitorio, che con abilità da scrittrice autentica compie un salto acrobatico tra il passato e il presente e, funambola delle parole, consente al lettore di proiettarsi nel fascino della sua infanzia con il nonno; negli anni della guerra; nel tempo dell'età matura diviso tra gioie e dolori; e nell'attuale, insospettabile fermo - vita causato dalla pandemia. Il testo della nostra Amica si potrebbe dire che è strutturato come un romanzo breve. Raccoglie le stagioni della vita e le semina colorandole con il sapore delle emozioni, i profumi e il canto della natura, il suono assordante del silenzio e della solitudine. Un racconto concepito e scritto con i cinque sensi e con nerbo narrativo di rara incisività. Il fuoco creativo dell'Autrice è alimentato dalle sofferenze, forse rappresentano un atto catartico. Sono ammirata da tanta capacità di 'essere' letteratura senza ricorrere a virtuosismi stilistici, con semplicità e purezza.
RispondiEliminaGrazie di cuore, Anna e un abbraccio.